Testo massima
La Corte di Cassazione con la sentenza n° 45522 del 02/11/2012 ritorna
ad affrontare il problema della applicabilità della Legge Fallimentare ed in
particolare delle fattispecie di reato
sanzionate dagli artt. 216, 223 e 236
all’amministratore di una società di persona.
Come tra l’altro già acclarato con le sentenze della medesima Sez. Pen.
rubricate con i nn. 10517/1983 e
12897/1999, nel dettato legislativo della L. Fallimentare e in particolare l’art.
216 comma 1, n. 1. non si introduce una
differenziazione tra società di persone e società di capitali in quanto la
norma parla esclusivamente di ” amministratori delle società sono … tutti
destinatari della norma di cui alla L. Fall., art. 216“.
Il ragionamento della Corte è altresì agganciato anche al richiamo che
fa l’art. 223 della L. Fallimentare che non pone distinzione tra società di
capitali e soc. di personale e ciò in
quanto i soci illimitatamente responsabili che svolgono attività gestoria sono
sicuramente possibili destinatari del precetto penale propri in ragion di tale ulteriore
attività.
Per riassumere dunque il delitto di bancarotta
impropria è applicabile sia alle società di capitali che di persone in quanto
ciò che conta è la qualifica di
amministratore,; in particolare le società di persone sono destinatarie della norma di cui all’art. 216,
co. 1, n. 1, L. Fall. sia direttamente, in quanto l’amministratore nella
società in nome collettivo è un imprenditore, come recita l’articolo stesso,
sia per il richiamo che ne fa l’art. 223, senza per questo distinguere fra
società di capitali o di persone.
Testo del provvedimento
Cassazione penale , sez. V,
sentenza 02.11.2012 n° 42522
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
sul ricorso proposto
da:
Mario Bianchi
Roberto Rossi
avverso la sentenza
della Corte di appello di Firenze del 14/04/2011;
1. Il 14/04/2011 la Corte di appello di Firenze confermava la sentenza
di condanna emessa dal Tribunale della stessa città il 01/12/2008 nei confronti
di Mario Bianchi e Roberto Rossi ., ai quali era stata irrogata la pena di anni
2 di reclusione ciascuno, oltre a pene accessorie di legge, per il delitto di
cui all’art. 236, in relazione alla L. Fall., artt. 216, 219 e 223, con il
beneficio della sospensione condizionale.
La Corte territoriale, dopo un analitico excursus sulle vicende del
processo e sulle ragioni che avevano portato alla dichiarazione della penale
responsabilità degli imputati in primo grado, si soffermava sui motivi di
appello proposti nell’interesse dei medesimi, ritenendone l’infondatezza.
In primo luogo, reputava doversi respingere il gravame con riguardo
alla presunta non previsione del fatto contestato come reato: secondo la tesi
difensiva la L. Fall., art. 236, comma 2, n. 1, richiamando i soli artt. 223 e
224, avrebbe dovuto essere interpretato nel senso della esclusione della
rilevanza penale di condotte di bancarotta, nei casi di concordato preventivo,
quando ascrivibili ad un imprenditore individuale od ai soci illimitatamente
responsabili di una società in nome collettivo (fattispecie regolate invece
dalla L. Fall., artt. 216 e 222, non richiamati dall’art. 236 cpv.). La Corte
disattendeva le argomentazioni difensive, che facevano leva sull’impossibilità
di dare ingresso nell’ordinamento penale ad un procedimento ermeneutico fondato
sull’analogia in malam partem: ad avviso dei Giudici di secondo grado,
l’amministratore di una società in nome collettivo avrebbe dovuto comunque
qualificarsi come imprenditore.
Inoltre, considerava infondato il motivo di appello volto a negare la
configurabilità di condotte di distrazione, vuoi sul piano materiale che su
quello dell’elemento soggettivo. Secondo la difesa, era sì accaduto che il
(OMISSIS) fosse stata redatta una annotazione attestante lo storno alla voce
“sopravvenienze passive” di una posta imputata al conto “soci
c/c”, dove erano andati a sommarsi i prelievi di somme effettuati dagli
stessi soci nel corso degli ultimi tre anni: ma quell’operazione non era – come
invece sotteso dall’impianto accusatorio – volta ad occultare le distrazioni delle
somme in parola in sede di chiusura dei conti al (OMISSIS), e dunque di
presentazione delle scritture al Tribunale in uno con la domanda di ammissione
al concordato preventivo, bensì a dare atto dell’azzeramento del credito della
società nei riguardi degli imputati a fronte di detti prelievi, conformemente
alla realtà dei fatti. Ciò perchè, nel contempo, i P. conferivano al concordato
preventivo beni immobili personali, di valore nettamente superiore ai credito
appena ricordato: in tal modo realizzando una restituzione delle risorse che
durante la gestione dell’attività imprenditoriale avevano destinato ad altri
impieghi, qualora si fosse voluto sostenere che gli immobili erano stati
acquistati con i fondi prelevati. In definitiva, vi era stata una serie di
prelievi volti a soddisfare le esigenze della famiglia P., in un regime di
confusione di patrimoni proprio delle società di persone, e successivamente –
peraltro, prima del decreto di ammissione al concordato e dunque prima della
presunta consumazione del reato – un conferimento di beni di maggior valore.
La Corte considerava al contrario, conformemente alla valutazione
operata del Tribunale, che tra le due partite non fosse possibile una
compensazione, dato che i prelevamenti – per un totale di circa 358.000.000 di
lire – avevano determinato una “distrazione secca” in pregiudizio
della società, mentre la cessione degli immobili non era avvenuta come atto
abdicativo unilaterale, bensì con la previsione espressa di un corrispettivo
(pari a 480.000.000 di lire) e dietro la condizione sospensiva dell’effettiva
omologa del concordato. Inoltre, non si era trattato neppure di atti
riconducibili agli stessi soggetti, visto che i prelievi erano da attribuire
agli imputati mentre la cessione dei beni alla società avveniva da parte dei
loro familiari: ed era financo accaduto che gli stessi immobili, a distanza di
tempo, fossero stati venduti ad un valore addirittura inferiore rispetto al
prezzo che la società si era comunque impegnata a versare alle parti cedenti.
Per le medesime ragioni, riteneva la Corte di appello non configurabile
neppure l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 6, non essendo ascrivibile
agli imputati (bensì, in massima parte, a loro congiunti) il comportamento
volto a elidere le conseguenze negative della precedente condotta.
2. I P. propongono
un comune ricorso per cassazione, articolato in due motivi.
2.1 Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa
applicazione della L. Fall., artt. 236, 223 e 216, argomentando che la Corte territoriale
non avrebbe dovuto ritenere le norme in tema di bancarotta applicabili ai casi
di concordato preventivo verificatisi con riguardo a società in nome
collettivo, pena la violazione del principio di tassatività delle fattispecie
incriminatrici: rilevano in particolare che il disposto di cui al citato art.
236 prevede ipotesi di responsabilità – richiamando i precedenti artt. 223 e
224 – soltanto a carico di amministratori, direttori generali, sindaci e
liquidatori di società, senza dunque contemplare gli imprenditori individuali
od i soci illimitatamente responsabili di società di persone, in particolare in
nome collettivo.
Nè potrebbe osservarsi (come invece sostenuto nella sentenza impugnata)
che escludendo la rilevanza penale nei casi appena evidenziati si giungerebbe a
privare di sanzione fatti in linea teorica più gravi di altri, coperti invece
da fattispecie incriminatrici, stante la contrarietà al dettato costituzionale
di una interpretazione che colmi un possibile vuoto di tutela forzando l’anzidetto
principio di tassatività. I P. invocano a tal fine il recente intervento delle
Sezioni Unite in tema di non applicabilità delle previsioni di cui alla L.
Fall., artt. 223 e 224, al liquidatore nominato nella procedura di concordato
preventivo con cessione dei beni, figura concettualmente distinta da quella del
liquidatore di una società stricto sensu (sent. n. 43428 del 30/09/2010,
Corsini).
In ordine alla figura criminosa prevista dal citato art. 236, i
ricorrenti rappresentano che la giurisprudenza di legittimità ha già chiarito
che detta norma non reprime, in caso di ammissione a concordato preventivo o ad
amministrazione controllata, i fatti di bancarotta propria realizzati
dall’imprenditore individuale, rilevando in particolare che la bancarotta
impropria dovrebbe considerarsi sotto vari profili di gravità maggiore, così
giustificandosi la differente e più severa disciplina apprestata dal
legislatore: in proposito, richiamano pronunce di questa Sezione (nn. 10517 del
29/09/1983, Totaro, e 12897 del 06/10/1999, Tassan Din).
Sostengono pertanto che tali principi debbono valere anche per le
società di persone, il cui regime è connotato dalle stesse regole previste per
l’imprenditore individuale in tema di confusione del patrimonio personale con
quello dell’impresa, nonchè di illimitata responsabilità dei soci nei confronti
dei creditori.
2.2 Con il secondo motivo, correlato appunto al regime patrimoniale
appena descritto, i ricorrenti rilevano che la motivazione della sentenza
impugnata tradirebbe erronea applicazione della L. Fall., art. 216, sotto un
ulteriore profilo, oltre a risultare comunque manifestamente illogica. Ad
avviso degli imputati, deve considerarsi fatto pacifico che essi eseguirono
prelievi di attivo dalla società, per scopi di routinario mantenimento proprio
e delle rispettive famiglie, come normalmente si registra in tutte le società
di persone salvo poi realizzare storni a fine esercizio al momento della
ripartizione degli utili (sul punto, anche i consulenti escussi durante l’istruttoria
dibattimentale avevano offerto dati di conferma): stando all’ipotesi
accusatola, quei prelievi sarebbero ammontati a circa 358 milioni di lire.
Risulta tuttavia, al contempo, che una volta verificatasi la crisi
della società per effetto di un credito rimasto insoluto, i P. presentarono
domanda di concordato preventivo indicando quale componente attiva del
patrimonio alcuni beni immobili intestati a loro familiari, il cui valore era
attestato in 480 milioni; risulta altresì che la stima effettuata da un perito
nominato dal Tribunale fu sostanzialmente conforme, avendo portato al risultato
di 471 milioni, e che i beni in questione furono poi venduti dal liquidatore
del concordato per circa 382 milioni di lire.
Importi, tutti, comunque superiori all’entità dei ricordati
prelevamenti dalle casse sociali: con la conseguenza di dover escludere la
ricorrenza del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, essendosi
verificato in sostanza un finanziamento dei soci cui aveva fatto seguito la
completa restituzione delle somme da parte loro, prima dell’apertura della
procedura concorsuale.
Nel contesto appena descritto, meriterebbe pertanto censura la
motivazione della sentenza della Corte di appello di Firenze che – con
approccio meramente formalistico – si sofferma sui caratteri dell’atto di
disposizione patrimoniale proveniente dai congiunti degli imputati, avente
natura di contratto a prestazioni corrispettive, piuttosto che di atto
abdicativo unilaterale, e sottoposto alla condizione che, in caso di fallimento,
l’acquisizione dei beni immobili alla procedura sarebbe rimasta impedita. Quel
che conta invece, non foss’altro per dimostrare l’insussistenza di qualunque
finalità predatoria delle contestate distrazioni, è che “al momento topico
della vicenda (la sentenza di omologa del 09/12/1998, corrispondente alla
sentenza dichiarativa di fallimento ad ogni effetto penale) i signori P., sia
pure tramite un insolito meccanismo giuridico e contrattuale, avevano
integralmente restituito alla società ed avevano integralmente messo a
disposizione della procedura l’attivo patrimoniale prelevato nel corso degli
anni, attraverso l’acquisto e la messa a disposizione di beni immobili di ancor
maggiore valore“.
3. Con memoria depositata il 23/06/2012, il difensore degli imputati
deduce infine – in subordine rispetto all’accoglimento dei motivi di ricorso –
l’intervenuta prescrizione del reato addebitato ai suoi assistiti, da
intendersi commesso al più tardi il (OMISSIS), data della sentenza di
omologazione del concordato, e considerando i termini di cui all’art. 157 cod.
pen. come novellato per effetto della L. n. 251 del 2005.
1. Il ricorso non può trovare accoglimento quanto ai motivi di diritto
svolti nell’interesse degli imputati; va comunque rilevata, in effetti, la
sopravvenuta prescrizione del delitto in rubrica.
2. Con riguardo al primo motivo di ricorso, appare assolutamente
dirimente quanto osservato dalla Corte di appello di Firenze, con
argomentazioni che meritano piena condivisione, già in apertura della parte
motiva, dopo la ricostruzione in fatto della vicenda processuale. Al fine di
contestare l’interpretazione suggerita dagli appellanti circa la necessità di
distinguere tra società di capitali e società di persone, i giudici di secondo
grado evidenziano che di tale differenziazione non vi è cenno alcuno nel
dettato legislativo, dal momento che “gli amministratori delle società
sono … tutti destinatari della norma di cui alla L. Fall., art. 216, comma 1,
n. 1, e ciò sia direttamente, in quanto l’amministratore nella società in nome
collettivo è un imprenditore come recita l’articolo, sia per il richiamo che ne
fa l’art. 223, senza per questo distinguere fra società di capitali o di
persone“.
In altre parole, è circostanza di fatto incontrovertibile, e non
contestata dagli imputati in sede di ricorso, che essi furono amministratori
della società (di persone, ma il particolare non rileva): in quanto tali, non
consentendo l’appena menzionata L. Fall., art. 223, alcuna distinzione fra
tipologie di società, essi rientrano nella categoria cui detta norma
incriminatrice estende in prima battuta – oltre ai direttori generali, ai
sindaci ed ai liquidatori – le sanzioni previste dal precedente art. 216.;analogamente,
ai sensi dell’art. 236, comma 2, essi risultano destinatari della norma che nei
casi di concordato preventivo o di amministrazione controllata estende
l’applicabilità delle disposizioni dello stesso art. 223 (e dell’art. 224) agli
amministratori di società, nonchè, ancora una volta, ai direttori generali, ai
sindaci ed ai liquidatori.
Ergo, non può rilevare il mancato richiamo, da parte del citato art.
236, agli artt. 216 e 222, perchè non ci si trova dinanzi a due imputati che
furono soltanto soci illimitatamente responsabili, avendo essi esercitato anche
attività gestoria della società, il che impone l’applicabilità immediata
dell’art. 223 (norma, questa sì, richiamata dall’art. 236 cpv.): come si legge
nella motivazione delle sentenze di questa Sezione nn. 10517/1983 e 12897/1999,
non correttamente invocate dai ricorrenti a sostegno delle proprie tesi, il
problema non è quello di ravvisare gli estremi per sanzionare condotte di
bancarotta propria ascrivibili ad un imprenditore individuale (che, per i fatti
occorsi prima dell’ammissione ad un concordato preventivo o ad una procedura di
amministrazione controllata, rimangono in effetti privi di sanzione penale),
bensì quello di affermare l’applicabilità delle norme incriminatrici suddette
all’amministratore di una società, figura – che certamente si attaglia alla
posizione dei due P. e – che viene immediatamente contemplata dalla L. Fall.,
art. 223, e art. 236, comma 2.
E’ dunque nel senso appena evidenziato che trova giustificazione il
diverso regime nel trattamento penale della bancarotta impropria (appunto, ex
art. 223, qui contestata), perchè – riportando qui un passo delle ricordate
sentenze come riprodotto nei motivi di ricorso – “differenti sono i
rapporti con l’impresa dell’imprenditore individuale e dei soggetti di cui alla
L. Fall., artt. 223 e 224, e profondamente diverse sono le conseguenze
sull’impresa di eventuali iniziative giudiziarie penali”.
3. In ordine al secondo motivo di ricorso, la sentenza impugnata – e,
già prima, quella del Tribunale – pone l’accento su argomentazioni tecniche
secondo cui non sarebbe possibile individuare negli atti di disposizione
patrimoniale di Maria Verde (moglie di Mario
Bianchi) e di Paolo Turchese (figlia di V., e sorella di Roberto Rossi ) natura
sostanziale e formale di restituzioni di finanziamenti di cui gli imputati si
erano giovati negli anni precedenti, attingendo alle casse della società. Ciò,
soprattutto, perchè per i beni immobili che le due donne mettevano a
disposizione fu siglato un contratto preliminare di compravendita con cui esse
si impegnavano a trasferirne la proprietà alla Alfa S.n.c.
“condizionatamente al passaggio in giudicato della (eventuale) sentenza di
omologazione del concordato preventivo al quale ritiene di ricorrere la
società” (come si legge nel suddetto contratto, stipulato circa due mesi
prima del decreto di ammissione alla procedura concorsuale).
Si tratta, a differenza da quanto sostenuto dai ricorrenti, di
motivazione ineccepibile; soprattutto se si tiene conto che – come bene
evidenziato nella sentenza di primo grado – esisteva innegabilmente un credito
della società nei confronti dei soci, e che tale credito “derivava da
anticipazioni di utili inesistenti e comunque da prelevamenti effettuati
sistematicamente per le esigenze personali dei soci, prelevamenti eseguiti fino
a luglio del 1998”, vale a dire soltanto cinque mesi prima dell’ammissione
del concordato preventivo. La valenza distruttiva di quei prelievi appare
altresì dimostrata dalla circostanza che il 21/07/1998 era stato contabilmente
azzerato mediante una inspiegabile registrazione a “sopravvenienza
passiva“, come parimenti si legge nella sentenza del Tribunale, dopo che
il saldo del conto “soci c/c” era salito da poco meno di 242 milioni
di lire al 31/12/1997 ad oltre 358 milioni in appena sette mesi scarsi.
Altrettanto ineccepibile è dunque la considerazione svolta dal
Tribunale di Firenze, secondo cui “la cessione degli immobili non può
essere rapportata alla sottrazione della somma di 358 milioni di lire indicata
nell’imputazione, trattandosi di fatti che si pongono su piani del tutto
distinti. I beni immobili sono stati messi a disposizione da soggetti diversi
per permettere alla società in nome collettivo di raggiungere il fabbisogno
finanziario necessario per il pagamento del 40% dei creditori chirografari:
condizione essenziale ai fini dell’ammissione al concordato preventivo. In
altre parole, gli immobili erano necessari, nel contesto della domanda di
concordato preventivo, per coprire una quota delle passività (che, ovviamente,
erano ben superiori all’attivo) e non possono essere considerati come beni
conferiti da Mario Bianchi e Roberto Rossi in restituzione delle somme illecitamente
sottratte“. Senza contare che, per effetto della condizione cui era sottoposto
il trasferimento immobiliare, la presunta restituzione sarebbe comunque
avvenuta dopo, e non prima, l’ammissione della società alla procedura
concorsuale.
4. Deve conclusivamente prendersi atto, come sollecitato dalla difesa,
in via subordinata, dell’intervenuta estinzione del reato in rubrica. Alla
fattispecie concreta, essendo intervenuta la sentenza di primo grado in data
successiva rispetto all’entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, debbono
infatti applicarsi i più favorevoli termini di prescrizione introdotti con la
richiamata novella: tenendo conto della data in cui venne emesso il decreto di
ammissione della società alla procedura di concordato preventivo (09/07/2008),
il termine massimo di 12 anni e 6 mesi risulta maturato il 09/06/2011, senza
che dalla lettura del carteggio processuale emergano cause di sospensione.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere
il reato estinto per prescrizione.
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