ISSN 2385-1376
Testo massima
Le disposizioni contenute nell’art. 35 del vigente codice deontologico forense ripropongono sostanzialmente quanto contenuto nel parere n. 48/2012, giungendo a ritenere, al pari del parere, deontologicamente scorretto pertanto sanzionabile disciplinarmente l’utilizzo di piattaforme digitali messe a disposizione degli avvocati da soggetti terzi per veicolare informazioni relative all’attività professionale, in tal modo “limitando l’utilizzo di un canale promozionale e informativo attraverso il quale si veicola anche la convenienza economica della prestazione”21. Così facendo, il CNF ha reiterato l’infrazione accertata e stigmatizzata nel provvedimento di chiusura dell’istruttoria del caso I748. In particolare, le disposizioni del codice deontologico recepiscono le argomentazioni del CNF in merito alla distinzione tra l’utilizzo legittimo di siti web con nomi di dominio propri per veicolare la pubblicità professionale e l’impiego illegittimo di siti messi a disposizione da terzi per svolgere la medesima attività, che, come visto sopra, sono state espressamente rigettate dall’Autorità nel proprio provvedimento.
Questo il principio elaborato dalla Autorità Antitrust nel recente provvedimento del 15 giugno 2015, n. 25487, in materia di deontologia forense, con il quale è stata deliberata l’inottemperanza, da parte del Consiglio Nazionale Forense, al provvedimento n. 25154, reso in data 22 ottobre 2014 dalla medesima autorità.
I. Con il provvedimento da ultimo citato, l’Autorità Antitrust aveva rilevato la violazione dell’art. 101 T.F.U.E. – Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea – avendo il C.N.F. adottato due decisioni limitative dell’autonomia dei professionisti:
– circolare n. 22-C/2006, con la quale si qualificava in termini di illecito disciplinare la richiesta di compensi inferiori ai minimi tariffari;
– parere n. 48/2012, con il quale si qualificava in termini di accaparramento della clientela l’attività pubblicitaria svolta dai professionisti mediante la piattaforma AmicaCard.
Quanto alla prima decisione, il C.N.F. aveva chiarito che, sebbene la conclusione di patti aventi ad oggetto l’applicazione di compensi inferiori ai minimi tariffari fosse civilisticamente ammessa, essa avrebbe potuto porsi in contrasto con i criteri del decoro e della dignità professionale prescritti agli artt. 5 e 43, comma II, del codice deontologico.
Quanto alla seconda decisione, il C.N.F., introducendo la distinzione tra siti web con domini propri e siti web messi a disposizione di terzi, aveva sancito la legittimità dell’attività pubblicitaria svolta dal professionista mediante il ricorso ai primi, introducendo l’illegittimità di quella invece esercitata tramite piattaforme digitali accessibili dalla generalità degli utenti.
II. L’Autorità garante, con il provvedimento del 22 ottobre 2014, n. 25154, accertata la violazione dell’art. 101 T.F.U.E., aveva invitato il Consiglio Nazionale Forense a porre fine alla infrazione, a darne comunicazione agli iscritti e ad informare l’Autorità stessa dei predetti adempimenti mediante relazione trasmessa entro il 28 febbraio 2015.
Le argomentazioni utilizzate dall’autorità hanno riguardato, in particolare, l’inammissibile distinzione tra le piattaforme digitali utilizzate al fine di promuovere la propria attività professionale.
Ed invero, il ricorso a qualsiasi di esse non è stato considerato lesivo del decoro e della dignità professionali, bensì idoneo a fornire agli avvocati maggiori opportunità, ben potendo raggiungere un numero di consumatori vasto, nonché geograficamente più distribuito.
D’altro canto, né la riforma Bersani, né la legge forense avrebbero qualificato l’attività di pubblicità professionale e tali mezzi di comunicazione come illegittimi.
III. Stante il silenzio del Consiglio, l’Autorità Antitrust, con il provvedimento in esame, ha accertato e dichiarato che la violazione contestata risultasse ancora in essere, non avendo il C.N.F. eliminato dal proprio sito web il contestato parere n. 48/2012, né pubblicato un avviso di revoca dello stesso.
Tale comportamento, a parere dell’autorità, risultando quale inottemperanza ad un provvedimento, comporterebbe l’applicazione della sanzione amministrativa prevista dall’art. 15, comma II, della Legge 10 ottobre 1990, n. 287.
A ciò si aggiunga che il vigente codice deontologico, entrato in vigore il 15 dicembre 2014, successivamente al provvedimento dell’autorità, sembra riproporre all’art. 35 – rubricato “Dovere di corretta informazione” quanto asserito con il parere n. 48/2012, perseverando così nella restrizione della concorrenza.
IV. I provvedimenti dell’A.G.C.M. – Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ivi esaminati si inseriscono inevitabilmente nell’attuale ed aspra diatriba che trova il suo punto nodale nella liberalizzazione delle attività professionali.
Tale processo, ancora in via di perfezionamento, ha avuto inizio con il Decreto Legge del 4 luglio 2006, n. 223 (c.d. decreto Bersani), con il quale si abrogavano le disposizioni che vietavano di svolgere attività informativa circa “titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto, nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni“.
Nella stessa direzione si sono posti i successivi Decreto Legge 13 agosto 2011, n. 138 (c.d. Manovra bis) e Legge 31 dicembre 2012 n. 247, con i quali si ribadiva la legittimità dell’attività pubblicitaria svolta dal professionista avvocato in ordine alla “propria attività professionale, sulla organizzazione e struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici e professionali posseduti“.
Sebbene i recenti interventi in materia abbiano evidenziato una sempre maggiore propensione alla liberalizzazione delle attività professionali – stante anche l’equiparazione del professionista ad un’impresa – è vero che la giurisprudenza di legittimità non sembra ancora altrettanto propensa a lasciare il professionista libero di promuoversi sul mercato ricorrendo a strumenti di nuovi generazione, quali social network e siti web, essendo sempre dietro l’angolo il pericolo di incorrere in sanzioni disciplinari per violazione del codice deontologico.
Testo del provvedimento
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