ISSN 2385-1376
Testo massima
Ha diritto alle prestazioni previdenziali, l’avvocato che produce reddito professionale soltanto all’estero ma che adempie regolarmente agli obblighi contributivi in Italia.
È quanto ribadisce la Suprema Corte di Cassazione, sezione Lavoro, con la sentenza n. 4584 del 26 febbraio 2014.
La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla determinazione della continuità dell’attività professionale dell’avvocato ai fini pensionistici, ha stabilito che è il mero dato “storico” dello svolgimento dell’attività professionale e del pagamento dei contributi alla Cassa forense, e non il reddito effettivamente dichiarato, a determinare la continuità professionale ai fini sopra detti.
In particolare, è accaduto che la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense agiva nei confronti di un avvocato italiano, iscritto alla stessa fin dal 1988, e che, per due anni, aveva svolto la propria attività professionale all’estero. Il professionista, nel suddetto periodo, aveva dichiarato in Italia un reddito pari a zero, ma, nondimeno, come risultante dalla documentazione prodotta, aveva regolarmente versato i contributi previdenziali alla Cassa.
Ebbene, con sentenza del 5 dicembre 2008 la Corte d’appello confermava la decisione di primo grado emessa dal Tribunale, nella parte in cui accertava la continuità professionale, e quindi l’utilità ai fini pensionistici, del periodo di attività professionale svolta in Australia dal 1997 al 2000.
I giudici della Corte d’Appello, avevano, infatti, ritenuto sufficiente a dichiarare la continuità di cui alla L. n. 319 del 1975, art. 2., i due elementi dell’effettivo svolgimento della professione e del pagamento dei contributi,sostenendo che “Una diversa interpretazione di questa, e dei criteri stabiliti dal Comitato dei delegati, avrebbe leso il diritto dell’avvocato a lasciare il proprio paese, garantito dall’art. 13, comma 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948“.
Ebbene, avverso siffatto provvedimento proponeva ricorso per Cassazione, la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, la quale denunciava la violazione della L. n. 576/1980, artt. 2 e 22, e della L. n. 319 del 1975, art. 2., sostenendo l’insussistenza della continuità professionale e delle prestazioni previdenziali nell’ipotesi di mancata dichiarazione al Fisco di un reddito di un determinato importo.
La Suprema Corte, seguendo un precedente orientamento, ha affermato che gli elementi costitutivi della “continuità”, sono il “dato storico” dell’iscrizione alla Cassa ed il “concreto e protratto” esercizio dell’attività professionale, mentre le deliberazioni del Comitato dei delegati forniscono, attraverso il riferimento al reddito, solo i criteri di determinazione dei contributi previdenziali.
A tal proposito, va altresì detto, che se da una parte il Comitato dei delegati della Cassa ha determinato i criteri di accertamento del requisito di continuità in base al reddito prodotto, dall’altra non ha in alcun modo previsto il caso in cui l’avvocato, producendo reddito professionale soltanto all’estero ed ivi adempiendo agli obblighi tributali, non abbia denunciato redditi in Italia.
Ne consegue, allora, che “ciò che è prescritto dalla legge è l’autenticità della situazione sottesa all’iscrizione (ossia l’esercizio della professione) e non la percezione di un reddito professionale minimo ai fini dell’Irpef ovvero l’esistenza di un minimo volume d’affari ai fini dell’Iva”.
Nel caso di specie, risulta pacifico che l’avvocato abbia regolarmente versato i contributi alla Cassa per gli anni nei quali ha svolto la libera professione all’estero ed essendo pienamente dimostrato lo svolgimento della suddetta attività, nessun dubbio sorge, dunque, circa il suo diritto al riconoscimento delle garanzie previdenziali de quo.
Sulla base di tali considerazioni la Corte ha correttamente rigettato il ricorso con compensazione delle spese.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 12615/2009 proposto da:
CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA ED ASSISTENZA FORENSE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DI VILLA PAMPHILI 59, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS), giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
P.F.M. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA VENEZIA 11, presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), rappresentato e difeso dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6088/2008 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 05/12/2008 R.G.N. 5773/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2013 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;
udito l’Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS)per delega (OMISSIS);
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 5 dicembre 2008 la Corte d’appello di Napoli confermava la decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Benevento, nella parte in cui questa aveva accertato la continuità professionale, e quindi l’utilità ai fini pensionistici, del periodo di attività di avvocato svolta in Australia dal 1997 al 2000 da P.F.M. in favore sia del Consolato italiano sia di alcuni enti di patronato, lavorando in uno studio professionale locale. Il P. era iscritto alla Cassa nazionale di previdenza forense fin dal 1988.
Pertanto la Corte rigettava la tesi della Cassa secondo cui, in base alla determinazione dei criteri ad opera del Comitato dei delegati (L. 22 luglio 1975, n. 319, art. 2), la continuità dell’attività poteva essere accertata solo in base al reddito prodotto, e non dall’esercizio della professione desumibile da altri elementi.
Nel caso di specie il P. aveva, nel suddetto periodo, dichiarato in Italia un reddito pari a zero e nondimeno, come risultava dalla documentazione prodotta e del resto era pacifico, aveva versato i contributi previdenziali alla Cassa.
Questi due elementi – effettivo svolgimento della professione e pagamento dei contributi – erano secondo la Corte sufficienti a dichiarare la continuità di cui alla L. n. 319 del 1975, art. 2.
Una diversa interpretazione di questa, e dei criteri stabiliti dal Comitato dei delegati, avrebbe leso il diritto dell’avvocato a lasciare il proprio paese, garantito dall’art. 13, comma 2, della Dichiarazione universale dei diritti umani, del 1948.
Contro questa sentenza ricorre per cassazione la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense mentre il P. resiste con controricorso. La Cassa ha presentato memoria.
Motivi della decisione
Col PRIMO MOTIVO la ricorrente lamenta la violazione della L. 20 settembre 1980, n. 576, artt. 2 e 22, e L. n. 319 del 1975, art. 2, sostenendo non poter sussistere continuità professionale, con i connessi diritti soggettivi di iscrizione alla Cassa, di contribuzione e di conseguimento delle prestazioni previdenziali, senza la dichiarazione al Fisco di un reddito di un determinato importo. Dichiarazione non sostituibile con l’accertamento di effettivo svolgimento di attività professionale all’estero per un periodo sia pure delimitato.
Col SECONDO MOTIVO essa denuncia la violazione delle stesse norme oltre che dell’art. 13, comma 2, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata a New York il 10 dicembre 1948, per avere la Corte ravvisato una lesione del diritto alla mobilità professionale nell’impossibilità di iscrivere alla Cassa previdenziale italiana un avvocato, che esplichi bensì temporaneamente attività all’estero ma non denunci i relativi redditi al Fisco italiano. Tale attività ben potrebbe essere assicurata nel sistema previdenziale straniero, provvedendo poi all’eventuale ricongiunzione con i contributi versati in Italia.
I due motivi, da esaminare insieme per la connessione, non sono fondati. Essi sottopongono a questa Corte la questione se un avvocato italiano, iscritto alla Cassa di previdenza nazionale, esercitando temporaneamente la sua attività soltanto all’estero e nondimeno continuando a versare i contributi alla detta Cassa, perda per quel periodo il requisito della “continuità” ai fini delle prestazioni previdenziali. Ciò anche quando egli, sempre in quel periodo, abbia dichiarato al Fisco un reddito pari a zero.
A questa questione la Corte d’appello ha dato esatta risposta negativa.
A norma della L. n. 319 del 1975, art. 2, che pone, ai fini ora detti, il requisito dell’esercizio della “libera professione forense con carattere di continuità”, il Comitato dei delegati della Cassa ha determinato i criteri di accertamento del requisito stesso in base al reddito prodotto.
Il medesimo Comitato non ha previsto il caso in cui l’avvocato, producendo reddito professionale soltanto all’estero ed ivi adempiendo agli obblighi tributali, non abbia denunciato redditi in Italia.
Dalla sentenza qui impugnata risulta “pacifico che l’attuale appellato ha regolarmente versato i contributi alla Cassa (scil.italiana) per gli anni nei quali ha svolto la libera professione in Australia. Dalla documentazione prodotta risulta ampiamente dimostrato lo svolgimento di tale attività che del resto non è contestata dalla Cassa di previdenza forense”. Nè risulta agli atti di causa alcun inadempimento tributario in Italia.
La lacuna presente nella determinazione ad opera del Comitato dei delegati dev’essere colmata attraverso il richiamo non solo dell’art. 13 cit. della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo ma anche dell’art. 38 Cost., che nel secondo comma garantisce ai lavoratori il diritto a mezzi “adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria”, così impedendo periodi di lavoro senza ragione prive di adeguata contribuzione previdenziale.
E’ ben vero che l’avvocato il quale non raggiunga il reddito (e la corrispondente imposizione tributaria) minimo richiesto non può essere iscritto alla Cassa nazionale e, se vi partecipa, l’iscrizione va resa inefficace agli effetti dell’anzianità, con diritto al rimborso, a domanda, dei contributi relativi agli anni di inefficacia (art. 3 L. ult. cit. come modif. della L. n. 576 del 1980, art. 22, comma 7). Ma ciò comporta che, di fronte ad un reddito insufficiente, la Cassa può rendere inefficace l’iscrizione, mentre nel caso di specie la medesima, percepiti i contributi, non fa ora questione di insufficienza di essi.
E’ poi fuori del tema disputato la questione se nel caso di specie siano esistiti i requisiti per la ricongiunzione o la totalizzazione delle posizioni assicurative, evocate dalla ricorrente. Neppure è noto l’ammontare dei contributi che avrebbero dovuto essere pagati alla Previdenza australiana, eventualmente di ammontare assai inferiore a quelli pagati in Italia.
Non sono pertinenti le sentenze di questa Corte n. 125 del 1988, n. 13289 del 2005 e n. 233 del 2006, la prima relativa ad una fattispecie in cui l’avvocato chiedeva la cancellazione della propria iscrizione; la seconda in cui si affermava la potestà autoregolamentare del Comitato dei delegati, qui non in discussione; la terza concernente il caso di un avvocato già iscritto ad un albo e ad una cassa stranieri ma di un paese comunitario.
E’ invece pertinente Cass. n. 3211 del 2002, la quale ha affermato che soli elementi costitutivi della “continuità” di cui alla L. n. 319 del 1975, art. 2, sono il “dato storico” dell’iscrizione alla Cassa ed il “concreto e protratto” esercizio dell’attività professionale, mentre le deliberazioni del Comitato dei delegati forniscono, attraverso il riferimento al reddito, solo i criteri di determinazione dei contributi previdenziali: “ciò che è prescritto (dalla legge) è l’autenticità della situazione sottesa all’iscrizione (ossia l’esercizio della professione) e non la percezione di un reddito professionale minimo ai fini dell’Irpef ovvero l’esistenza di un minimo volume d’affari ai fini dell’Iva”. La restituzione dei contributi già versati potrebbe avvenire, in altre parole, solo nel caso di accertamento del mancato esercizio dell’attività professionale.
La medesima sentenza ha aggiunto che la garanzia costituzionale (degli artt. 3 e 38 Cost.) si estende al legittimo affidamento che il lavoratore subordinato o autonomo riponga in ordine alla tutela previdenziale spettantegli e che rimarrebbe frustrato ove un avvocato, iscritto alla Cassa e adempiente all’obbligo contributivo, possa trovarsi privo della pensione (di vecchiaia ma anche d’anzianità) “sol perchè risulti ex post che in passato non erano stati integrati i presupposti specifici, reddituali o assimilati, dettati dalla normativa interna della Cassa”. Sulla tutela dell’affidamento dell’assicurato nelle assicurazioni sociali, quale espressione dell’assoggettamento degli enti assicurativi al principio della buona fede oggettiva vedi Cass. 1 marzo 2012 n. 3195,19 settembre 2013 n. 21454.
Considerate le difficoltà interpretative della materia disputata, solo in parte disciplinata da norme di legge, si ritiene equo compensare le spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.
Così deciso in Roma, il 29 ottobre 2013.
Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2014
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Numero Protocolo Interno : 150/2014