Testo massima
Anche i consulenti esterni (avvocati e commercialisti) posso essere oggetto del procedimento penale per bancarotta.
La Corte di Cassazione con la sentenza n° 39988 del 09/10/2012 chiarisce
ancora una volta l’applicabilità del detto reato tipico al consulente
professionale commercialista in concorso con l’imprenditore fallito.
Il tema è di particolare attualità e la Corte è chiamata a fotografare
l’apporto contributivo a titolo di concorso di un professionista, in
particolare del commercialista ovvero un avvocato nei seguenti :
a) all’atto della consulenza che si manifesta nel fornire consigli o suggerimenti che di
fatto consente all’imprenditore fallito di accedere a strumenti giuridici idonei
a sottrarre i beni alla massa attiva determinando un diretto danno per i
creditori;
b) assistano nella conclusione dei negozi necessari alla realizzazione
degli strumenti di cui alla lettera a);
c) svolgano attività dirette a garantire l’impunità o a favorire o
rafforzare, con il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni,
l’altrui proposito criminoso;
La Corte ha
ritenuto che in tutti i casi anzidetti l’apporto contributivo dunque la
condotta assistita dalla coscienza e volontà della sua partecipazione con il
proprio contributo causale al dissesto societario, sia a sufficiente a
corroborare la sussistenza del concorso di detti professionisti nel delitto di
bancarotta contestata all’imprenditore.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO
LA CORTE SUPREMA
DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA
PENALE
sul ricorso proposto da:
1) Antonio Bianchi
2) Mario Rossi
3) Roberto Blu
4) Giorgio Verde
5) Gabriele Nero
avverso la sentenza n. 1689/2009 CORTE APPELLO di ANCONA,
del 14/04/2011;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La Corte di Appello di Ancona, con sentenza del 14 aprile 2011, ha
confermato la sentenza del GUP presso il Tribunale di Ancona del 16 marzo 2009,
nei confronti di Antonio Bianchi, Mario Rossi, Roberto Blu, Giorgio Verde e Gabriele Nero condannati i primi due quali amministratori,
il terzo quale liquidatore, il quarto quale consulente commercialista e il
quinto quale amministratore di fatto della Alfa s.r.l. dichiarata fallita dal
Tribunale di Ancona il , per il delitto di bancarotta fraudolenta per
distrazione.
2. Avverso tale sentenza hanno proposto distinti ricorsi
per cassazione gli imputati, a mezzo dei propri difensori, lamentando:
Antonio Bianchi e Mario Rossi
a) una mancanza di motivazione e un travisamento delle
prove quanto all’accertata bancarotta per distrazione;
b) una mancanza di motivazione e un travisamento delle
prove quanto ai contributo causale agli episodi distrattivi;
c) una erronea applicazione della legge penale con
riferimento alla pena accessoria di cui alla L. Fall., art. 216.
Roberto Blu, Giorgio
Verde e Gabriele Nero
a) una mancanza di
motivazione e un travisamento delle prove quanto all’accertata bancarotta per
distrazione con particolare riferimento ad una perizia di stima nonchè al
contratto di subaffitto;
b) una erronea applicazione della legge penale con riferimento
alla pena accessoria di cui alla L. Fall., art. 216.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. I ricorsi sono tutti da rigettare, essendo ai limiti
dell’inammissibilità in quanto i relativi motivi riproducono quasi
integralmente le doglianze avanzate avanti la Corte territoriale ed alle quali
è stata data corretta e logica risposta.
2. Quanto ai dedotti
comuni motivi di travisamento delle prove in merito all’affermazione della
penale responsabilità per la bancarotta fraudolenta per distrazione deve
notarsi come, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella
dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006,
sia ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando
nella motivazione si faccia uso di un’informazione rilevante che non esiste nel
processo o quando si ometta la valutazione di una prova decisiva, esso può
essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato
quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi
il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo
il caso in cui il Giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di
gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo
Giudice (v. da ultimo, Cass. Sez. 4^ 3 febbraio 2009 n. 19710).
Nel caso di specie,
invece, il Giudice di appello ha riesaminato lo stesso materiale probatorio già
sottoposto al Tribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli
appellanti, è giunto alla medesima conclusione della affermazione della penale
responsabilità.
In definitiva, non
appare operazione consentita avanti questa Corte di legittimità riesaminare il
materiale probatorio già oggetto dei due giudizi di merito e materialmente
riprodotto anche nei presenti ricorsi, in ossequio ad un mal interpretato
principio di c.d. autosufficienza, che non vuoi dire rimettere in generale
discussione l’accertamento in fatto compiuto nei gradi anteatti del merito ma
soltanto, nell’ipotesi di specifica contestazione circa l’invalidità di
determinati atti ovvero nel caso di omessa valutazione di una prova decisiva o
di converso di uso di informazione inesistente, di consentire a questa Corte di
valutare la fondatezza o meno della specifica doglianza.
Nella specie i
ricorsi non hanno affatto chiarito la decisività della perizia giurata P.
ovvero delle dichiarazioni del Curatore nè del contratto di subaffitto 1
ottobre 2003 o di affitto 31 agosto 2001 che, di converso, si sostiene essere
stati “travisati” dai Giudici del merito, con ciò non sottraendosi
alla patente di infondatezza dei relativi motivi.
Orbene, fatta
questa doverosa premessa e sviluppando coerentemente i principi suesposti, deve
ritenersi che la sentenza impugnata regga al vaglio di legittimità, non
palesandosi neppure la dedotta assenza, contraddittorietà od illogicità della
motivazione.
Quanto al ricorso di
Mario Rossi, si osserva come la
Corte territoriale abbia correttamente motivato in merito alla sua penale
responsabilità quale commercialista della società decotta, citando la pacifica
giurisprudenza di questa stessa Sezione sul punto sia del comportamento
oggettivo che della coscienza e volontà della sua partecipazione che infine del
contributo causale al dissesto societario.
In tema di reati
fallimentari, i consulenti commercialisti o esercenti la professione legale
concorrono nei fatti di bancarotta quando, consapevoli dei propositi
distrattivi dell’imprenditore o degli amministratori della società, forniscano
consigli o suggerimenti sui mezzi giuridici idonei a sottrarre i beni ai
creditori o li assistano nella conclusione dei relativi negozi ovvero ancora
svolgano attività dirette a garantire l’impunità o a favorire o rafforzare, con
il proprio ausilio o con le proprie preventive assicurazioni, l’altrui
proposito criminoso (v. Cass. Sez. 5^ 18 novembre 2003 n. 569 e 15 febbraio
2008 n. 10742).
Quanto al ricorso Antonio
Bianchi., che sostanzialmente riproduce
il precedente ricorso di Mario Rossi , si sostiene una inconsapevolezza del
proprio comportamento distrattivo quale mero liquidatore della società decotta,
contraddetta, però, dalla compiuta e logica motivazione espressa sul punto
dalla Corte di Appello con particolare riferimento proprio ad una carica,
quella di liquidatore, che non può essere rivestita da un quivis de populo, del
tutto digiuno delle necessarie competenze per portare a compimento l’opera di
estinzione della società.
I ricorsi Roberto
Blu, Giorgio Verde e Gabriele Nero riproducono
le stesse doglianze dei precedenti ricorsi per cui, a fronte del convincimento
logicamente espresso dal Giudice del merito, richiedere a questa Corte di
legittimità una rilettura delle risultanze processuali costituisce sintomo
evidente della non fondatezza dei ricorsi stessi.
3. Quanto, infine,
al comune motivo relativo alle applicate pene accessorie deve premettersi, per
affermarsi la legittimità dell’operato dei Giudici del merito, come di recente
il Giudice delle leggi, con sentenza del 31 maggio 2012 n. 134 abbia ritenuto
conforme alla Costituzione il dettato della L. Fall., art. 216, u.c., e,
quindi, dell’irrogazione della pena accessoria in misura fissa piuttosto che
nella stessa misura della pena principale.
4. I ricorsi
devono, in conclusione, essere rigettati e i ricorrenti condannati, ciascuno di
essi, al pagamento delle spese processuali.
PQM
La Corte, rigetta i
ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento ciascuno delle spese processuali.
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