Nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense, la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, né l’indicazione della norma violata, sicché ove i primi siano descritti in modo puntuale, neppure la mancata individuazione degli articoli di legge violati determina una nullità, nonostante l’art. 59, comma 1 lett. b) della legge n. 247 del 2012 prescriva che la comunicazione all’incolpato debba contenere in forma chiara e precisa gli addebiti, con la indicazione delle disposizioni violate, essendo sufficiente che l’incolpato, con la lettura dell’imputazione, sia posto in grado di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Spirito – Rel. Falaschi, con la sentenza n. 34351 del 7 dicembre 2023.
Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati irrogava nei confronti dell’avvocato ricorrente la sanzione disciplinare della censura in relazione alla accertata responsabilità dello stesso per violazione dei doveri di lealtà, correttezza e probità con riferimento a plurime condotte che avevano dato luogo a sei diversi procedimenti, poi riuniti.
Proposto ricorso dal difensore, il Consiglio nazionale forense, con sentenza, lo dichiarava inammissibile per tardività.
Avverso la decisione del CNF veniva proposto ricorso per cassazione dal medesimo difensore e la Corte di legittimità, con sentenza, in accoglimento dello stesso, cassava la decisione impugnata ritenendo tempestivo l’originario ricorso.
Il giudizio veniva riassunto dal difensore, il quale insisteva per l’annullamento della sanzione e, in subordine, per l’applicazione della minore sanzione; il Consiglio Nazionale Forense, con sentenza, rigettava il ricorso nel merito, confermando la sanzione della censura.
Anche avverso quest’ultima decisione il difensore ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di un unico motivo, chiedendo, altresì, la sospensione della esecuzione della decisione impugnata e deducendo l’inesistenza della decisione per assenza e incomprensibilità dell’accertamento del fatto e della valutazione dello stesso, per avere il CNF reso una motivazione apparente, apodittica e priva di qualsivoglia contenuto argomentativo, limitandosi ad indicare precedenti giurisprudenziali non pertinenti al caso di specie.
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato. Nella parte motivazionale è stato specificato che “le condotte contestate, dettagliatamente riportate nella parte “in fatto” della decisione, hanno consentito all’avvocato B.B. di predisporre una adeguata illustrazione delle proprie difese, venendo in rilievo circostanze alle quali andavano contrapposti elementi di giudizio di segno contrario, mentre con l’impugnazione dinanzi al CNF si è limitato a lamentare “la difficile intellegibilità del provvedimento impugnato”, con il primo motivo, e la inesistenza dei comportamenti per cui era stato sanzionato, che erano “diversi da quelli contestati”, con il secondo motivo”.
Per gli Ermellini, alla luce del principio di diritto già menzionato, “si tratta di decisione adeguatamente motivata che opera una ricostruzione delle condotte assunte in violazione del codice deontologico alla luce delle prove acquisite ed interpreta la normativa applicabile”.
Il ricorso, pertanto, è stato rigettato.
Dal rigetto nel merito del ricorso ne è conseguito l’assorbimento della richiesta volta ad ottenere la sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato. Nulla sulle spese del giudizio di cassazione, in quanto l’intimato Consiglio dell’Ordine degli Avvocati non ha svolto attività difensive.
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