Non configura plusvalenza tassabile ai sensi degli artt. 6, comma 2 del T.U.I.R. la caparra penitenziale trattenuta dal promittente venditore, qualora non si proceda alla stipula del contratto definitivo di compravendita immobiliare per effetto dell’esercizio del diritto di recesso da parte del promissario acquirente.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. Trib., Pres. Cirillo – Rel. Napolitano, con l’ordinanza n. 27129 del 23 ottobre 2019.
Il ricorrente, un contribuente, si era visto recapitare un avviso di accertamento ai fini IRPEF da parte dell’Agenzia delle Entrate per non aver dichiarato nel suo “Unico” una somma ricevuta a titolo di caparra per la mancata vendita di un suo terreno agricolo. Nel caso di specie, il promissario acquirente aveva esercitato il diritto di recesso e, quindi, il contratto definitivo non era stato mai stipulato e nessun trasferimento dell’immobile era stato realizzato. Il promissario venditore aveva trattenuto la somma ricevuta a titolo di caparra.
Dopo il rigetto in primo e secondo grado da parte della giustizia tributaria, il contribuente ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di due motivi. La Corte ha ribaltato le due pronunce, negando la legittimità della richiesta dell’Agenzia.
Gli Ermellini, infatti, non hanno ritenuto corretto affermare la natura risarcitoria della caparra penitenziale, la quale è – va ricordato – una somma di denaro che una parte consegna all’altra, quale corrispettivo del diritto di recesso pattuito nel contratto stipulato dalle parti stesse. Pertanto non si può neppure affermare che la caparra sia tassabile ex art. 6 comma 2 del T.U.I.R., a norma del quale le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento dei danni, sono considerati redditi della stessa categoria di quelli sostituiti.
In relazione ad una compravendita di terreno, quindi, la somma incamerata da uno dei contraenti per effetto del diritto di recesso, esercitato dall’altro e legato alla caparra penitenziale pattuita, non ha natura risarcitoria e pertanto non può configurare quel provento sostitutivo di reddito di cui all’art. 6, comma 2, del T.U.I.R.
Per quanto riguarda invece il secondo motivo del ricorso, la Corte ha rilevato l’inesistenza di una plusvalenza, quale reddito diverso, assoggettabile a tassazione, proprio perché è impossibile attribuire all’importo trattenuto dal promittente venditore, come caparra penitenziale per effetto dell’esercizio del diritto di recesso della promissaria acquirente, natura di “provento conseguito in sostituzione di reddito”.
Gli Ermellini hanno sottolineato la differenza esistente tra la caparra penitenziale, prevista e disciplinata dall’art. 1386 c.c. e la clausola penale, anche in relazione alla caparra confirmatoria di cui all’art 1385 c.c.. La prima, quindi, incamerata per il mancato recesso, non è qualificabile come “risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili in ragione del conseguimento di una plusvalenza”, a differenza della seconda.
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