ISSN 2385-1376
Testo massima
La parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave può essere condannata dal giudice, anche di sua iniziativa, al pagamento di una somma, equitativamente determinata in favore della parte vittoriosa, alla quale, proprio per il carattere officioso della pronuncia, ben può attribuirsi natura sanzionatoria.
E non si può prescindere dai requisiti di cui all’art.96 cpc in quanto diversamente opinando si perverrebbe all’assurdo risultato per cui il solo agire o resistere in giudizio sarebbe sufficiente a giustificare la condanna, soluzione che sarebbe in ampio contrasto con il principio costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost. (oltre alla considerazione per cui il Giudice non avrebbe elementi oggettivi sui quali ancorare la propria valutazione).
Così si è pronunciato il Tribunale di Verona in persona del Giudice dott. Massimo Vaccari, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta il risarcimento danni (patrimoniali e non) promossa dal fideiussore di una società per l’asserita illegittima segnalazione del proprio nominativo in centrale rischi.
In particolare, secondo la tesi attorea la predetta segnalazione era stata favorita da quella della propria congiunta che aveva falsificato, la sua firma e da quella del funzionario di banca che l’aveva autenticata ragione per cui entrambi dovevano ritenersi parimenti responsabili dei danni che ella aveva patito.
Costituitisi in giudizio i convenuti resistevano alle domande attoree rilevando, sia che l’attrice non aveva fornito prova né della avvenuta FALSIFICAZIONE DELLA PROPRIA FIRMA in calce al contratto di fideiussione, né della segnalazione del suo nominativo al sistema bancario, sia che, al momento del passaggio a sofferenza della posizione della società, il fideiussore non risultava essere segnalata nemmeno come garante, poiché essa stessa aveva provveduto ad eliminare ogni evidenza di tale sua qualità dopo che ella aveva contestato di essere garante della predetta società.
In tale ottica i convenuti proponevano domanda riconvenzionale di condanna dell’attrice ai sensi, rispettivamente, dell’art. 89 primo comma cpc e dell’art. 96 cpc.
Il Giudice accogliendo la domanda riconvenzionale ha precisato che la mala fede e la colpa grave rilevanti ai sensi del primo e del terzo comma dell’art. 96 cpc non possono che essere desunti da COMPORTAMENTI SPECIFICI della parte secondo un giudizio di inferenza proprio dell’accertamento della sussistenza dei fatti illeciti, civili e penali.
Nel caso di specie la circostanza per cui l’attrice aveva agito in giudizio avanzando una domanda risarcitoria, di importo consistente, senza fornire l’indispensabile sostegno probatorio era di per sè sufficientemente indicativo di uno stato soggettivo di colpa grave, se non addirittura di mala fede.
Né può essere un ostacolo all’adozione di una condanna ai sensi dell’art. 96 terzo comma cpc la considerazione che il giudizio abbia avuto una durata contenuta atteso che tale risultato è la conseguenza del rigetto da parte di questo giudice delle istanze istruttorie delle parti e non già di un comportamento di spontaneo recesso dell’attrice dai propri assunti originari.
Deve inoltre osservarsi che ogni forma di abuso del processo, anche se limitata, comporta la sottrazione di tempo e risorse alla trattazione di altri giudizi che meriterebbero l’uno e le altre e, in sintesi, determina sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa sempre più scarsa, come è quella del giudizio civile.
Il principale criterio di cui occorre tener conto ai fini della determinazione della condanna ex art. 96 cpc è quello della gravità della condotta temeraria, siccome evincibile, in primo luogo, dal tipo di elemento soggettivo che la sorregge e che è qualificabile come colpa grave sfociante nella male fede.
Quanto alla sanzione la stessa ben può essere determinata facendo riferimento alla somma liquidata a titolo di spese di lite, come avallato dalla Suprema Corte (Cass. Civ., sez. VI, ordinanza 30 novembre 2012 n. 21570 cit.).
Anche la domanda di condanna dell’attrice ai sensi dell’art.89, secondo comma, cpc è stata accolta dal giudice il quale sul punto ha richiamato l’insegnamento della Suprema Corte secondo il quale:”Se è pur vero
che, nel conflitto tra il diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo ed insindacabile ed il diritto della controparte al decoro ed all’onore, l’art. 89 c.p.c. ha attribuito la prevalenza al primo, nel senso che l’offesa all’onore e al decoro della controparte comporta l’obbligo del risarcimento del danno nella sola ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l’esercizio della difesa vero è anche però che la ricorrenza della riferita esimente difensiva può risultare, in concreto, esclusa non solo dalla non inerenza delle frasi sconvenienti all’oggetto della lite, ma anche della loro eccedenza rispetto alle esigenze della difesa” (cfr. ex plurimis Cass., sez. I, 22 febbraio 1992 n.2188).
Testo del provvedimento
All’esito della discussione, il Giudice, dandone integrale lettura in udienza, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
Repubblica Italiana
In nome del popolo italiano
Il Giudice Unico del Tribunale di Verona, sezione IV Civile, dott. Massimo Vaccari
definitivamente pronunziando nella causa civile di primo grado promossa con atto di citazione notificato in data 15 ottobre 2011
da
TIZIA (ATTRICE);
ATTRICE
contro
Banco (CONVENUTO);
CAIA (CONVENUTA)
SEMPRONIO (CONVENUTO)
CONVENUTI
L’attrice ha convenuto in giudizio davanti a questo Tribunale il Banco, CAIA e SEMPRONIO per sentir accogliere le conclusioni di merito di cui in epigrafe.
A sostegno di esse l’attrice ha dedotto che:
– ai primi di gennaio del 2009, aveva ricevuto, in qualità di apparente cofideiussore, unitamente alla propria cugina CAIA della M. M. s.r.l. (società presso la quale l’attrice aveva lavorato fin dal 1991, in quanto impresa di famiglia), una richiesta della Banca, dante causa del convenuto Banco, di pagamento di una serie di importi relativi ad alcuni rapporti bancari intrattenuti dalla predetta società con quell’istituto di credito (in particolare euro 58.009,29 a titolo di mancato pagamento di una rata di un mutuo chirografario ed euro 374.788,63 quale saldo debitore del rapporto di apertura di credito in c/c n.18979);
– poiché non le era mai risultato di aver prestato garanzia personale in favore di quella società aveva richiesto copia del relativo contratto alla banca e, ottenutala, aveva scoperto che su di esso risultava essere stata apposta la propria firma nonché un visto per autenticità della firma apposto da un funzionario dello stesso istituto di credito, tale SEMPRONIO;
– la propria cugina, chiesta di fornire ragguagli in proposito, aveva ammesso di aver falsificato la sua firma asserendo che aveva ottenuto il suo preventivo consenso a ciò, circostanza, quest’ultima non rispondente al vero, secondo l’attrice;
– con missiva del 30 maggio 2009 ella aveva disconosciuto la suddetta sottoscrizione e diffidato la banca dall’agire nei propri confronti;
– successivamente ad CAIA (CONVENUTA) e alla M. M. era stato notificato un decreto, emesso dal Tribunale di Verona, con il quale era stato loro ingiunto di pagare alla S. G. C. BP S.p.A., quale mandataria della Banca, la somma di cui alla missiva sopra citata;
– in seguito a tale evenienza essa attrice aveva appreso da alcuni istituti di credito con i quali aveva rapporti che, figurando come fideiussore inadempiente, il Banco, essendo obbligato per legge a segnalare il nominativo dei soggetti indebitati verso il sistema creditizio, aveva sicuramente inserito il suo nominativo nell’archivio Crif o alla centrale rischi o in qualche altra centrale di allarme interbancaria;
– essa attrice, al fine di scongiurare il pericolo di trovarsi nell’impossibilità di chiedere ed ottenere finanziamenti bancari, mutui o garanzie o aprire conti correnti in data 22 dicembre 2009 aveva sporto denunzia penale nei confronti della CAIA e del SEMPRONIO;
– la sua denunzia aveva dato origine ad un procedimento penale nel corso del quale CAIA (CONVENUTA) aveva ammesso di aver falsificato la firma dell’attrice e il SEMPRONIO, di aver consegnato la copia del contratto di fideiussione alla predetta per farla sottoscrivere da essa attrice e quindi che non era stato presente alla sottoscrizione sebbene l’avesse poi autenticata;
– se anche poteva darsi che al momento della redazione dell’atto di citazione non vi fossero state segnalazione a suo carico esse vi erano sicuramente state al momento della notifica del succitato decreto ingiuntivo (14 agosto 2009).
–
Sulla base di tale prospettazione l’attrice ha sostenuto che il Banco segnalando, erroneamente, il proprio nominativo alla centrale rischi aveva tenuto una condotta illecita nei propri confronti ed era quindi tenuto a risarcire i danni patrimoniali e non patrimoniali che le aveva procurato e ha quantificato i primi nella somma di euro 200.000,00, pari all’importo per il quale era stata presumibilmente segnalata.
Secondo l’attrice la predetta condotta era stata favorita da quella della propria congiunta che aveva falsificato, nelle summenzionate circostanze, la propria firma e da quella del funzionario di banca che l’aveva autenticata ed entrambi dovevano quindi ritenersi parimenti responsabili dei danni che ella aveva patito.
La TIZIA (ATTRICE) ha anche individuato il titolo della responsabilità dei convenuti gli artt. 2043 c.c. e 15 del d. lgs. 196/2003, avendo essi proceduto, a suo dire, ad un illecito trattamento dei dati personali, e, con specifico riguardo alla posizione dell’istituto di credito, anche negli artt. 2049 e 2050 c.c., per non aver esso adeguatamente vigilato sulla condotta del proprio dipendente.
I convenuti si sono costituiti in giudizio resistendo alle domande attoree e chiedendone il rigetto. In particolare la Banca ha sostenuto che l’attrice non aveva fornito prova né della avvenuta falsificazione della propria firma in calce al contratto di fideiussione né della segnalazione del suo nominativo al sistema bancario.
Con riguardo a quest’ultimo profilo la convenuta ha sostenuto di non aver mai segnalato l’attrice come debitore insolvente e che, al momento del passaggio a sofferenza della posizione della M. M., la TIZIA (ATTRICE) non risultava essere segnalata nemmeno come garante, poiché essa stessa aveva provveduto ad eliminare ogni evidenza di tale sua qualità dopo che ella aveva contestato di essere garante della predetta società.
Il SEMPRONIO (CONVENUTO), dal canto suo, oltre a ribadire queste ultime deduzioni, ha sostenuto la piena legittimità del proprio operato sul presupposto che l’autentica della firma della fideiussione da parte del funzionario dell’istituto di credito non aveva la funzione di attribuire pubblica fede alla provenienza della stessa ma solo quella di ragionevolmente attribuibile al soggetto dal quale sembra provenire.
SEMPRONIO e CAIA (CONVENUTI) hanno avanzato in via riconvenzionale domanda di condanna dell’attrice ai sensi, rispettivamente, dell’art. 89 primo comma c.p.c. e dell’art. 96 c.p.c.
Ciò detto con riguardo alle prospettazioni delle parti e all’iter del giudizio va affermata la palese infondatezza della domanda attorea che pertanto va rigettata.
Innanzitutto può ritenersi acclarato che fu la convenuta CAIA a sottoscrivere, anche a nome dell’attrice, la fideiussione per cui è causa, dal momento che tale parte ha espressamente ammesso la circostanza durante l’interrogatorio reso alla polizia giudiziaria nel corso delle indagini avviate nei suoi confronti dopo la denunzia sopra citata (si veda il verbale di interrogatorio prodotto sub 11 dall’attrice) e nel corso del presente giudizio non l’ha specificamente contestata.
Si noti poi che una simile condotta non può nemmeno ritenersi scriminata, secondo quanto sostenuto dalla convenuta, dalla preventiva e piena adesione alla conclusione del contratto di fideiussione che, secondo CAIA (CONVENUTA), l’attrice avrebbe manifestato a lei.
Su questo specifico profilo occorre infatti rammentare l’orientamento della Suprema Corte, opportunamente richiamato dalla difesa dell’attrice, secondo il quale, ai fini della sussistenza del reato di falso in scrittura privata,”non ha alcuna incidenza il consenso o l’acquiescenza della persona di cui venga falsificata la firma, in quanto la tutela penale ha per oggetto non solo l’interesse della persona offesa, apparente firmataria del documento, ma anche la fede pubblica, la quale è compromessa nel momento in cui l’agente faccia uso della scrittura contraffatta” (Cass. 24 ottobre 2003 n. 42790).
A quanto appena detto è opportuno aggiungere che CAIA (CONVENUTA), nella summenzionata occasione, diede una versione del ruolo del SEMPRONIO pienamente conforme a quella che questi ha reso nel corso del presente giudizio, e secondo la quale la firma attribuita all’attrice non venne apposta in sua presenza, cosicché, nel momento in cui egli l’autenticò, effettuò una valutazione di corrispondenza tra di essa e quella depositata presso la banca. Alla luce di tale emergenza va escluso nei confronti di tale soggetto l’elemento soggettivo dell’ipotizzato reato di falso in scrittura privata e conseguentemente anche la responsabilità dell’istituto di credito ai sensi degli artt. 2049 c.c.
Ciò detto resta da valutare l’ulteriore assunto dell’attrice secondo il quale i convenuti sarebbero comunque responsabili nei suoi confronti ai sensi dell’art. 15 del d. lgs. 196/2003, norma che contempla, mediante espresso rinvio all’art. 2050 c.c., una particolare ipotesi di responsabilità oggettiva per chiunque cagioni ad altri un danno per effetto del trattamento dei dati personali.
Va peraltro precisato che, secondo la prospettazione attorea, la condotta illecita dell’istituto di credito sarebbe consistita nel ritardo nell’aggiornamento della sua posizione nella centrale rischi, dopo che con la propria raccomandata del 30 maggio 2009 (doc. 5 di parte attrice), era venuta a conoscenza della falsità della sottoscrizione della fideiussione. Secondo la TIZIA (ATTRICE), infatti, al momento della notifica del decreto ingiuntivo ella risultava ancora segnalata come garante inadempiente.
Orbene l’attrice non ha dimostrato la predetta circostanza, sebbene fosse stato suo onere farlo, dopo che i convenuti SEMPRONIO e Banco l’avevano espressamente negata e l’istituto di credito aveva anche prodotto all’atto della sua costituzione un estratto dell’interrogazione alla centrale rischi dal quale non risultava nessuna negatività a carico della TIZIA (ATTRICE).
A ciò aggiungasi che la difesa dell’attrice, solo con la memoria ai sensi dell’art. 183 6° comma n.3 c.p.c., ha avanzato una richiesta di ordine di esibizione, da qualificarsi più propriamente come di autorizzazione alla produzione, dell’estratto delle segnalazioni effettuate a proprio nome presso la centrale Rischi che è palesemente tardiva, in quanto diretta a dimostrare una circostanza che era stata specificamente negata dai convenuti già al momento della loro costituzione in giudizio.
A prescindere da tale considerazione, di ordine strettamente processuale, non può sottacersi che, a ben vedere, il documento che l’attrice ha inteso far acquisire agli atti del giudizio conferma pienamente quanto sostenuto dai convenuti poiché da esso emerge chiaramente come la TIZIA (ATTRICE) fosse stata segnalata solo fino a maggio del 2009, quindi fino al periodo immediatamente successivo alla diffida sopra citata, come garante non escussa della M. M..
Alla luce di tale risultanza può pertanto affermarsi che il Banco provvide tempestivamente a rimuovere anche quella segnalazione che, peraltro, era inidonea ad allarmare i terzi con i quali la TIZIA (ATTRICE) potesse aver avuto rapporti all’epoca dei fatti e quindi anche ad arrecarle qualsiasi pregiudizio.
Venendo alla liquidazione delle spese di lite esse seguono la soccombenza e vanno quindi poste a carico dell’attrice e si liquidano come in dispositivo applicando, in conformità all’insegnamento espresso dalle sentenze delle Sezioni Unite nn. 17045 e 17406 del 12 ottobre 2012, i parametri forensi introdotti con il regolamento n.140/2012, entrato in vigore il 23 agosto del 2012.
Passando alla concreta determinazione della somma da riconoscere ai convenuti a titolo di spese di lite occorre tener presente da un lato che la presente controversia rientra nello scaglione di quelle di valore da euro 100.001,00 ad euro 500.000,00, che essa si è articolata in tutte le fase contemplate dal d.m.140/2012 e che la fase istruttoria si è limitata al deposito delle memorie ai sensi dell’art. 183, comma 6 c.p.c.
Tenuto conto del numero delle questioni trattate dalle parti i valori medi di liquidazione dei compensi previsti dal d.m.140/2012 per tutte le fasi, ad eccezione di quella istruttoria, vanno aumentati del 20 %, cosicché si arriva ai seguenti importi euro 3.900,00 per la fase di studio, euro 1.980,00 per la fase introduttiva, euro 4.860,00 per la fase decisoria Il compenso per la fase istruttoria va invece ridotto nella misura massima prevista dal regolamento del 70 % così da risultare pari ad euro 975,00.
Il compenso spettante a ciascuno dei convenuti per l’intero giudizio è pertanto di euro 11.715,00.
Al convenuto SEMPRONIO va riconosciuto anche il rimborso delle spese documentate, ammontanti ad euro 214,25, in conformità alla nota spese dallo stesso dimessa. Agli altri convenuti può riconoscersi un rimborso delle spese di scritturazione e di estrazione di copia degli atti processuali, calcolate in via presuntiva in euro 80,00 in favore di ciascuno di essi.
Merita di essere accolta anche la domanda di condanna dell’attrice ai sensi dell’art.96 c.p.c. che la convenuta CAIA ha formulato già con la comparsa di costituzione e risposta. La medesima pronuncia può però essere adottata anche in favore degli altri due convenuti, pur in difetto da parte loro di analoga istanza di condanna, in applicazione del terzo comma della norma sopra citata, come introdotto dalla L.69/2009.
Tale norma, infatti, prevede che il giudice possa, anche di sua iniziativa, condannare la parte soccombente al pagamento di una somma, equitativamente determinata, in favore della parte vittoriosa, alla quale, proprio per il carattere officioso della pronuncia, ben può attribuirsi natura sanzionatoria.
Il presupposto per l’applicazione di tale disposizione, ad avviso di questo giudice, è il medesimo previsto dal primo comma dell’art. 96 c.p.c., ossia che la parte soccombente abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave (così anche Cass. Civ., sez. VI, ordinanza 30 novembre 2012 n. 21570).
Questa infatti è l’interpretazione più convincente, anche perché costituzionalmente orientata, della norma, essendo evidente che, se si prescindesse dai predetti requisiti, il solo agire o resistere in giudizio sarebbe sufficiente a giustificare la condanna e tale soluzione pare in contrasto con il parametro dell’art. 24 Cost., senza contare che il Giudice non avrebbe elementi oggettivi ai quali ancorare la propria valutazione.
Ad ulteriore sostegno di tale esegesi milita l’argomento costituito dall’abrogazione, sempre da parte della L.69/2009, dell’ultimo comma dell’art. 385 cpc, che prevedeva la possibilità per la Corte di Cassazione di condannare d’ufficio la parte soccombente che avesse proposto il ricorso o vi avesse resistito, quantomeno con colpa grave, ad una somma equitativamente determinata non superiore al doppio dei massimi tariffari.
Infatti pare incongruente rispetto a tale scelta la tesi che la condanna ex officio per lite temeraria possa ora prescindere del tutto dai predetti requisiti soggettivi.
Essi invece, in quanto previsti dal primo comma dell’art. 96 cpc, integrano “verticalmente”, come è stato osservato efficacemente da un autore, la nuova ipotesi.
Ovviamente la mala fede e la colpa grave rilevanti ai sensi del primo e del terzo comma dell’art. 96 c.p.c. non possono che essere desunti da comportamenti specifici della parte secondo un giudizio di inferenza proprio dell’accertamento della sussistenza dei fatti illeciti, civili e penali.
Nel caso di specie reputa questo Giudice che la circostanza che l’attrice abbia agito in giudizio avanzando una domanda risarcitoria, di importo alquanto consistente, senza fornire l’indispensabile sostegno probatorio ai propri assunti e offrendo anzi, sia pure tardivamente, significativi elementi a conforto della tesi di controparte è sufficientemente indicative di uno stato soggettivo di colpa grave, se non addirittura di mala fede.
Non osta alla adozione di una condanna ai sensi dell’art. 96 terzo comma c.p.c. la considerazione che il presente giudizio abbia avuto una durata contenuta.
Innanzitutto tale risultato è la conseguenza del rigetto da parte di questo giudice delle istanze istruttorie delle parti e non già di un comportamento di spontaneo recesso dell’attrice dai propri assunti originari.
In ogni caso, poi, ad esso può attribuirsi rilievo solo ai fini della determinazione della entità della sanzione da comminare, potendosi ritenere contenuto il pregiudizio arrecato alle controparti con la suddetta condotta, ma non vale anche a far escludere qualsiasi profilo di responsabilità a carico dell’attrice.
In linea generale deve infatti osservarsi che ogni forma di abuso del processo, anche se limitata, comporta la sottrazione di tempo e risorse alla trattazione di altri giudizi che meriterebbero l’uno e le altre e, in sintesi, determina sprechi ingiustificati e insostenibili di una risorsa sempre più scarsa, come è quella del giudizio civile.
Il principale criterio di cui occorre tener conto ai fini della determinazione della condanna ai sensi del terzo comma dell’art. 96 c.p.c. è quello della gravità della condotta temeraria, siccome evincibile, in primo luogo, dal tipo di elemento soggettivo che la sorregge e che, nel caso di specie, è qualificabile come colpa grave sfociante nella male fede.
La sanzione ben può essere determinata facendo riferimento alla somma liquidata a titolo di spese di lite, tanto più dopo che tale criterio è stato avallato dalla Suprema Corte (Cass. Civ., sez. VI, ordinanza 30 novembre 2012 n. 21570 cit.) e nel caso di specie si stima adeguata quella di euro 5.000,00, di poco inferiore alla metà di quella riconosciuta alle parti a titolo di rimborso delle spese di lite.
Anche la domanda di condanna dell’attrice ai sensi dell’art. 89, secondo comma, c.p.c che è stata avanzata dal convenuto SEMPRONIO è meritevole di accoglimento.
L’attrice infatti in atto di citazione ha riferito una serie di circostanze riguardanti tale parte, che non erano vere, ossia che egli era indagato nel procedimento penale avviato a seguito della denunzia della TIZIA (ATTRICE) e che in sede di interrogatorio aveva confessato di aver concorso nella falsificazione della sottoscrizione della attrice. Il SEMPRONIO invece non solo non è mai stato indagato nel succitato procedimento, e conseguentemente non poteva nemmeno aver reso interrogatorio, ma aveva anche fornito una versione del proprio ruolo nella vicenda per cui è causa significativamente diversa da quella che gli ha attribuito la attrice.
Le predette espressioni in quanto inveritiere hanno ecceduto sicuramente le esigenze difensive della TIZIA (ATTRICE) ed hanno leso la reputazione del convenuto ancor più se si considera che di esse ha avuto contezza anche il suo datore di lavoro, che nulla poteva sapere di quale fosse la reale condizione del SEMPRONIO nell’ambito del procedimento penale sopra menzionato e che pertanto ben può aver ritenuto che essa gli fosse stata taciuta fino a quel momento.
Sul punto giova rammentare l’insegnamento della Suprema Corte secondo il quale:”Se è pur vero
che, nel conflitto tra il diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo ed insindacabile ed il diritto della controparte al decoro ed all’onore, l’art. 89 c.p.c. ha attribuito la prevalenza al primo, nel senso che l’offesa all’onore e al decoro della controparte comporta l’obbligo del risarcimento del danno nella sola ipotesi in cui le espressioni offensive non abbiano alcuna relazione con l’esercizio della difesa vero è anche però che la ricorrenza della riferita esimente difensiva può risultare, in concreto, esclusa non solo dalla non inerenza delle frasi sconvenienti all’oggetto della lite, ma anche della loro eccedenza rispetto alle esigenze della difesa” (cfr. ex plurimis Cass., sez. I, 22 febbraio 1992 n.2188).
Al convenuto spetta pertanto il ristoro del danno non patrimoniale conseguente che può stimarsi in via equitativa nella somma di euro 8.000,00 avuto riguardo, da un lato, alla gravità della offesa patita e dall’altro al limitato ambito soggettivo nel quale essa è stata diffusa. Su tale importo trattandosi di credito di valore spettano gli interessi legali e la rivalutazione monetaria dalla data del fatto, corrispondente a quella della notifica dell’atto di citazione a quella di pubblicazione della presente sentenza.
P.Q.M.
Il Giudice Unico del Tribunale di Verona, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa e respinta, rigetta la domanda avanzata dall’attrice nei confronti dei convenuti e per l’effetto condanna la prima a rifondere ai secondi le spese di lite che liquida nella somma complessiva di euro 11.795,00, di cui 11.715,00 per compenso ed il resto per spese, oltre Iva se dovuta e Cpa, in favore di CAIA (CONVENUTA) e del Banco e in euro 11.929,25, di cui 11.715,00 per compenso ed il resto per spese, oltre accessori in favore di SEMPRONIO.
Visto l’art. 96, terzo comma c.p.c. condanna l’attrice a corrispondere a ciascuno dei convenuti la somma di euro 5.000,00;
Visto l’art. 89, comma 2, c.p.c condanna l’attrice a corrispondere al convenuto SEMPRONIO la somma di euro 8.000,00 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria su di essa dalla data di notifica dell’atto di citazione a quella della pubblicazione della presente sentenza e agli ulteriori interessi sulla somma complessiva così risultante dalla data di pubblicazione della presente sentenza e quella del saldo effettivo.
Così deciso, in Verona,
Il Giudice Unico
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Numero Protocolo Interno : 206/2013