ISSN 2385-1376
Testo massima
Una volta definito il concetto di pagamento di debito scaduto o esigibile (in rapporto alle nozioni di “conto passivo”, ossia di conto privo di apertura di credito, o di conto con passivo eccedente l’accreditamento della Banca), le conseguenze non sono identiche nell’ambito dei due sistemi revocatori azionati, atteso che in quello pauliano l’esenzione dalla revocatoria, di cui all’art. 2901 c.c., comma 3, opera proprio con riferimento a tali evenienze (il conto chiuso, il conto passivo o il conto con passivo eccedente l’accreditamento) e non certo a quella del ripristino della valuta disponibile da parte del correntista nell’ambito del conto affidato (che equivale ad un ripristino dell’affidamento), in tale ultimo caso facendosi conseguire alla procedura attrice un valore economico non conseguibile attraverso il diverso sistema della revocatoria fallimentare, che – com’è noto – non è idoneo, alla luce del diritto vivente, a perseguire in revocatoria le rimesse ripristinatorie della valuta autorizzata.
Così si è pronunzia la Corte di Cassazione con sentenza 11.11.2015 del 23101 sul ricorso proposto dal Curatore fallimentare di una Società che aveva chiesto che la Suprema Corte si pronunciasse in merito alla cassazione della sentenza emessa dalla Corte di Appello di Perugia il 07/01/2014; la detta decisione aveva accolto l’istanza proposta dalla Banca e riformato la sentenza di primo grado relativa all’accertamento dell’esistenza dei presupposti dell’azione revocatoria di cui all’art. 66 della Legge Fallimentare ed alla dichiarazione di inefficacia, per la massa dei creditori fallimentari, dei pagamenti eseguiti dalla Società fallita in favore della Banca, con il conseguente pagamento, da parte di quest’ultima, in favore della curatela fallimentare attrice, della somma di 25.963,84.
La vicenda ha avuto inizio innanzi al Tribunale di Terni, ove, con atto di citazione, il Fallimento della Società conveniva in giudizio la Banca, chiedendo l’inefficacia dei pagamenti eseguiti dalla Società sul conto corrente dalla stessa intrattenuto presso una Filiale di Terni sostenendo che si trattasse di pagamenti in favore della Banca creditrice.
Il primo Giudice concludeva ritenendo che sussistessero i presupposti dell’azione proposta dal Fallimento e, con sentenza n. 211/2010, statuiva nei seguenti termini: “in accoglimento della domanda revocatoria ex art. 66 L.F., dichiara l’inefficacia nei confronti del Fallimento attore dei versamenti effettuati dalla Società (omissis); condanna la Banca, in persona del rappresentante p.t., al pagamento in favore della curatela attrice dell’importo complessivo di 25.963,84, oltre interessi legali sui singoli versamenti sopra indicati, a decorrere dalle rispettive date e fino all’effettivo soddisfo”.
Le ragioni poste a base della decisione del primo Giudice si fondano, essenzialmente, sull’analisi della sussistenza dei presupposti dell’azione revocatoria azionata dal Fallimento della Società e costituiti essenzialmente, ai sensi dell’art. 66 L.F. che richiama l’applicabilità anche al fallimento dell’azione revocatoria ordinaria di cui all’art. 2901 c.c., dall’esistenza di un pregiudizio subito dal creditore, dalla conoscenza del pregiudizio da parte del debitore, nonché, “nel caso di atti a titolo oneroso, anche dalla conoscenza di tale pregiudizio da parte del terzo nel caso di esistenza di crediti anteriori all’atto impugnato”.
Secondo il Giudice di primo grado, tenuto conto del fatto che, già alla data di effettuazione dei pagamenti oggetto di contestazione, lo stato di difficoltà economica della Società era evidente in quanto vi erano due procedure esecutive pendenti nei confronti della Società nonché una segnalazione di sofferenza in Centrale Rischi, la consapevolezza, da parte della Banca, dell’eventus damni quale presupposto soggettivo, non poteva non essere comprovata proprio dalla conoscenza della segnalazione in sofferenza della Società, poi fallita, e dalla presenza di procedure espropriative, mentre l’eventus damni quale presupposto oggettivo, era certamente adeguatamente documentato dall’enorme quantità di crediti sorti al tempo del compimento degli atti contestati in citazione e di cui si richiedeva la revocatoria.
In merito a quest’ultimo punto, il Giudice aveva ritenuto pienamente dimostrata la sussistenza di crediti anteriori alle operazioni oggetto di revocatoria ed aveva negato la natura solutoria delle rimesse, essendo queste ultime eseguite “quando il rapporto di conto corrente era pienamente operativo e nei limiti del fido concesso”.
Le conclusioni cui era pervenuto il Giudice di primo grado, nella parte in cui danno prova dell’eventus damni, non trovano costante conforto nella giurisprudenza di merito, in particolare per ciò che attiene la dimostrazione della consapevolezza dell’eventus damni da parte della Banca.
Le argomentazioni logiche dallo stesso proposte per dirimere la controversia poggiano principalmente sul richiamo che le disposizioni dell’art. 66 L.Fall. fanno all’art. 2901 c.c., per cui diviene, a detta del giudice, indispensabile applicare la predetta disciplina e valutare, in concreto, la sussistenza dei presupposti richiesti dalla norma in parola.
Occorre, dunque, che l’esame verta, in estrema sintesi, sulla dimostrazione dell’esistenza di un pregiudizio alle ragioni del creditore cui va sommata la conoscenza dello stesso da parte del debitore e, nel caso di atti a titolo oneroso, la conoscenza del pregiudizio da parte del terzo, qualora si tratti di crediti anteriori all’atto impugnato.
In questo modo, tuttavia, come argomentato dai giudici che si sono espressi successivamente sul presente contenzioso, si creerebbe una violazione e falsa interpretazione delle disposizioni di cui agli artt. 2901 c.c. e 66 L.Fall.
Per quanto poi attiene in particolare al problema della prova circa la conoscenza dello stato di insolvenza, da parte della banca, esso è stato oggetto di dibattito per lungo tempo.
Dottrina e giurisprudenza, nell’affrontare il tema, si sono espresse in vario modo, a volte ritenendo sufficiente una astratta conoscibilità della situazione patrimoniale del fallito, altre volte ritenendo indispensabile la dimostrazione della effettiva conoscenza.
Si segnala, sul tema, in senso contrario a quanto rilevato dal Giudice di primo grado, con particolare riguardo al caso in cui la posizione del cliente fallito sia stata classificata a sofferenza dalla banca, una interessante sentenza del Tribunale di Napoli (n.285 del 09/01/2015) che al riguardo, ha espresso il seguente principio: “Non è provata la conoscenza dello stato di insolvenza ove la curatela ponga quale unico elemento presuntivo il versamento della somma sul conto già a sofferenza”(pubblicato in rivista: http://www.expartecreditoris.it/provvedimenti/revocatoria-fallimentare-ai-fini-della-scientia-decoctionis-non-rileva-la-classificazione-a-sofferenza-del-conto.html.
La presente sentenza affronta il delicato problema dei limiti entro cui debba essere opportunamente valutato il profilo concernente l’elemento soggettivo della scientia decoctionis, senza dimenticare che grava in capo al curatore (attore) l’onere di dare la prova effettiva della conoscenza dello stato di insolvenza del cliente.
Il fatto che, nel caso in esame, controparte sia una banca, quindi un soggetto con un particolare status professionale che gli consente di accedere anzitempo ad una serie di informazioni ulteriori circa lo stato patrimoniale del cliente, non deve assolutamente far incorrere nel rischio di trasformare tale status in uno “svantaggio” per la banca deducendo sempre e comunque la presunta conoscenza, a priori, dello stato di insolvenza del cliente.
Ciò, infatti, porterebbe all’assurdo, nei casi di azioni esperite contro le banche, di escludere ogni necessità di allegazione, da parte del curatore, di ulteriori elementi in grado di fornire la prova della concreta conoscenza dell’insolvenza, scavalcando l’onere, per lo stesso, di dedurre e di dimostrare.
In conclusione, il Tribunale partenopeo afferma che: “Non è possibile affermare che la banca, solo in quanto tale, abbia la possibilità di conoscere le difficoltà economiche e finanziarie dei propri clienti, posto che, così ragionando, si rischierebbe di escludere (ed illegittimamente) ogni necessità di allegazione da parte del curatore degli elementi sintomatici della concreta conoscenza della crisi economica dell’imprenditore o addirittura di dar luogo ad una vera e propria inversione dell’onere della prova”.
Ritornando al caso in esame, impugnando le conclusioni del primo Giudice, la Banca aveva proposto Appello chiedendo alla Corte di Perugia la riforma della sentenza ed il rigetto dell’azione esperita, con restituzione delle somme versate.
La Corte d’Appello di Perugia, aveva ritenuto fondato il ricorso e, accogliendo l’appello, aveva riformato la sentenza impugnata rigettando le domande formulate dal Fallimento della Società e condannando lo stesso alla restituzione delle somme in favore dell’appellante.
A tale conclusione la Corte d’Appello giungeva a seguito di una valutazione dei seguenti elementi erroneamente interpretati dal primo Giudice:
1 – vi era, in primis, nella ricostruzione formulata dal primo Giudice, l’erronea convinzione che la segnalazione a sofferenza in Centrale Rischi costituisse prova da cui far discendere la conoscenza da parte della Banca del pregiudizio arrecato con gli atti oggetto della revocatoria, cui andrebbe ad aggiungersi una asserita conoscenza, pur essa tuttavia priva di concreta dimostrazione, sempre da parte della Banca, della sussistenza di procedure esecutive e di crediti anteriori rispetto alle rimesse.
2 in merito alla revocabilità delle rimesse, sulla quale il Tribunale si era pronunciato positivamente, essa nasce dall’erronea applicazione dei principi della revocatoria fallimentare alla revocatoria ordinaria, errore che ha certamente indotto il Giudice di primo grado, a detta della Corte d’Appello, a dichiarare l’inefficacia delle rimesse, senza tener debitamente conto del divieto di cui all’art. 2901 c.c. che esclude espressamente che siano aggredibili gli “atti dovuti”, “cioè quelli posti in essere nell’adempimento di un’obbligazione e perciò non soggetti a revoca, indipendentemente dalla loro natura solutoria o ripristinatoria di una provvista”.
Con ricorso proposto innanzi alla Corte di Cassazione il Fallimento della Società chiede la cassazione della sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Perugia eccependo la violazione e falsa applicazione della normativa di cui agli artt. 66 L. Fall. e 2901 c.c, ex art. 360 n.3 c.p.c.
La Cassazione, con Ordinanza n. 23101/2015, depositata l’11 novembre 2015, respinge il ricorso presentato dal Fallimento della Società nonostante il Consigliere Relatore si fosse inizialmente pronunciato in senso contrario, condannando, inoltre, il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Merita un cenno anche la diversa ipotesi di composizione della controversia espressa dal Relatore e dal Collegio in seno alla stessa Corte di Cassazione.
La procedura seguita è, infatti, quella di cui all’art. 380bis c.p.c. che prevede, nei casi in cui il ricorso non sia dichiarato inammissibile, il deposito di una relazione che anticipa quelli che saranno i motivi in base ai quali sarà deciso il ricorso in camera di consiglio. Nel caso in esame, tuttavia, il Collegio dichiara espressamente di “non” condividere la proposta di definizione contenuta nella relazione, di confermare le conclusioni della Corte d’Appello, (“essendo esatto il dispositivo”), ma di dover intervenire per formulare una significativa correzione della motivazione posta a base della sentenza “non potendo farsi applicazione del concetto di pagamento di un debito scaduto al di fuori dei casi consentiti dall’elaborazione di questa Corte e riguardante la L.Fall., art. 67″.
La Corte articola il proprio ragionamento percorrendo il seguente filo logico:
1- Che la parte agisca in base al sistema della revocatoria fallimentare o a quello cd. pauliano, non pone alcun mutamento di significato al concetto di pagamento: quest’ultimo manterrà sempre e comunque la propria definizione giuridica. Occorre, pertanto, prima di tutto, evitare di incorrere nell’errore di far assumere un differente significato giuridico ad un versamento di una somma di danaro solo perché trattasi di azione revocatoria fallimentare posta in essere in base al disposto di cui all’art. 67 L.Fall. o in base alla revocatoria ordinaria secondo quanto previsto dall’art. 66 L.Fall.
2- Sarà, pertanto, prioritario definire il concetto di pagamento e stabilire se si tratti di debito scaduto o esigibile. Riportando poi la conclusione cui si giunge in merito al pagamento nell’ambito del tipo di sistema revocatorio azionato, si noterà che le conseguenze non sono identiche per la revocatoria ordinaria e per quella fallimentare. In particolare nel sistema pauliano “l’esenzione dalla revocatoria, di cui all’art. 2901, co. 3, c.c., opera proprio con riferimento a tali evenienze (il conto chiuso, il conto passivo o il conto con passivo eccedente l’accreditamento) e non certo a quella del ripristino della valuta disponibile da parte del correntista nell’ambito del conto affidato” cosa che farebbe conseguire al Fallimento un vantaggio economico non conseguibile attraverso il sistema della revocatoria fallimentare.
3- La tipologia di pagamento era già stata esaminata dal Giudice di primo grado, il quale aveva affermato il difetto della natura solutoria delle rimesse “trattandosi di un conto corrente ancora in essere e di un versamento eseguito nei limiti del fido concesso”.
4- Non può essere consentita la revocabilità delle rimesse bancarie nel caso (e nei limiti) in cui si tratti di atti finalizzati al ripristino dell’affidamento del conto corrente bancario. Ciò in quanto dei versamenti effettuati dal cliente con tale finalità non possono essere qualificati come pagamenti “pena l’esclusione del sistema revocatorio costituito da quello risultante dalle previsioni di cui alla L. Fall. artt. 65 e 67″.
La presenti conclusioni offrono l’occasione per ripercorrete, sia pur sommariamente, alcuni passaggi salienti evidenziati dalla Corte ed espressi con l’ordinanza qui in esame. In particolare, in merito al concetto di pagamento di debito scaduto o esigibile e delle opportune differenze sussistenti tra il sistema revocatorio pauliano e quello fallimentare.
In merito alla distinzione tra versamenti solutori e ripristinatori più volte, nel sostenere le proprie ragioni, il Fallimento della società ha fatto richiamo ai principi espressi dalla Sentenza n. 24418/2010, non applicabile, secondo quanto sostenuto da controparte, al contenziosi di specie, trattando tale ultima pronuncia un caso del tutto differente rispetto a quello oggetto di causa. Essa, tuttavia, rappresenta un utile punto di riferimento per a chiarire, tra l’altro, se l’azione di ripetizione di indebito proposta dal cliente di una banca (il quale lamenti la nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi maturati su un’apertura di credito in conto corrente), ed il diritto alla restituzione, conseguente alla nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi, si prescriva a partire dalla data di chiusura del conto, oppure, separatamente per ogni posta, facendo decorrere il dies a quo da quando sia stata annotato ciascun addebito per interessi.
La sentenza delle SS.UU. del 2010 viene richiamata dal Fallimento al fine di escludere che la rimessa delle somme di danaro effettuata dalla società possa essere considerata atto dovuto privo di contenuto negoziale e pertanto rientrante nell’esenzione della revocatoria ex art. 2901, co.3, c.c. .
In particolare, al fine di escludere siffatta qualificazione, il Fallimento, riportandosi alle argomentazioni di cui alla sentenza n. 24418 citata in merito alla definizione del concetto di “pagamento” afferma che: “un versamento eseguito dal cliente su un conto il cui passivo non abbia superato il limite dell’affidamento concesso dalla banca con l’apertura di credito non ha né lo scopo né l’effetto di soddisfare la pretesa della banca di vedersi restituire le somme” e ciò in quanto potrà parlarsi di pagamento solo a conclusione del rapporto di apertura di credito in conto corrente, in quanto solo allora la banca potrà richiedere la restituzione del saldo finale e, dunque, il “pagamento”.
E se le rimesse non sono qualificabili come pagamento vieppiù non saranno atti dovuti così come, invece, sostenuto dalla banca e, soprattutto, affermato dalla Corte d’Appello di Perugia. Corollario di ciò sarebbe, secondo l’interpretazione della curatela fallimentare l’esclusione del limite di cui al co.3 dell’art. 2901 c.c.
Contrariamente a quanto sopra asserito, la Corte di Cassazione ha precisato che occorre, invece, tener presente che le rimesse oggetto di causa non possono essere oggetto di azione revocatoria ordinaria in base ai principi fissati dal legislatore. Questi ha precisato, infatti, che, ai sensi del co. 3 dell’art. 2901 c.c., cui fa rinvio l’art. 66 L.Fall., gli atti dovuti non possono in alcun caso essere aggrediti. Essi sono il frutto dell’adempimento di un’obbligazione.
Che poi i pagamenti di cui il Fallimento chiede la revocatoria si configurino o meno come atti dovuti, in quanto adempimento di un debito scaduto, è l’equivoco che ha generato l’alternarsi delle diverse interpretazioni nei vari gradi del giudizio.
Il primo giudice, ha escluso la natura solutoria delle rimesse ma, limitando il proprio esame all’ambito normativo di cui all’art. 2901 c.c., richiamato dall’art. 66 L.Fall., ha collocato, di conseguenza, le rimesse, nei casi soggetti a revocatoria concentrando, pertanto, la propria indagine, come già detto, sull’esame della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità della revocatoria.
La Corte d’Appello, argomentando contrariamente da quanto asserito dal primo giudice, ha collocato i pagamenti oggetto di contestazione nell’alveo dei debiti scaduti.
Di conseguenza, per essi opera il divieto previsto dall’art. 2901 c.c.
Che gli atti abbiano natura solutoria o ripristinatoria delle rimesse non è elemento, secondo la Corte, che può fare la differenza, in considerazione del divieto, posto dalla legge in tema di revocatoria ordinaria, che attiene alla natura degli atti dovuti, ossia degli atti posti in essere in adempimento di un’obbligazione, nel cui perimetro rientrano le rimesse effettuate dalla Società fallita.
Per la Cassazione, pur essendo giusta la conclusione cui giunge la Corte d’Appello, va meglio chiarita la collocazione degli atti compiuti dalla Società e di cui si chiede la revocatoria.
Ciò in quanto le argomentazioni della Corte d’Appello, rischiano di dilatare oltremodo l’ambito di applicazione del concetto di debito scaduto, creando una ingiusta disparità, quanto alle conseguenze, tra il vantaggio economico conseguibile attraverso la revocatoria ordinaria rispetto alla revocatoria fallimentare.
Quest’ultimo, infatti, ai sensi di quanto dispone l’art. 67 L. Fall., colloca le rimesse effettuate sul conto corrente bancario, tra gli atti non soggetti all’azione revocatoria, con l’unico limite, di rilievo quantitativo, nel caso in cui le stesse abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca.
La Corte, ritiene, pertanto di ribadire il conseguenziale divieto di revocabilità delle rimesse bancarie, nei limiti in cui le stesse si qualifichino in termini di ripristino dell’affidamento del conto corrente, in quando, ragionando diversamente, si rischierebbe di eludere il sistema revocatorio costituito dalle previsioni degli artt. 65-67 L.Fall.
Risulta, in conclusione, opportuno parlare, per i versamenti effettuati dalla Società fallita, di rimesse che esulano, per loro stessa natura, dalla qualificazione di “pagamenti”, con tutte le relative conseguenze sopra evidenziate, e respingere, sulla base delle presenti motivazioni e secondo la ricostruzione giuridica seguita dai giudici della Corte di Cassazione, il ricorso presentato dal Fallimento della Società.
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Testo del provvedimento
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