ISSN 2385-1376
Testo massima
È manifestamente contrario a buona fede che una delle parti approfitti di un mutato quadro giurisprudenziale allo scopo di rimettere in discussione rapporti che si sono conclusi da tempo e, senza reciproche recriminazioni, chiede quanto era stato a suo tempo spontaneamente pagato.
Con sentenza del 7/6/2012 il Tribunale di Cremona si è pronunciato in un giudizio avente ad oggetto la richiesta di condanna della Banca alla restituzione delle somme indebitamente addebitate sui conti correnti intestati all’attore, per interessi ultralegali e usurari, capitalizzazione trimestrale degli interessi, commissioni massimo scoperto, eccessive valute.
Il Giudice, con una complessa motivazione, con una decisione difforme dalla pronuncia delle S.UU 24418/2010 ha rigettato la domanda, sia per la mancata produzione dei contratti di conto corrente da parte dell’attore (in violazione dell’art.2967 cc), sia in virtù della prescrizione del diritto di ripetizione e della violazione del principio di buona fede e correttezza nei rapporti contrattuali, sulla base di una innovativa interpretazione dei precedenti giurisprudenziali in materia.
In particolare, il Giudice, in accoglimento dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla Banca, ha affermato che il diritto di ripetizione per le operazioni antecedenti al 19.09.1998 deve ritenersi precluso (cfr. sezioni unite con sentenza n. 24418/2010), con ciò disattendendo, di fatto, il principio affermato con la nota sentenza della Corte Costituzionale n.78/2012 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 61, prima parte del D.L. 29 dicembre 2010, n.225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n.10, secondo cui in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa.
Orbene, secondo il Tribunale di Cremona, sebbene non si può non prestare ossequio al dictum della Consulta, allo stesso modo non si può non constatare che i Giudici, nella detta pronuncia, non avevano evidenziato le ragioni giustificatrici della legge censurata definendo come “irragionevole” la scelta di dotare di efficacia retroattiva la norma cd. salva banche, quando, invece, le ragioni giustificatrici erano da ricercare, ad avviso di questo Giudicante, nella situazione di crisi economica attuale e di stress del sistema bancario rispetto alla quale, la finalità perseguita dal legislatore era quella di evitare che le azioni ripetitorie dei clienti determinassero una consistente emorragia di denaro da un sistema bancario stressato.
Si trattava, dunque, di salvare le banche per salvare le imprese per cui la legge aveva l’obiettivo di favorire la riapertura dei rubinetti del credito in particolare in favore delle imprese.
L’adito giudicante osserva, inoltre, che sebbene la situazione sembri tornata a quella vigente all’epoca della pronuncia delle SS.UU 24418/2010, tuttavia neanche detta motivazione può essere seguita in quanto la stessa si fonda sulla distinzione tra atti ripristinatori e solutori elaborata però ad altri fini e non affronta la discussione sulla prescrizione dell’azione di ripetizione degli interessi anatocistici.
Inoltre, precisa il Tribunale che, il principio dello stare decisis (verticale) comporta un particolare onere a carico del giudice nella stesura della motivazione che deve contenere la discussione in punto di diritto in quanto è proprio la ratio della sentenza che va a costituire il vincolo per i successivi giudici
Diversamente il vincolo posto ai giudici inferiori dalle sentenze della Cassazione discenderebbe da un atto autoritativo della stessa, costituito dalla scelta d’imperio dell’interpretazione da seguire tra le varie possibili, ma così si è al di fuori del sistema democratico, il quale impone invece che la scelta in favore di una delle possibili interpretazioni delle norme, seppure intrinsecamente connotata da un certo tasso di discrezionalità, avvenga a seguito di adeguata e ponderata discussione del caso, che deve emergere dalla motivazione, anche per consentire alle corti inferiori di applicare poi quelle tecniche argomentative che giustifichino una decisione difforme (distinguising, evoluzione economico sociale, politica economica, ecc), la quale, a sua volta, potrà essere sottoposta al vaglio della Cassazione ai sensi del novellato art.360 bis cpc.
Il fatto dunque che la motivazione di SS.UU. 24418/2010 si rifaccia a teorie afferenti alla diversa problematica della revocatoria e non affronti uno dei punti più forti, sollevati dalla giurisprudenza e dalla dottrina, in favore della decorrenza della prescrizione da ciascun saldo, autorizza a non seguirne l’insegnamento.
Essendo quindi l’atto introduttivo del giudizio stato notificato il 19.09.2008, dovrà ritenersi prescritta la ripetizione di ogni addebito antecedente al 19.09.1998.
Alla luce di ciò, afferma il Giudice di Cremona, può invece utilmente invocarsi l’art.1375 cc e il principio di correttezza nell’esecuzione dei contratti, apparendo manifestamente contrario a buona fede che una delle parti approfitti di un mutato quadro giurisprudenziale allo scopo di rimettere in discussione rapporti che, come nella specie, si erano conclusi da tempo e senza reciproche recriminazioni, per ripetere quanto era stato a suo tempo spontaneamente pagato.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL TRIBUNALE ORDINARIO DI CREMONA
In persona del Dott. Giulio Borella, all’udienza del 07.06.2012, a seguito di discussione orale ex art. 281 sexies c.p.c., ha pronunciato la presente
SENTENZA
nella causa civile promossa da
FARMACIA T. DI T. DOTT. A.;
Contro
BANCA (OMISSIS) S.P.A
CONCLUSIONI
Attrice (udienza 15.03.2012): come da note conclusive.
Convenuta (udienza 15.03.2012): come da comparsa conclusionale.
FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 19.09.2008 T. A., quale titolare dell’omonima FARMACIA., conveniva in giudizio Banca Spa, onde sentirla condannare alla restituzione delle somme indebitamente dalla stessa addebitate sui conti correnti intestati alla farmacia, per interessi ultralegali e usurari, capitalizzazione trimestrale degli interessi, commissioni massimo scoperto, eccessive valute.
Allegava che la farmacia era intestataria di tre conti correnti, il 209520 (aperto nel 1981 cfr memoria 183), il 1060 (prosecuzione del precedente e movimentato dal 01.09.1997 al 31.01.2005) e il 3533 (aperto il 04.05.2004).
Su tutti questi conti la banca convenuta aveva applicato interessi ultralegali, senza specifica pattuizione scritta, interessi usurari, aveva proceduto a illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi a debito del cliente, aveva applicato commissioni di massimo scoperto non pattuite ed eccessivi giorni di valuta.
Chiedeva dunque CTU volta a rideterminare le somme a credito della FARMACIA e corrispondente condanna della banca convenuta al pagamento del risultato.
Si costituiva BANCA SPA, la quale eccepiva il difetto di legittimazione attiva dell’attrice, risultando solo il conto 3533 intestato alla FARMACIA attrice, gli altri due essendo intestati a T. A..
Eccepiva prescrizione di ogni credito attoreo antecedente al decennio dalla notifica della citazione, quindi antecedente al 19.09.1998.
Nel merito contestava in fatto e in diritto le pretese attoree.
La causa veniva istruita tramite CTU tecnica.
Viene quindi oggi discussa ex art. 281 sexies e decisa come di seguito.
MOTIVAZIONE
La domanda attorea non può essere accolta.
Con riferimento al conto corrente n. 3533, l’ultimo in ordine cronologico dei tre intestati alla FARMACIA (o ai suoi titolari), acceso nel 2004, esso appare pienamente rispettoso del dettato normativo e giurisprudenziale.
In esso sono esattamente indicati gli interessi attivi e passivi applicati (nel rispetto dell’art.1284 cc e dell’art.117 T.U.B.), la capitalizzazione trimestrale degli interessi, con pari scadenza per la banca e il cliente (nel rispetto del novellato art.120 T.U.B. e delle delibere CICR), i giorni di valuta per gli assegni bancari e circolari, sia quelli emessi dal medesimo istituto, sia quelli emessi da altri istituti, l’entità della commissione di massimo scoperto (anche questi in ossequio all’art.117 e 120 cit.).
Inoltre è espressamente previsto, nella clausola n. 8, recante doppia sottoscrizione anche ai sensi dell’art.1341 cc, che l’estratto conto non contestato dal cliente entro 60 giorni dal ricevimento (6 mesi per errori di calcolo od omissioni), rende inoppugnabili le partite in esso indicate.
Tale clausola, convenzionalmente accettata dal cliente e sottoscritta nelle forme di legge, riproducente nella sostanza il dettato dell’art.1832 cc (art.1857 cc) e dell’art.119 co. III T.U.B., è idonea a stabilire una vera e propria decadenza a carico del cliente nella proposizione di reclami, che, se non frapposti, rendono gli estratti conto «senz’altro approvati dal correntista con pieno effetto riguardo a tutti gli elementi che hanno concorso a formare le risultanze del conto».
Del resto ai privati ex art.2965 cc è consentito stabilire termini di decadenza convenzionali, salvo rendano eccessivamente gravoso per una delle parti l’esercizio del diritto, ma ciò non può dirsi della clausola di specie, che, come anticipato, riproduce sostanzialmente norme di legge e, inoltre, al fine di evitare la decadenza, si limita a richiedere un formale reclamo, lasciando poi invariati i normali termini di prescrizione legale per l’esercizio dell’eventuale azione (vd anche Cass. 18650/2003).
Per lo stesso motivo essa non può ritenersi abusiva ai sensi della disciplina a tutela del consumatore, visto il dettato dell’art.34 co. III D.Lgs. 206/2005.
S’aggiunga che, in ordine al conto corrente in questione, la CTU ha escluso non solo che siano stati convenuti interessi usurari (ma il contratto è sorto prima della L. 108/1996), ma anche che interessi di tal fatta siano stati addebitati nel prosieguo del rapporto.
Per quanto concerne i conti correnti 209520 e 1060, va innanzitutto accolta l’eccezione di prescrizione decennale sollevata dalla convenuta, per cui ogni diritto di ripetizione antecedente al 19.09.1998 deve ritenersi precluso.
Questo giudice si era già espresso in senso favorevole alla legittimità costituzionale dell’art.2 co. LXI della Legge 10/2011, ma è noto che, recentemente, con la sentenza 78/2012, il Giudice delle leggi è stato di diverso avviso.
Naturalmente non si può non prestare ossequio al dictum della Consulta.
Non senza il rammarico però di constatare (dalla lettura della motivazione) che i Giudici non si sono spesi granchè nella ricerca di quelle che potevano essere le ragioni giustificatrici della legge censurata, bollando icasticamente come irragionevole la scelta di dotare di efficacia retroattiva la norma c.d. «salva banche», quando invece le ragioni, discrezionali, del legislatore erano da ricercare, ad avviso di questo giudice, nella situazione attuale di crisi economica e di stress del sistema bancario, rispetto alla quale poteva essere finalità legittima del legislatore quella di evitare che le azioni ripetitorie dei clienti, divampate, anche su conti da tempo estinti (come nella specie), solo dopo la sentenza 3059/1999 e 2374/1999 della Cassazione sull’art. 1283 cc, determinassero una consistente emorragia di denaro da un sistema bancario stressato.
In altre parole si trattava di salvare le banche per salvare le imprese e la legge, evitando la dispersione di liquidità, aveva l’obiettivo di favorire la riapertura dei rubinetti del credito, in particolare in favore delle imprese.
Anche l’argomento per il quale la citata legge violerebbe il divieto, di origine sovranazionale (CEDU e art. 117 Cost.), per il legislatore di intromettersi nell’esercizio della giurisdizione, non pare correttamente richiamato, in quanto al legislatore è vietato intervenire a giudizio in corso, per indirizzarne gli esiti, il che avviene massimamente quando sia in gioco il sindacato sull’esercizio di pubblici poteri o sia direttamente coinvolto lo Stato o qualche sua articolazione o Ente strumentale, ma non di intervenire a giudizio tra privati – concluso, quando ormai il giudicato tra le parti rimarrebbe intangibile, onde evitare che la sentenza resa sul caso particolare possa divenire precedente idoneo ad indirizzare anche la soluzione di casi futuri (soprattutto avuto riguardo al fatto che, con la L. 40/2006 e 69/2009, sono stati novellati gli artt.360 bis, 374, 384 cpc e 118 d.a.cpc ed è stato così rafforzato il principio dello stare decisis).
Ora comunque la situazione pare ritornata quella che si era realizzata all’indomani della sentenza SS.UU. 24418/2010, a mente della quale la prescrizione del diritto del cliente alla ripetizione delle somme illecitamente riscosse dalla banca doveva decorrere dalla chiusura del conto.
Tuttavia la motivazione di quella sentenza non può essere seguita.
Essa si fonda sulla nota distinzione tra atti ripristinatori ed atti solutori, elaborata però ad altri fini, segnatamente allo scopo di distinguere le rimesse non revocabili, perché volte solo a riespandere un fido, da quelle revocabili, perché effettuate su di un conto scoperto e, quindi, volte ad estinguere un debito effettivo verso la banca.
Non si comprende però francamente quale apporto possa dare la distinzione in oggetto alla discussione sulla prescrizione dell’azione di ripetizione degli interessi anatocistici.
Quella distinzione non è utile perché, in ogni caso, l’addebito degli interessi da parte della banca non ha mai l’effetto, tipico di ogni rimessa, di riespandere il fido, bensì e all’opposto quello di aumentare l’esposizione del cliente e di ridurre la disponibilità di denaro in suo favore.
Se poi si vuol sostenere che l’addebito degli interessi, periodicamente effettuato dalla banca, non costituisce pagamento, tale assunto cozza irrimediabilmente col disposto dell’art.1852 cc, a mente del quale, nelle operazioni regolate in conto corrente, il cliente può sempre disporre del saldo risultante in proprio favore.
Quel saldo però discende dalla somma delle operazioni attive e di quelle passive, tra le quali rientra anche l’addebito periodico degli interessi, in un gioco di continue compensazioni, le quali costituiscono l’essenza del rapporto regolato in conto corrente e, come noto, costituiscono una forma di pagamento, una delle forme di estinzione satisfattiva di un’obbligazione.
La conferma della correttezza della tesi si rinviene nell’art.1824 cc, a mente del quale non possono essere inseriti nel conto crediti non suscettibili di compensazione, il quale dimostra come la compensazione sia tecnica trasversale ad ogni tipo di rapporto strutturato sulla falsariga del conto corrente (norma non richiamata dall’art.1857 cc, ma solo perché vi è già la norma ad hoc dell’art. 1852 cc).
Nessun cenno si rinviene nella sentenza dell’organo di nomofilachia al problema, ad avviso di questo giudice dirimente, dell’art.1852 cc, pure sollevato dalla più accorta dottrina e giurisprudenza, ragion per cui, nonostante l’accentuazione del vincolo al precedente di cui alle novelle sopra citate, la pronuncia delle Sezioni Unite non può essere seguita.
Va infatti rimarcato che il principio dello stare decisis (verticale), opportunamente richiamato in maniera esplicita dalla Legge 69/2009, ma già immanente al sistema, quale espressione delle istanze di certezza, tutela dell’affidamento, uguaglianza proprie di ogni stato di diritto, comporta un particolare onere a carico del giudice nella stesura della motivazione, che deve contenere la discussione in punto di diritto, in quanto è proprio la ratio della sentenza, quale enucleabile dall’argomentazione contenuta nella motivazione, che va a costituire vincolo per i successivi giudici.
Diversamente il vincolo posto ai giudici inferiori dalle sentenze della Cassazione discenderebbe da un atto autoritativo della stessa, costituito dalla scelta d’imperio dell’interpretazione da seguire tra le varie possibili, ma così si è al di fuori del sistema democratico, il quale impone invece che la scelta in favore di una delle possibili interpretazioni delle norme, seppure intrinsecamente connotata da un certo tasso di discrezionalità, avvenga a seguito di adeguata e ponderata discussione del caso, che deve emergere dalla motivazione, anche per consentire alle corti inferiori di applicare poi quelle tecniche argomentative che giustifichino una decisione difforme (distinguising, evoluzione economico sociale, politica economica, ecc), la quale, a sua volta, potrà essere sottoposta al vaglio della Cassazione ai sensi del novellato art.360 bis cpc.
Il fatto dunque che la motivazione di SS.UU. 24418/2010 si rifaccia a teorie afferenti alla diversa problematica della revocatoria e non affronti uno dei punti più forti, sollevati dalla giurisprudenza e dalla dottrina, in favore della decorrenza della prescrizione da ciascun saldo, autorizza a non seguirne l’insegnamento.
Essendo quindi l’atto introduttivo del giudizio stato notificato il 19.09.2008, dovrà ritenersi prescritta la ripetizione di ogni addebito antecedente al 19.09.1998.
Per quanto concerne poi gli addebiti successivi a tale data, anche qui la domanda attorea non può accogliersi.
Non sono stati prodotti in giudizio i contratti 209520 e 1060, il primo risalente al 1981 e il secondo, forse, al 1997, data a cui risale un consistente giroconto dal primo conto al secondo.
Non è dunque possibile stabilire se le clausole contrattuali in essi previste e relative alla previsione di interessi ultralegali, capitalizzazione trimestrale degli interessi debitori, valute accrediti e addebiti, c.m.s., fossero rispettose della normativa all’epoca vigente.
In ordine all’art.1283 ultimo comma comunque è bene ricordare che, per la giurisprudenza formatasi prima dell’introduzione della normativa sulla trasparenza (L.154/1992 prima e T.U.B. poi), era da considerarsi valida la clausola che faceva rinvio agli usi su piazza per la determinazione degli interessi ultralegali, potendosene solo predicare l’inoperatività dopo l’entrata in vigore delle leggi citate, sempre che la banca non abbia provveduto, in ossequio alla deliberazione della Banca d’Italia, a comunicare al cliente, per iscritto, nella prima comunicazione periodica ex art.8 L. 154/1992, informazioni conformi ai nuovi requisiti (cfr Cass. 4093/2005 e delibera Banca d’Italia 24.05.1992).
Ciò che risulta invece essere avvenuto nella specie.
Certamente al difetto di produzione dei contratti da parte dell’attrice, che ne aveva l’onere ai sensi dell’art.2697 cc, non poteva sopperirsi tramite la richiesta di esibizione in giudizio ex art.119 T.U.B. e/o art.210 cpc.
Quanto al primo articolo, esso limita l’obbligo della banca di consegnare ogni e qualsiasi documento (anche genericamente indicato) al cliente o a chi gli succeda nel rapporto, ma entro il limite del decennio, nella specie ampiamente trascorso, senza contare che la norma non ha carattere processuale, bensì sostanziale.
Quanto all’istanza ex art.210 cpc, essa non è ammissibile perché palesemente esplorativa e contraria all’art.94 d.a. cpc.: l’art. 210 cpc impone infatti che siano esattamente indicati i documenti di cui si chiede l’esibizione e che si tratti di documenti che il soggetto istante non poteva altrimenti procurarsi.
Nella specie invece la richiesta è formulata in modo generico e l’attore del resto ben avrebbe potuto procurarsi i documenti anzidetti nella fase ante causam, o quanto meno avrebbe dovuto fornire prova di aver effettuato una richiesta preventiva alla banca e di essersi visto rigettare detta richiesta.
D’altro canto s’impone un’osservazione: o le allegazioni contenute in citazione su interessi ultralegali, capitalizzazione, usura, c.m.s., valute sono state fatte con cognizione di causa, ossia dopo accurata disamina e studio dei contratti e verifica che essi non rispondevano alle previsioni legali e agli orientamenti giurisprudenziali in allora vigenti, e allora non si vede giustificazione alla mancata produzione degli stessi e l’istanza di esibizione si appalesa vieppiù infondata; oppure, se le allegazioni sono state fatte, come purtroppo spesso accade, alla cieca, sollevando le solite eccezioni di routine, è l’intera causa che appare esplorativa, ossia un tentativo di allegare invalidità e inadempimenti contrattuali, nella speranza che tutti o alcuni di essi si dimostrino fondati, ma anche in questo caso è evidente l’inammissibilità dell’ordine di esibizione.
L’unica doglianza che potrebbe forse ugualmente emergere, pur senza i contratti, dalla semplice disamina degli estratti conto, è quella relativa alla capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi a carico dell’attrice, come noto dichiarata illegittima per violazione dell’art.1283 cc da Cass. 3059/1999 e 2374/1999, con conseguente diritto alla ripetizione in capo all’attrice di quanto pagato in eccesso.
Sempre comunque nei limiti della prescrizione e, quindi, per il periodo dal 19.09.1998 al 09.02.2000, data dopo la quale risulta che la banca convenuta si sia adeguata dalla nuova normativa di cui alla delibera CICR, che consentiva la capitalizzazione, ma con pari reciprocità.
Tuttavia anche per tali somme la domanda deve in realtà respingersi.
È noto infatti che la Cassazione ha sempre ritenuto valide le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi anatocistici, in quanto reputate conformi agli usi bancari, tanto che la giurisprudenza sul punto costituiva vero e proprio diritto vivente, fino a che, con un vero e proprio overruling, la Suprema Corte, con le citate sentenze, ha mutato indirizzo, ritenendo al contrario che gli usi cui fa riferimento l’art. 1283 cc siano solo ed esclusivamente quelli normativi
Ne è nato un vero e proprio filone di azioni ripetitorie dei clienti, di cui anche la presente è figlia, che, oltre ad intasare le aule di giustizia, sono andate a risvegliare conti correnti e rapporti chiusi da anni e rapporti che si ritenevano ormai definiti.
Tuttavia deve osservarsi che la nuova giurisprudenza non può trovare applicazione a contratti conclusi in data anteriore alla pubblicazione di quelle sentenze.
Va infatti richiamata la giurisprudenza della stessa Corte che distingue nettamente tra regole di validità e regole di comportamento, o, se si preferisce, tra contratto come atto e contratto come rapporto, per rimarcare che le regole di validità di un atto sono solo ed esclusivamente quelle vigenti al momento della sua conclusione (cfr SS.TT. 26724/2007).
Ed è fuor di dubbio che, all’epoca della loro conclusione, i contratti 209520 e 3533 erano considerati perfettamente validi, alla luce della giurisprudenza, allora granitica, sull’art.1283 cc.
Naturalmente il presupposto di tale assunto è il riconoscimento dell’ineliminabile contributo fornito dalla giurisprudenza all’effettività della norma, nel senso che essa costituisce il formante del diritto vivente, vitalizzando, nell’opera di agnizione della norma, la relazione di tipo concorrenziale tra potere legislativo e potere giudiziario, così che il reale significato della norma, in un determinato contesto socio culturale, non emerge soltanto dall’analisi del dato positivo, di per sé sempre equivoco, ma da un più complesso unicum, che coniughi tale dato con l’atteggiarsi della relativa prassi applicativa, sicchè la struttura necessariamente generica della norma è integrata e riempita di contenuti dall’attività concretizzatrice della giurisprudenza (cfr Cass. SS.UU. Pen. 18288/2010).
Per tale motivo non può seguirsi l’orientamento di Cass. SS.UU. 21095/2004, ancora ancorata alla tesi del carattere meramente dichiarativo e, quindi, retroattivo, delle interpretazioni giurisprudenziali (a cui non può credere seriamente più nessuno), tra l’altro palesemente in contrasto con la costante giurisprudenza della Corte EDU sul rule of law, che include sia il diritto di origine legislativa, che quello giurisprudenziale e implica non tanto dei requisiti formali, quanto sostanziali, qualitativi, tra cui l’accessibilità e la prevedibilità, a tutela e garanzia dell’affidamento dei privati, i quali debbono poter sapere, a partire dalla formulazione di una disposizione e, se necessario, attraverso la sua interpretazione ad opera dei giudici, quali atti od omissioni siano consentite o vietate (cfr ex multis Corte EDU 26.04.1979 Sunday Times/Royaume Uni, Corte EDU 22.10.1996 Wingrove/Royaume Uni).
Oggi il riconoscimento del carattere irretroattivo del revirement giurisprudenziale imprevedibile è pacificamente ammesso dalla giurisprudenza in materia processuale, segnatamente sulle questioni di decadenza (chi richiamando la prospective overruling, chi, più fondatamente, il principio di buona fede, magari applicando in via analogica l’art.37 D.Lgs. 104/2010), ravvisandosi nel mutamento delle regole del gioco nel corso del giudizio una netta contrarietà rispetto al principio del giusto processo.
Il principio è pacificamente ammesso anche in materia penale, ove, comunque, del mutamento repentino di giurisprudenza non potrebbe non tenersi conto, quanto meno sotto il profilo della colpevolezza, dopo C.Cost. 364/1988.
Anche a livello europeo, nei paesi di civil law, dove si rinvengono le più forti resistenze all’abbandono della tradizionale teoria del carattere dichiarativo dell’interpretazione giurisprudenziale, strettamente connessa al principio di separazione dei poteri, si fa strada sempre più l’idea della necessità di temperare la regola del carattere retroattivo dei revirement: così in Francia, ove l’art.5 del code civil vieta gli arrets de reglement, la Corte di Cassazione, seconda sezione civile, con sentenza 08.07.2004, ha per la prima volta fatto uso della tecnica della prospective overruling, richiamandosi proprio alla giurisprudenza CEDU sull’art. 7; in Inghilterra gli stessi effetti sono conseguiti ad una decisione della House of Lords del 1966.
Trattasi, a ben vedere, della naturale conseguenza dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici verso il c.d. sistema multilivello delle tutele, dove, al moltiplicarsi delle fonti, dei soggetti abilitati a produrle, e nella difficoltà di coordinarne rigorosamente i rapporti, tocca al giudice tentare l’armonizzazione del sistema, non più però more geometrico, attraverso le vecchie tecniche di logica interpretativa, legate al tempo in cui l’ordinamento si presentava unico, chiuso, monolitico e autosufficiente e, quindi, incapaci ormai di dominare la caoticità delle fonti, bensì tramite il riferimento costante ai valori costituzionali (o anche sovranazionali), pilastri su cui si sorregge l’intero ordinamento, con la conseguenza però di un accrescimento del tasso di discrezionalità delle decisioni, ispirate a ragionevolezza più che a ragione, e, quindi, di un aumento di importanza dell’argomentazione motivazionale, che è poi uno dei presupposti del riconoscimento del valore concorrenziale della giurisprudenza con la legislazione nel processo di conformazione del diritto.
Malgrado ciò va detto che più dubbia rimane invece tutt’ora la giurisprudenza interna sulla possibilità di ammettere l’irretroattività del precedente giurisprudenziale innovativo nel campo del diritto civile sostanziale.
Va però in proposito ricordato che, nei paesi ove più forte è il vincolo del precedente, la materia contrattuale è proprio uno dei terreni d’elezione di applicazione di tale irretroattività, essendo in tale materia la tutela dell’affidamento particolarmente accentuata, a garanzia della certezza e speditezza dei traffici economici, che sarebbe al contrario gravemente compromessa se il debitore non fosse mai sicuro dell’esattezza del proprio adempimento e rimanesse sottoposto alla continua alea di vedersi contestare inadempimenti o invalidità all’epoca non immaginabili.
Nel caso di specie dunque l’osservazione che la validità di un atto è soggetta al principio tempus regit actum e il riconoscimento dell’imprescindibile apporto della giurisprudenza nella concretizzazione delle norme, portano a ritenere fondatamente che la nuova interpretazione dell’art.1283 cc, inaugurata nel 1999, non possa applicarsi a contratti stipulati ed eseguiti interamente in data anteriore alla pubblicazione delle sentenze 3059/1999 e 2374/1999.
Potrebbe solo obiettarsi che, così come una legge interpretativa ha per sua natura effetto retroattivo, così tale affetto non potrebbe non riconoscersi all’interpretazione per eccellenza, quella giurisprudenziale.
E tuttavia proprio la vicenda dell’illegittimità costituzionale dell’art.2 co. LXI della L. 10/2011 insegna che la possibilità per il legislatore di interpretare norme, con effetto retroattivo, è soggetta a rigorosi limiti, guarda caso proprio a tutela dell’affidamento dei cittadini e della certezza dell’ordinamento, così che dei limiti non possono non connotare anche l’interpretazione giurisprudenziale che sovverta precedenti indirizzi consolidati, determinando un effetto sorpresa nei consociati.
E fintanto che il legislatore non sia intervenuto a disciplinare esplicitamente la materia, senza dubbio delicata, perché si tratta di non frustrare la naturale evoluzione giurisprudenziale, che è riflesso dell’evoluzione socio culturale, che potrebbe essere ostacolata dalla mera trasposizione di tecniche anglosassoni come la prospective overruling (di cui han fatto uso certe corti di merito all’indomani della sentenza SS.UU. 19246/2010), tocca all’interprete ricercare nel sistema gli strumenti più idonei per evitare le storture dell’effetto sorpresa anzidetto.
Uno degli strumenti all’uopo individuati dalla dottrina è la valorizzazione del principio di diritto, che la Corte deve enunciare ex art. 384 cpc, e degli obiter dicta: questi ultimi in particolare, tradizionalmente sottovalutati nell’economia di una sentenza, assumerebbero invece ora carattere determinante, preannunciando svolte giurisprudenziali, tali da eliminare il legittimo affidamento sull’immutabilità del precedente orientamento.
Sotto altro profilo, senza voler invocare per forza il valore concorrenziale della giurisprudenza con la legislazione nella conformazione del diritto vivente, tematica pacifica a livello europeo, ma che stenta ad essere pienamente recepita nel nostro ordinamento, riconosciuto comunque l’innegabile valore che la giurisprudenza riveste nell’orientare le condotte degli operatori economici, così come dei semplici cittadini, possono comunque rinvenirsi a livello di diritto positivo tecniche più tranquillizzanti, per i più tradizionalisti, per evitare la palese ingiustizia (perché per tale la vivrebbe chiunque di noi) di addossare al cittadino, che aveva agito conformandosi scrupolosamente al dettato normativo e giurisprudenziale, gli effetti del successivo, radicale mutamento d’indirizzo della Cassazione.
Non però l’art.2034 cc., pure invocato da parte della giurisprudenza di merito per negare il diritto alla ripetizione di quanto ormai riscosso, strada imboccata anche dal legislatore con la Legge 10/2011, ma caduta sotto la scure della Corte Costituzionale, in quanto non pare che possa rinvenirsi, in capo al cliente che paga, la volontà di adempiere ad un dovere morale e sociale.
Ad avviso di questo giudice può invece utilmente invocarsi l’art.1375 cc e il principio di correttezza nell’esecuzione dei contratti, apparendo manifestamente contrario a buona fede che una delle parti profitti di un mutato quadro giurisprudenziale allo scopo di rimettere in discussione rapporti che, come nella specie, si erano conclusi da tempo e senza reciproche recriminazioni, per ripetere quanto era stato a suo tempo spontaneamente pagato.
In forza di tutto quanto sopra esposto, la domanda va dunque complessivamente rigettata, con compensazione però delle spese, vista la prevalente giurisprudenza difforme in materia.
PQM
Il Tribunale di Cremona, ogni diversa istanza e deduzione disattesa, definitivamente decidendo in ordine alle stesse, rigetta tutte le domande attoree.
Compensa le spese.
Sentenza letta in udienza, all’esito della camera di consiglio, assenti le parti.
Cremona, 07.06.2012
Dott. GIULIO BORELLA
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