ISSN 2385-1376
Testo massima
In tema di liquidazione dei compensi professionali dell’avvocato, il parere dell’ordine professionale è vincolante soltanto per la pronuncia del decreto ingiuntivo e non anche nel giudizio di opposizione.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
Avv. A.E.;
–ricorrente –
contro
COMUNE;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 3241 del 18 luglio 2011;
Udita, la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 16 aprile 2013;
udito il Pubblico Ministero che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. – Con sentenza pubblicata in data 22 ottobre 2007, il Tribunale di Roma – decidendo sulla opposizione a decreto ingiuntivo richiesto ed ottenuto dall’Avv. A.E. per Euro 86.588,43, oltre interessi e spese, nei confronti del COMUNE a titolo di compensi professionali nello svolgimento dell’incarico di assistenza e rappresentanza dell’ente locale dinanzi al Consiglio di Stato – ha revocato il decreto opposto e ha condannato l’opponente Comune al pagamento, in favore dell’opposto, della minore somma complessiva di Euro 45.799,55, a titolo di onorari, competenze e spese imponibili, oltre ad Euro 3.700 a titolo risarcitorio ed accessori, ponendo a carico dell’ente locale il 70% delle spese processuali, compensate per la restante parte.
2. – La Corte d’appello di Roma, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 18 luglio 2011, ha respinto sia il gravame principale dell’Avv. A., sia il gravame incidentale del Comune, compensando tra le parti le spese del grado.
2.1. – Per quanto qui ancora rileva, la Corte territoriale ha rilevato:
– che il parere dell’associazione professionale è vincolante soltanto per la pronuncia del decreto ingiuntivo e non anche nel giudizio di opposizione, non inducendo a contraria soluzione la circostanza che il Comune, prima dell’instaurazione del giudizio, abbia richiesto la produzione di tale parere al fine di provvedere alla liquidazione delle giuste pretese dell’avvocato;
– che il rapporto professionale tra l’Avv. A. ed il Comune è cessato alla data di rinuncia al mandato, nel maggio 2004, con conseguente impossibilità di liquidare gli onorari di difensore alla luce della tariffa professionale approvata con il D.M. 8 aprile 2004, n. 127, entrata in vigore successivamente, il 2 giugno 2004;
– che non sono applicabili gli interessi moratori di cui al D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali).
3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello l’Avv. A. ha proposto ricorso, con atto notificato il 20 dicembre 2011, sulla base di sei motivi.
Il Comune ha resistito con controricorso.
In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. – Con il PRIMO MOTIVO (violazione e falsa applicazione degli artt1321, 1965 e 1349 cc, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto decisivo) ci si duole che la Corte d’appello abbia escluso la sussistenza di un accordo tra le parti avente ad oggetto la condivisa determinazione dell’ammontare del corrispettivo per le prestazioni professionali rese, accordo condizionato al verificarsi dell’evento che le parcelle fossero vistate dal competente Ordine degli avvocati. Rivolgendosi al Consiglio dell’ordine, l’Avv. A. non avrebbe fatto altro che consentire che la condizione dell’ottenimento del visto si avverasse:
sicchè, una volta ottenuto il visto, il Comune era vincolato alla sua stessa volontà, chiaramente e ripetutamente espressa in forma scritta come in generale imposto per le manifestazioni di volontà da parte delle pubbliche amministrazioni.
1.1. – Il motivo è infondato.
La Corte d’appello ha preso in esame le note del giugno e del luglio 2004, con le quali il COMUNE aveva richiesto all’Avv. A., “al fine di provvedere alla liquidazione delle giuste pretese”, di proporre specifici progetti di spesa “regolarmente vistati dal competente Ordine degli avvocati“; e – con congruo e motivato apprezzamento di tale documentazione – ha escluso che con essa il Comune abbia manifestato la volontà di aderire incondizionatamente alle determinazioni del Consiglio dell’ordine o si sia impegnato a liquidare senz’altro all’Avv. A. quanto portato dal preavviso di parcella munita del visto di congruità, con ciò negando che tra le parti, fuori e prima del giudizio, si sia formato un accordo contrattuale in tal senso.
Sotto questo profilo, il motivo di ricorso – che assegna a quella documentazione un significato diverso, e cioè che il Comune avrebbe richiesto la rimessione ad un terzo super partes, particolarmente autorevole e competente nella materia, la determinazione del giusto compenso da liquidare – si risolve, anche là dove prospetta la violazione e la falsa applicazione di norme di legge, nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto ponderatamente apprezzate dal giudice del merito.
2. – Il SECONDO MOTIVO denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.85 cpc, e del D.M. n. 127 del 2004, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Con esso il ricorrente lamenta che la sentenza, al fine di determinare la tariffa applicabile, abbia ritenuto che il momento di cessazione dell’incarico professionale dovesse essere individuato in quello in cui il professionista aveva rinunciato al mandato, senza considerare che, successivamente alla rinuncia (nonchè alla data di entrata in vigore della nuova tariffa), l’Avv. A. ha partecipato all’udienza del 6 luglio 2004 in esecuzione del mandato in regime di prorogatio. La rinuncia al mandato non sarebbe che l’atto iniziale di una serie a formazione progressiva che si completa soltanto con la nomina, da parte del cliente, di un nuovo difensore, sicchè, fino a quel momento, nei rapporti tra professionista e cliente il mandato è perfettamente valido perchè la rinuncia non ha effetto, essendo dovere del rinunciante compiere atti nell’interesse della parte perchè il rapporto professionale perdura fino alla sostituzione con altro procuratore.
2.1. – Il motivo è infondato.
Il giudice del merito ha ritenuto che il mandato professionale sia venuto meno istantaneamente al momento della comunicazione al cliente della rinuncia da parte del difensore. Così decidendo, la Corte territoriale ha fatto applicazione del principio secondo cui il difensore che abbia rinunciato al mandato, mentre conserva, fino alla sua sostituzione, la legittimazione a ricevere gli atti indirizzati dalla controparte al suo assistito, non è più legittimato a compiere atti nell’interesse del mandante, atteso che la rinuncia ha pieno effetto tra il cliente ed il difensore e determina il venir meno del rapporto di prestazione d’opera intellettuale instauratosi con il cosiddetto contratto di patrocinio (Cass., Sez. 2^, 13 febbraio 1996, n. 1085). E, da questo principio, ha fatto discendere la conseguenza che, mentre per la circoscritta attività di ricevimento degli atti spettano al difensore non sostituito i diritti di procuratore in base alle tariffe vigenti al momento dei singoli atti, gli onorari di avvocato, invece, competono allo stesso in base alla tariffa in vigore al momento della rinuncia, a nulla rilevando che dopo la cessazione dell’incarico sia intervenuta altra tariffa professionale.
D’altra parte, non vi è prova che, successivamente alla comunicazione della rinuncia, l’Avv. A. abbia continuato a svolgere attività di difesa attiva nell’interesse del cliente, giacchè – come emerge dalla sentenza impugnata – all’udienza del 6 luglio 2004 (successiva all’entrata in vigore delle nuove tariffe professionali) l’Avv. A. è intervenuto esclusivamente per formalizzare, nell’ambito processuale, la già avvenuta rinuncia al mandato.
3. – Con il TERZO MOTIVO (violazione e falsa applicazione dell’art.91 cpc e ss., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione) il ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia confermato l’arbitraria decurtazione delle spese spettanti all’Avv. A. per l’ottenimento del parere di congruità richiesto dal Comune.
3.1. – La censura è infondata, perchè la decurtazione del quantum delle spese sostenute dall’Avv. A. per l’ottenimento del parere di congruità è stata correttamente operata in ragione della corrispondente riduzione, compiuta dal Tribunale, della parcella che il Consiglio dell’ordine degli avvocati aveva vistato. E questa decurtazione non cessa di essere legittima per il solo fatto che lo stesso ente pubblico avesse sollecitato l’acquisizione preventiva di tale visto.
4. – Con il QUARTO MOTIVO ci si duole del mancato riconoscimento, da parte della sentenza impugnata, degli interessi moratori previsti dal D.Lgs. n. 231 del 2002, contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali.
4.1. – Il motivo è inammissibile.
Alla base del mancato riconoscimento degli interessi moratori ai sensi del D.Lgs. n. 231 del 2002, vi sono, nella sentenza impugnata, tre rationes decidendi, ciascuna delle quali idonea a sostenere la decisione adottata: (a) l’una, secondo cui il rapporto di prestazione d’opera professionale intercorso tra il COMUNE ed il professionista non può essere ricondotto sic et simpliciter al concetto di transazione commerciale previsto dal citato decreto legislativo; (b) l’altra, con evidente richiamo all’art.3 dello stesso d.lgs., per la quale il ritardo nel pagamento del prezzo è stato determinato da causa non imputabile al Comune, stante “la sproporzione tra l’attività svolta dal professionista ed i compensi richiesti, sproporzione affermata nella stessa sentenza impugnata, che ha revocato il decreto ingiuntivo emesso sulla base della parcella del professionista“; (c) la terza, secondo cui il riconoscimento degli interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002, si risolverebbe in una inammissibile duplicazione del danno determinato dall’inadempimento, giacchè all’Avv. A. è già stato liquidato il maggior danno ex art.1224 cc.
Ora, mentre la prima ratio decldendi è idoneamente censurata dal ricorrente (con la pertinente sottolineatura, alla stregua della formulazione letterale del D.Lgs. n. 231 del 2002, artt.1 e 2, che la disciplina contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali si applica anche ai contratti d’opera professionale tra l’avvocato e l’ente pubblico territoriale); altrettanto non lo sono la seconda e la terza ratio.
Con riguardo a queste, infatti, il ricorrente si limita a osservare criticamente che “la motivazione della Corte d’appello fa sorridere“, perchè il Comune avrebbe “sviluppato una strategia di tale resistenza in mala fede che, nonostante la sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva ex lege, ad oggi nulla ha versato all’Avv. A.”; ma non si confronta adeguatamente con il rilievo, a base della sentenza impugnata, che non vi è ritardo imputabile nel pagamento del prezzo là dove, come nella specie, i compensi richiesti e la somma ingiunta siano sproporzionatamente superiori a quanto dovuto, e che, una volta riconosciuto il maggior danno oltre gli interessi legali, non può esservi cumulo con gli interessi moratori ex D.Lgs. n. 231 del 2002.
Trova pertanto applicazione, per ritenere inammissibile il motivo, il principio per cui, nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata su una pluralità di ragioni, tra di loro distinte e tutte autonomamente sufficienti a sorreggerla sul piano logico-giuridico, è necessario, affinchè si giunga alla cassazione della pronuncia, che il ricorso si rivolga idoneamente contro ciascuna di queste, in quanto, in caso contrario, le ragioni non ritualmente censurate sortirebbero l’effetto di mantenere ferma la decisione basata su di esse (Cass., Sez. 2^, 20 novembre 2009, n. 24540; Cass., Sez. lav., 11 febbraio 2011, n. 3386).
5. – Il QUINTO MOTIVO (violazione e falsa applicazione dell’art.96 cpc, anche sotto il profilo del vizio di motivazione) censura il mancato riconoscimento della lite temeraria. La Corte d’appello non avrebbe considerato che l’atteggiamento del COMUNE tanto nella fase pre-processuale (con la richiesta del parere di congruità quale condizione, poi disattesa, per il pagamento delle parcelle), quanto nella fase di opposizione a decreto ingiuntivo (con la proposizione di eccezioni palesemente infondate e pretestuose) – mirava esclusivamente a procrastinare il pagamento di quanto dovuto all’Avv. A..
5.1. – Il motivo è destituito di fondamento, perchè, come esattamente rilevato dalla sentenza impugnata, la sussistenza dell’ipotesi di lite temeraria è esclusa dallo stesso esito del giudizio, che ha parzialmente accolto le ragioni dell’opponente.
6. – Con il SESTO MOTIVO(violazione e falsa applicazione dell’art.92 cpc, anche sotto il profilo dell’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione) il ricorrente, nel denunciare che la Corte d’appello abbia confermato la statuizione di primo grado di parziale compensazione delle spese, rileva che nella specie mancherebbero tanto la soccombenza reciproca quanto i giusti motivi richiesti dalla norma del codice di rito.
6.1. – La censura è infondata.
In relazione alla valutazione della ricorrenza di un caso di reciproca soccombenza, la Corte d’appello, nel confermare la sentenza del Tribunale, si è conformata al principio secondo cui la nozione di soccombenza reciproca, che consente la compensazione parziale o totale tra le parti delle spese processuali (art.92 cpc, comma 2), riguarda anche il caso dell’accoglimento parziale dell’unica domanda proposta, allorchè la parzialità dell’accoglimento sia meramente quantitativa e riguardi una domanda articolata in un unico capo (Cass., Sez. 3^, 21 ottobre 2009, n. 22381).
Occorre, altresì, rimarcare che, in via generale, in tema di spese processuali, soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse, mentre qualora ricorra la soccombenza reciproca è rimesso all’apprezzamento del giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità, decidere se ed in quale misura debba farsi luogo a compensazione.
7. – Il ricorso è rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna, il ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dal Comune controricorrente, che liquida in complessivi Euro 1.600, di cui Euro 1.500 per compensi, oltre ad accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16 aprile 2013.
Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2013
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 506/2013