ISSN 2385-1376
Testo massima
Segnalato dall’avv. Enrico Ferrari del Foro di Milano
LA MASSIMA
In materia di responsabilità dell’intermediario per omissione degli obblighi informativi sui rischi degli investimenti in strumenti finanziari, va escluso che l’inadempimento della Banca possa determinarne l’automatica responsabilità per i danni subiti dall’investitore.
È invece demandato al Giudice, sulla base degli elementi della concreta fattispecie, eventualmente utilizzando elementi di natura presuntiva, valutare se, in presenza delle informazioni che erano state invece omesse, sussistano elementi sufficienti per ritenere che l’investitore non avrebbe proceduto all’acquisto, allocando altrove i propri risparmi.
Non può certo ritenersi che nel maggio 2001 fosse prevedibile il prossimo default dello Stato Argentino, che in realtà non era stato previsto da nessuna delle agenzie di rating, né dagli Organismi finanziari internazionali che, come il FMI, avevano continuato a concedere credito allo Stato sudamericano. L’investimento, comunque spiccatamente speculativo, può ritenersi adeguato al cliente che abbia dichiarato per iscritto una propensione “agli investimenti che presentano anche massima rischiosità” e, quanto agli obiettivi, la “ricerca della massima redditività”, di tal che non può ritenersi sussistente l’obbligo della Banca di astenersi dall’acquisto in assenza di un ordine scritto da parte dell’investitore.
Non può fondarsi, sulla base del generale obbligo di buona fede ex art.1375 cc, un obbligo dell’intermediario di sottoporre i titoli ad un costante monitoraggio e di informare gli acquirenti di eventuali modifiche intervenute nel loro grado di “rischio”.
Laddove la normativa di settore prescrive l’obbligo degli intermediari di tenere “sempre” adeguatamente informati i clienti (art. 21, lett. b TUF), la stessa va interpretata nel senso che l’obbligo informativo sussiste “in ogni caso” – e non “costantemente in ogni momento” – vale a dire che tale dovere costituisce un principio generale della normativa di settore, che può subire deroghe solo nei limiti previsti nella stessa disciplina in materia di strumenti finanziari.
Questi gli importanti principi espressi dalla Corte d’Appello di Roma, Pres.Rel. Edoardo Cofano, con la sentenza 4631 del 19 marzo 2015, in accoglimento dell’impugnazione spiegata da una banca intermediaria avverso la sentenza che, in primo grado, l’aveva vista soccombente nei confronti di un cliente-investitore.
LA VICENDA
La vicenda processuale può riassumersi nei seguenti termini: un cliente-investitore,dopo aver sottoscritto un contratto di negoziazione relativo all’acquisto di obbligazioni Argentina 9,25% LF04EUR, per il prezzo di lire 100.825.944, convenne in giudizio la banca intermediaria, al fine di ottenere pronuncia di annullamento per vizio del consenso del contratto di negoziazione, ovvero la risoluzione per inadempimento dello stesso e comunque l’accertamento della la responsabilità della stessa per violazione degli obblighi informativi, nonché il risarcimento del danno.
Il Tribunale di Roma, con la sentenza 15137, depositata l’11 luglio 2008, rigettò le domande di nullità e di annullamento avanzate dal cliente investitore, accogliendo quella di risarcimento del danno con condanna della banca al pagamento di euro 32.694,54. Oltre rivalutazione monetaria ed interessi.
Il Giudice di primo grado era pervenuto a tale decisione ritenendo comprovata la violazione, da parte della Banca intermediaria, degli obblighi di informazione sulla stessa gravanti così come previsti dall’articolo 21 TUF e dagli articoli 28 e 29 del regolamento Consob in materia di intermediari, nel testo all’epoca vigente (n. 11522/1998) ed affermando, invece, l’infondatezza delle domande di nullità per aver la banca prodotto in giudizio il contratto di negoziazione e l’ordine di acquisto, segnalando, quanto al profilo di nullità dedotto dall’attrice ai sensi dell’articolo 1418 comma 1 c.c., che i comportamenti illegittimi dell’intermediario configuravano, secondo la consolidata giurisprudenza formatasi sul punto, non una fattispecie di nullità ma di inadempimento del contratto di negoziazione.
Avverso tale decisione la Banca proponeva appello, deducendo di avere adempiuto integralmente ai propri obblighi di informazione “attiva” – oltre a quelli di informazione “passiva“, in quanto, oltre ad avere consegnato più volte alla propria cliente il “Documento sui rischi generali degli investimenti in strumenti finanziari“, aveva fornito specifiche informazioni in ordine all’operazione di acquisto delle obbligazioni argentine, obbligo che, quanto alla sua portata, doveva comunque ritenersi graduato e “tarato” tenendo conto delle caratteristiche specifiche del singolo investitore.
In particolare la Banca richiamava le dichiarazioni fornite dalla cliente investitrice che, in tutti i documenti sottoscritti in varie date, aveva confermato di avere esperienza in materia di titoli di Stato a breve, medio e lungo termine; in obbligazioni in valuta estera ed in titoli strutturati o obbligazioni di emittenti a basso o senza rating, nonché nel settore azionario e in fondi di investimento; infatti da vari documenti il cliente aveva anche dichiarato una buona esperienza/conoscenza in materia di investimenti finanziari, e, soprattutto, “obiettivi di investimenti che presentano anche massima rischiosità in funzione della ricerca della massima redditività“.
La banca evidenziava poi l’affidamento del quale le obbligazioni emesse dalla Repubblica Argentina godevano nel maggio 2001, alla luce dei crediti raccordati dal Fondo Monetario Internazionale ed, in generale, sosteneva la superfluità delle informazioni sulla specifica operazione, alla luce delle specifiche competenze e qualità dichiarate dalla investitrice.
Nell’accogliere il gravame proposto dall’intermediario, il Collegio romano ha ben distinto i “piani” della valutazione: da un lato, infatti, ha considerato quello che viene definito il “profilo oggettivo” degli obblighi informativi sempre sussistenti in capo alla banca; dall’altro, ha messo in luce il “profilo soggettivo” dell’investitore, nella duplice direttrice della adeguatezza al “profilo-cliente” e della “prognosi postuma” sulle reali scelte di investimento, in caso di ipotetico rispetto dei predetti oneri informativi.
Quanto al primo aspetto, la Corte ha infatti premesso che gli obblighi informativi previsti a carico del soggetto intermediario vanno sempre e comunque rispettati, non potendo ritenersi “graduati e tarati” in ragione delle caratteristiche dell’investitore.
Ci si riferisce, in particolare, all’obbligo di fornire tutte le informazioni sullo specifico strumento che l’investitore intende acquistare, al fine di consentire a quest’ultimo una scelta consapevole in relazione alla specifica operazione di volta in volta richiesta.
Trattasi di obblighi previsti in generale per qualsivoglia contratto di negoziazione, e non già sussistenti solo in caso della conclusione di uno specifico contratto di consulenza.
Ciò si badi non riguarda il caso del c.d. operatore qualificato, unico soggetto al quale la specifica tutela in materia di obblighi di informazione non si applica, qualifica che comunque l’investitore, nel caso di specie, non possedeva.
Sotto tale esclusivo profilo, la pronuncia d’appello non si discosta da quella di primo grado: la banca non aveva dimostrato di aver correttamente adempiuto agli obblighi informativi.
Se questa è la premessa, diverse sono le conclusioni, che hanno poi determinato l’accoglimento dell’appello.
E qui si viene ai profili “soggettivi“.
Sotto tale aspetto la prima (acuta) notazione della Corte capitolina è quella per la quale “non può certo ritenersi [
] che nel maggio 2001 fosse prevedibile il prossimo default dello Stato Argentino, che in realtà non era stato previsto da nessuna delle agenzie di rating – le cui valutazioni sarebbero state, altrimenti, ben diverse da quelle richiamate dalla stessa originaria attrice a conforto delle proprie domande – né dagli Organismi finanziari internazionali che, come il FMI, avevano continuato a concedere credito allo Stato sudamericano“.
A dover essere valutato, infatti, non è se il rischio di default fosse effettivamente calcolabile, ma piuttosto se tale rischio fosse o meno adeguato agli obiettivi di investimento ed al profilo di rischio dell’investitore.
Ebbene, avuto riguardo ai fatti di causa, è emerso che le operazioni sui titoli oggetto di causa non potevano ritenersi inadeguate alla stregua del grado di conoscenza degli investimenti in strumenti finanziari dichiarato dal cliente e degli obiettivi di investimento di quest’ultimo, espressamente orientato alla ricerca della “massima redditività“, anche accettando investimenti dalla “massima rischiosità“.
Qui il passaggio cruciale della pronuncia: il giudice di prime cure aveva errato nel far discendere automaticamente, dalla violazione degli obblighi informativi, la responsabilità della banca per i danni asseritamente subiti dal cliente.
Tale “equazione” è da considerarsi erronea nella misura in cui al giudicante spetta il delicato compito di stabilire caso per caso anche mediante presunzioni, se, in presenza delle informazioni che erano state invece omesse, sussistano elementi sufficienti per ritenere che l’investitore non avrebbe proceduto all’acquisto, allocando altrove i propri risparmi.
Nel caso di specie, valutati gli elementi di forte propensione al rischio da parte del cliente, la Corte ha ritenuto del tutto insussistente alcun nesso di consequenzialità tra la condotta omissiva della banca ed il danno economico subito dall’investitore.
La Collegio ha poi seccamente bocciato la lacunosità della pronuncia di prime cure, circa la riconosciuta sussistenza, in capo alla banca, dell’obbligo di fornire informazioni sull’andamento dei titoli anche in epoca successiva all’acquisto delle obbligazioni.
Il Tribunale si era infatti limitato ad affermare “nel corso del tempo poi nel caso di aumento del rischio di mancato pagamento (nel caso di specie ricorrente,stante il progressivo degrado dei rating) la banca era obbligata, in esecuzione del canone di buona fede di cui all’art. 1375 c.c. nell’ambito del rapporto di custodia ed amministrazione, cui era collegato il rapporto di conto corrente bancario, ad avvisare la cliente di tale accadimento“.
Ad avviso della Corte, invero, non può inferirsi, dal generale canone di buona fede ex art. 1375 cc, la sussistenza di un preciso onere di “monitoraggio” continuo dell’andamento dei titoli e di warning del cliente in caso di eventuali modifiche del grado di rischio.
Sul punto, non può che farsi riferimento alla normativa di settore.
Orbene, un simile onere non può essere desumibile dall’art. 21 lett. b) TUF – circa l’obbligo degli intermediari di tenere sempre adeguatamente informati i clienti – né dall’art. 28 comma 2 Reg. Consob, a norma del quale la consapevolezza del risparmiatore comprende, oltre le scelte di investimento, anche quelle di disinvestimento.
L’art. 21 lett. b) TUF, nell’utilizzare l’avverbio “sempre” in relazione all’obbligo informativo, va interpretato nel senso che l’obbligo informativo sussiste “in ogni caso” – e non “costantemente in ogni momento” – vale a dire che tale dovere costituisce un principio generale della normativa di settore, che può subire deroghe solo nei limiti previsti nella stessa disciplina in materia di strumenti finanziari.
Il “disinvestimento” menzionato dall’art. 28 comma 2 Reg. Intermediari, accanto all'”investimento“, quale operazione che presuppone una scelta consapevole da parte del risparmiatore, è d’altra parte chiaramente connesso al momento originario dell’ordine, il quale può avere come oggetto sia un acquisto sia una vendita, e quindi un “disinvestimento“, di strumenti finanziari.
Ed infatti nota infine la Corte – è significativo che obblighi di informazione successivi siano espressamente previsti solo nelle particolari ipotesi di cui ai commi 3 e 4 dell’art. 28 del Reg. 11522, rispettivamente per gli investimenti in strumenti finanziari e nelle gestioni patrimoniali.
Per tutte le richiamate ragioni, in accoglimento dell’appello principale, il cliente è stato condannato a restituire in favore della banca intermediaria quanto incassato in virtù della sentenza di primo grado nonché alla refusione delle spese del doppio grado di giudizio.
IL COMMENTO
Grandi rendimenti, grandi rischi, ma quando l’investimento va male?
Sempre più spesso, spinto da un’incauta ed ormai superata giurisprudenza, il cliente pretende di ricevere dall’intermediario, in luogo del mancato rendimento “finale“, il risarcimento dei danni per omissione degli obblighi informativi, o ancor più deducendo qualsivoglia vizio genetico o funzionale del contratto, il rimborso delle somme investite.
Ragionando in tal senso, tuttavia, cosa si impone alla banca: un onere di “informazione” o piuttosto un obbligo di “chiarovveggenza”?
Talvolta i Tribunali sembrano accedere alla seconda impostazione, facendo ricadere il rischio sostanziale dell’operazione di investimento sull’intermediario, facendo leva sulla individuazione di quest’ultimo quale soggetto “forte” del rapporto con l’investitore.
Andando oltre il “senso comune“, tuttavia, è d’obbligo chiedersi quale sia la corretta qualificazione giuridica del rapporto intermediario-cliente e quali gli oneri che possono effettivamente ricadere sul primo.
La peculiarità della pronuncia in commento è quella di aver correttamente ricostruito i “piani” di valutazione del rapporto in questione, non solo in termini di “forza” sociale ed economica, bensì distinguendo i profili oggettivi da quelli soggettivi ed, in ultima istanza, riconducendo la fattispecie agli indeclinabili principi che regolano il rapporto tra condotta e danno.
Quando gli oneri informativi, che la normativa di settore impone all’intermediario, siano correttamente ricostruiti in termini di responsabilità pre-contrattuale, categoria che per quanti sforzi abbia fatto una minoritaria dottrina è certamente una species del genus della responsabilità extracontrattuale, il legame tra condotta (omissiva, della banca) e danno (economico, per il cliente) non può che ricondursi ai termini di una rigida consequenzialità.
In altri termini, non può sbrigativamente risolversi la questione con la semplice equazione tra inadempimento degli obblighi informativi e responsabilità per i danni subiti dall’investitore.
La tecnica ermeneutica, in tali casi, è quella della “prognosi postuma“: il giudicante deve chiedersi, alla luce degli elementi a propria disposizione, se l’investitore, in presenza di quella condotta che si assume omessa, avrebbe o meno proseguito ugualmente all’investimento (quod effectum) “sbagliato“.
Detto altrimenti, la valutazione deve essere fatta “con gli occhi del passato” e non con “quelli del presente“. Troppo semplice, infatti, far ricadere sull’intermediario gli esiti infausti di un’infausta operazione di investimento, alla luce della conoscenza degli esiti stessi.
Ne discende che, come correttamente argomentato dal Collegio capitolino, se nel maggio 2001 non era prevedibile il default dello Stato Argentino in base agli elementi all’epoca rilevabili, una volta appurata la propensione a (quel determinato profilo e livello di) rischio da parte dell’investitore, dal mancato assolvimento degli obblighi informativi non può inferirsi automaticamente che il cliente avrebbe desistito dal compiere operazioni sui titoli contestati e concludere, altrettanto automaticamente, per la responsabilità dell’intermediario.
Diversamente, si rischierebbe di addivenire al paradosso di “annullare” l’aleatorietà dell’investimento, in danno di una sola parte: quella (apparentemente “forte“) dell’intermediario.
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 516/2015
Tags : Corte Appello Roma, escluso, fase precontrattuale, Intermediazione finanziaria, obblighi informativi, onere di monitoraggio titoli – escluso, pres.rel. Edoardo Cofano, prognosi postuma, responsabilità intermediario, risarcimento del danno, sentenza 19.03.2015, violazione regola della buona fede