ISSN 2385-1376
Testo massima
Ai fini della condanna per bancarotta impropria da false comunicazioni sociali è sufficiente l’aggravamento del dissesto finanziario dell’azienda non essendo necessaria la determinazione della crisi che ha condotto al fallimento.
Nel solco di un indirizzo di legittimità già espresso, la pronuncia della quinta sezione penale in commento, depositata nello scorso mese di aprile, afferma in primis come non sia necessaria la determinazione in senso stretto della crisi aziendale che ha condotto al fallimento, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta impropria societaria, ma basti il nesso della condotta con il mero aggravamento dello stato di dissesto.
Nel caso di specie, la Corte ha giudicato come condotta di bancarotta impropria radicata su di una ipotesi di false comunicazioni sociali, la sottoscrizione di un bilancio di esercizio attestante fatti non conformi al vero, composto da poste artatamente sopravvalutate (come scorte di cantiere e partecipazioni societarie), l’indicazione di sopravvenienze create attraverso la strumentale postergazione di crediti vantati da società controllate e la conseguente sottovalutazione dei fondi rischi legati a tali crediti.
Questo genere di operazioni contabili, nella prospettiva della sentenza di condanna, aveva ritardato la dichiarazione di fallimento della società, consentendo alla medesima l’accesso a procedure concorsuali “minori”, con ciò determinandosi medio tempore, appunto, un aggravamento del dissesto.
I Giudici di legittimità sottolineano la rilevanza ai fini penali anche delle condotte successive alla “irreversibilità del dissesto”, in applicazione della disciplina in tema di concorso di cause ex art. 41 c.p., e considerando il concetto stesso di dissesto sotto il profilo economico come manifestazione non istantanea, ma progrediente nel tempo, e suscettibile all’influenza di condotte illecite anche posteriori alla propria cristallizzazione.
Vengono quindi approfonditi i peculiari profili del dolo di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali. Ed infatti, l’elemento soggettivo del reato, nella fattispecie in discussione, si atteggia come generico riguardo al mendacio, intenzionale riguardo all’inganno rivolto ai destinatari della comunicazione sociale (approvazione e pubblicazione del bilancio di esercizio), specifico rispetto al contenuto dell’offesa qualificata come danno ingiusto; con riferimento poi all’evento del dissesto che caratterizza la tutela penale in ambito fallimentare, la Corte precisa come esso debba essere oggetto di una volontà protesa, non sub specie di intenzionalità di insolvenza, ma come “consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico” (cf. sez. 5 n. 23091 del 29.03.2012).
Le doglianze dei ricorrenti, sul punto, vengono quindi disattesa, rilevando la Corte di legittimità come il giudice del merito avesse rettamente seguito nel proprio, sia pure sintetico, iter motivazionale, i principi ripresi illustrati nella pronuncia in commento.
I motivi di ricorso vengono invece accolti con riferimento all’ipotesi di bancarotta preferenziale di cui all’art. 216 comma terzo L.F., che la Cassazione reputa insussistente nella fattispecie concreta (la norma, lo ricordiamo, punisce il fallito il quale esegua pagamenti o simuli titoli di prelazione allo scopo di favorire, a danno di altri creditori, alcuni di essi).
Ed infatti, affermano i giudici di legittimità, ai fini della configurazione del reato occorre la violazione della par condicio creditorum propria della procedura fallimentare, e in relazione all’elemento psicologico la presenza di un dolo specifico costituito dalla volontà di recare vantaggio al creditore ingiustamente soddisfatto, con l’accettazione di un eventuale danno per gli altri.
L’offesa consiste dunque non nell’indebito depauperamento del patrimonio del debitore, quanto invece nella illecita alterazione dell’ordine di soddisfazione dei creditori stabilito dalla legge (in senso generale v. artt. 2740 2741 c.c.) (violazione della giustizia distributiva).
Ne consegue che non sussiste reato laddove vi sia stato il pagamento “preferenziale” di un credito tecnicamente privilegiato, a meno che non vi sia concorso di altri crediti assistiti da privilegio di grado prevalente o eguale, rimasti insoddisfatti, per effetto dei pagamenti eseguiti.
Ciò per dire, in definitiva, che non sempre il pagamento “preferenziale” costituisce illecito penale, essendo la norma di cui all’art. 216 comma terzo L.F. dettata allo scopo di tutelare un ben preciso e circoscritto bene giuridico.
Testo del provvedimento
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