Provvedimento segnalato dal Dott. Donato Giovenzana – Legale d’impresa, con nota di accompagnamento
La mera “titolarità formale” di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in concreto, caso per caso, se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del conto e reale appartenenza delle somme depositate.
L’azione di rivendica, ove miri a ottenere nei confronti della banca depositaria il riconoscimento della titolarità delle somme depositate e individuate nel loro preciso ammontare, confluite nel conto di deposito bancario, è intesa a far conseguire al legittimo titolare il possesso della res ivi depositata, e l’esercizio dei relativi diritti, compreso quello di ricevere la restituzione del tantundem dell’importo depositato, comprensivo dei frutti o proventi nel frattempo maturati. Da tutto ciò consegue che l’obbligo di restituzione dell’importo di danaro individuato nel suo preciso ammontare al tempo della domanda, ove avvenga per via esecutiva ex art. 2930 c.c. nei confronti della banca depositaria in conseguenza dell’azione di rivendica esercitata ex art.948 c.c. dal legittimo titolare, è suscettibile di esecuzione forzata per l’intero ammontare rivendicato ed esistente nel conto corrente al tempo della domanda giudiziale.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, III sez. civ., Pres. Travaglino – Rel. Fiecconi, con l’ordinanza n. 23330 del 19.09.2019.
La pronuncia si riferisce ad una controversia avviata da Poste (la quale agisce in via di surroga), nei confronti di una banca e di una società, per ottenere la restituzione di fondi sottratti al Ministero, costituenti il provento di una truffa informatica, effettuata mediante dieci bonifici disposti nel mese di dicembre 2007 per l’ingente controvalore di euro 13 milioni e 100.000 mila dal conto bancoposta on-line del Ministero, confluiti prima sul conto di una società e poi sul conto di un’altra società, intrattenuto presso la banca.
Secondo la Suprema Corte la natura del contratto di deposito bancario, regolato nel diritto interno dall’art. 1834 c.c., risulta tuttora controversa in dottrina. Per taluni esso rientra nella categoria dei depositi c.d. irregolari, dal quale si distinguerebbe per il solo fatto che il depositario è una banca; altri, pur riconoscendovi analogie con il deposito irregolare, propendono per accostarlo al mutuo; altri ancora vi intravedono un negozio complesso, che pur partecipando della struttura dell’uno e dell’altro contratto, è dotato di una propria autonomia. Tale ultima tesi appare maggiormente condivisibile: se è vero che, così come nel deposito irregolare, anche nel deposito bancario la consegna comporta l’acquisto in capo al depositario della proprietà della somma ed il sorgere dell’obbligo di restituzione del tantundem, è anche vero che solo quest’ultimo è costruito come un contratto d’impresa caratterizzato da profili speculativi, in cui l’interesse della banca alla raccolta ed alla gestione del risparmio concorre con l’interesse del privato alla custodia ed alla remunerativà della somma versata, cui si accompagna l’ obbligo di restituzione del tantundem o di parte di esso nel corso del rapporto.
Se, in ipotesi, un soggetto deposita sul conto bancario intestato alla sua persona denaro non proprio, egli commetterà un illecito in danno del titolare effettivo delle somme ma, in confronto della banca, sarà comunque ritenuto come il soggetto titolare del credito e del correlativo potere di disposizione delle somme accreditate e acquisite dalla banca. Ove la titolarità formale si scinda da quella reale, l’azione di rivendica rivolta a tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, compresa la banca depositaria che ne è divenuta inconsapevolmente proprietaria, è dunque giustificata dal fatto che nei confronti dell’uno o dell’altro soggetto debba essere accertato chi sia l’effettivo titolare delle somme conferite nel conto di deposito bancario, passate nella disponibilità della banca, per potere individuare il destinatario del diritto restitutorio del tantundem, arricchito degli incrementi connaturati al contratto di deposito bancario.
Simili principi risultano affermati nelle pronunce che hanno sancito che la mera “titolarità formale” di un conto corrente bancario non può, da sola, costituire circostanza decisiva in ordine alla proprietà e spettanza dei relativi fondi, occorrendo valutare in concreto, caso per caso, se sussista disgiunzione fra intestazione nominale del conto e reale appartenenza delle somme depositate.
Pertanto, poiché nel caso specifico la titolarità della res rivendicata riguarda somme che, per quanto determinate nel loro ammontare, sono fungibili e in grado di confondersi nel patrimonio della banca depositaria, la rivendica dell’ammontare della somma versata in tale conto da parte di chi ne è stato spogliato è certamente compatibile con l’azione di cui all’art. 948 c.c., qualora sia accertato che la somma rivendicata corrisponda a quella confluita in detto conto e al tempo della domanda sia ancora nella disponibilità della banca nello stesso ammontare, in quanto in tale caso l’azione è intesa ad accertare la effettiva titolarità del diritto di disposizione della somma depositata.
Conseguentemente, sia l’esercizio dell’azione di rivendica in via surrogatoria, che l’intervento di un vincolo esterno (pignoramento o sequestro giudiziario o conservativo) eventualmente impediente la restituzione delle somme, sono tutti elementi non idonei a incidere sulla “causa giuridica” dell’obbligo restitutorio della banca, anche per i frutti e proventi nel frattempo maturati, che trova ragione nel rapporto di conto corrente, anche se instaurato con il falsus titolare, perché il vincolo giudiziale determinatosi impedisce solo al titolare formale della somma depositata di richiederne nell’immediato la restituzione alla banca depositaria, ma non la rende tout court indisponibile per il soggetto legittimo titolare delle somme, se non a sua volta destinatario del provvedimento di sequestro o di pignoramento. In ragione del sequestro penale operato non muta, dunque, la “causa giuridica contrattuale” da cui discende l’obbligo di restituzione delle somme in giacenza in favore del legittimo titolare, in luogo dei soggetti che hanno personalmente subito il sequestro delle somme di cui erano formalmente titolari, e neppure mutano la natura e la disciplina giuridica proprie degli interessi dovuti nel corso del rapporto bancario, spettanti all’avente diritto a ricevere il tantundem, com’è naturale in tutti i rapporti di durata, il cui scioglimento non necessariamente corrisponde all’immediata estinzione dei rapporti giuridici da essi derivati, ed in particolare di quelli concernenti le conseguenze stesse dello scioglimento.
Per tali ragioni la Corte decidendo nel merito ha accolto la domanda di Poste nei confronti della Banca relativamente all’importo di Euro 13.041.650,00, oltre interessi o proventi convenuti e maturati dal dovuto al saldo con condanna al pagamento del relativo importo a Poste, oltre le spese legali.
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