L’uso del denaro contante è oggetto di attenzione da parte dei soggetti destinatari degli obblighi di cui al Decreto Antiriciclaggio (D. Lgs. n. 231/2007), soprattutto per quanto attiene l’analisi dell’operatività della clientela e l’invio delle segnalazioni di operazioni sospette a UIF – Unità di Informazione Finanziaria. Le carte di credito prepagate rappresentano uno strumento per versare e prelevare denaro contante presso gli sportelli ATM: in questo modo, il cliente non deve rivolgersi di persona all’addetto di filiale, il quale, quindi, non può indagare le motivazioni sottese a tale versamento/prelievo. In questo scenario, interessante è una recente pronuncia della Corte di Cassazione sul reato di autoriciclaggio ex art. 648 ter.1 del Codice Penale. Con la sentenza n. 33074 del 28 luglio 2016, i Giudici della Seconda Sezione Penale hanno affermato che non costituisce né attività economica, né attività finanziaria, il mero deposito di una somma su una carta prepagata poiché, secondo la stessa dizione richiamata dal provvedimento impugnato e ripresa nell’atto di appello, è economica secondo la indicazione fornita dall’articolo 2082 del Codice Civile, soltanto quella attività finalizzata alla produzione di beni ovvero alla fornitura di servizi ed in essa non rientra certamente la condotta contestata; né tantomeno può ritenersi sussistere nella condotta di versamento di somme in un conto corrente ovvero in una carta prepagata un’attività “finanziaria” con ciò facendosi riferimento ad ogni attività rientrante nell’ambito della gestione del risparmio ed individuazione degli strumenti per la realizzazione di tale scopo. In assenza di una precisa nozione contenuta nel codice penale ovvero in quello civile, la nozione di attività finanziaria di rilievo per la punibilità ai sensi della citata norma di cui all’articolo 648 del Codice Penale, comma 1 ter, può ricavarsi dal Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (articolo 106), che individua quali tipiche attività finanziarie l’assunzione di partecipazioni (acquisizione e gestione di titoli su capitale di imprese), la concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, la prestazione di servizi di pagamento (incasso e trasferimento di fondi, esecuzione di ordini di pagamento, emissione di carte di credito o debito) l’attività di cambiovalute; e poiché la condotta degli indagati non rientra neppure in nessuna della suddette attività va esclusa la ricorrenza dell’elemento oggettivo anche sotto tale profilo. In secondo luogo, deve precisarsi che la norma sull’autoriciclaggio punisce soltanto quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano però la caratteristica specifica di essere idonee ad “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Il legislatore richiede, pertanto, che la condotta sia dotata di particolare capacità dissimulatoria, sia cioè idonea a fare ritenere che l’autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto effettuare un impiego di qualsiasi tipo ma sempre finalizzato ad occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto, ipotesi questa non ravvisabile nel versamento di una somma in una carta prepagata intestata alla stessa autrice del fatto illecito, ossia nel caso di specie.
Sempre in ambito di carte di credito, è possibile richiamare un’altra recente pronuncia, la quale ha preso le mosse dalla distinzione fra il reato di frode informatica ex art. 640 ter del Codice Penale ed il delitto di cui all’art. 55 comma 9 del D. Lgs. 231/2007, per cui chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di provenienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi). Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 50140 pubblicata il 21 dicembre 2015, l’utilizzazione indebita di carte di credito clonate è assorbita nella frode informatica: ebbene, l’elemento specializzante dell’utilizzazione fraudolenta del sistema informatico costituisce presupposto assorbente rispetto alla generica indebita utilizzazione dei codici d’accesso di cui al predetto art. 55 comma 9.
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