ISSN 2385-1376
Testo massima
CITAZIONE IN MATERIA CIVILE – Nullità della citazione – Sanatoria – Nullità della citazione per vizi afferenti alla vocatio in ius – Costituzione in giudizio del convenuto – Conseguenze
Il vizio di vocatio in jus assume rilevanza quale vizio di nullità dell’atto introduttivo se ed in quanto abbia inficiato la regolarità del contraddittorio recando all’insopprimibile diritto di difesa, costituzionalmente garantito, un vulnus tale da rendere impraticabile ogni ipotesi di sanatoria; e cioè se ed in quanto si accerti la concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa.
Procedimento civile Giudice Attribuzioni e poteri
Il potere d’ufficio di cui all’art. 281-ter c.p.c. è attribuito al giudice monocratico unicamente in chiave sussidiaria, vale a dire per fornire elementi utili alla decisione ulteriori rispetto a quelli già articolati e dedotti dalle parti; non può, viceversa, in alcun caso essere esercitato per supplire alla carente allegazione difensiva.
Procedimento civile Prova testimoniale civile – Ammissione – Modo di deduzione Termini Giusto processo Violazione Conseguenze
Viola l’art. 111 Cost. un’applicazione dell’art. 281-ter c.p.c., che determini la concreta elusione delle norme regolatrici del processo e segnatamente:
a) del regime delle preclusioni istruttorie, che imponeva a pena di decadenza la formulazione delle istanze istruttorie entro la prima udienza di comparizione, con la conseguenza che qualora il giudice non rilevi tale decadenza e fondi la sua decisione su una prova tardivamente acquisita al processo, la sentenza così pronunciata contiene un vizio di nullità derivante dalla violazione di una norma sul procedimento, che, secondo le regole ordinarie, si traduce in un motivo di impugnazione, che è onere della parte soccombente proporre;
b) degli artt. 230 e 244 c.p.c., applicabili anche davanti al giudice di pace, che disciplinano modi e termini delle deduzioni istruttorie di prova orale, prescrivendone l’articolazione in capitoli specifici e separati. (Fattispecie in cui il giudice di pace aveva autorizzato la “eventuale richiesta per mezzi istruttori” ad altra udienza (la terza) fissata per la discussione “con eventuali testi” e a tale udienza ne aveva disposto l’escussione nonostante l’assenza di ogni indicazione di testi, di citazione testimoniale, e di capitolato di prova, articolato direttamente dal g.d.p. nelle forme di un interrogatorio libero).
Testo del provvedimento
La presente sentenza viene redatta secondo le indicazioni dettate dagli art.li 132 cpc e 118 disp. att. c.p.c.
1. Gli appellanti impugnano la sentenza n. 691/06 con cui il Giudice di Pace di Piacenza ha confermato il decreto ingiuntivo emesso in data 25.02.2005 in favore dell’appellato, condannando gli odierni appellanti “a pagare ad TIZIO [
] la somma di 1.174,80 oltre interessi dalla scadenza al saldo, nonché oltre (testuale) spese del procedimento ingiuntivo pari ad Euro 439,00 oltre 12,5% ex art. 14 LP, IVA e CPA“
La sentenza resa dal giudice di prime cure viene censurata in quanto ingiusta ed iniqua ed in particolare per i seguenti motivi:
– in rito, violazione del principio dispositivo e del principio del contraddittorio, avendo il giudice di prime cure dato impulso ufficioso all’attività istruttoria successivamente alla congiunta ri-chiesta dei difensori delle parti di fissare udienza di discussione, istanza questa da intendersi quale implicita rinuncia ad istanze istruttorie, non formulate; violazione dell’art. 244 c.p.c., avendo il giudice di prime cure consentito l’espletamento di prove testimoniali non previamente capitolate né articolate né dedotte, donde la nullità della fase istruttoria;
– nel merito, insussistenza del credito azionato, non essendovi prova del conferimento dell’incarico professionale, né della attività asseritamente svolta in esecuzione dello stesso.
Si costituiva resistendo in data 06.02.2008 l’appellato TIZIO, con-testando tutto quanto ex adverso dedotto ed eccepito.
Eccepiva preliminarmente l’inammissibilità dell’appello per il passaggio in cosa giudicata del decreto ingiuntivo, da ritenersi non ritualmente opposto per inosservanza dei termini a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c. così come novellato dalla L. 263/2005, art. 2, comma 1, lett. G); vizio non sanabile ex art. 164 c.p.c..
Resisteva altresì in rito e nel merito, concludendo per l’integrale conferma della pronuncia appellata.
All’udienza dell’ 08.11.2012 sulle conclusioni delle parti la causa ve-niva assegnata a sentenza con i termini di rito.
2. Occorre preliminarmente esaminare l’eccezione di giudicato proposta dall’appellato. Essa non appare fondata. Costituisce jus receptum, in quanto opinione della dottrina assolutamente maggioritaria ed orienta-mento della giurisprudenza assolutamente prevalente, che l’art. 164 c.p.c. sia applicabile anche al giudizio di appello in forza della clausola generale di cui all’art. 359 c.p.c. (Cassazione civile, sez. I, 04/04/2011, n. 7619). Valga per tutte Cassazione civile, sez. II, 28/05/2010, n. 13128: “In virtù del rinvio operato dall’art. 359 c.p.c. alle disposizioni del procedimento di pri-mo grado, l’art. 163 bis c.p.c. (nella formulazione anteriore alla modifica di cui all’art. 2, comma 1, lett. g, l. 28 dicembre 2005 n. 263, applicabile “ratione temporis”), secondo il quale tra il giorno della notifica della citazione e quello dell’udienza di comparizione devono intercorrere termini liberi non minori di giorni sessanta, se il luogo della notifica si trova in Italia, si applica anche al giudizio di appello. Ne consegue che, se tra la notifica dell’atto di appello e l’udienza di comparizione intercorre un termine inferiore a quello indicato, l’atto di citazione é nullo ai sensi del comma 1 dell’art. 164 c.p.c., e deve applicarsi il comma 2 di tale norma, secondo cui, in caso di mancata costituzione del convenuto, il giudice, rilevata la nullità della citazione, ne dispone la rinnovazione entro un termine perentorio“. Non sfugge il rilievo che il precedente istruttore non abbia disposto tale rinnovazione avendo preso atto della costituzione, sia pur tardiva, del convenuto, di cui revocava la contumacia. Costituzione che assumeva dunque efficacia sanante del vizio di vocatio in jus.
Né sfugge la considerazione che, in forza dei principi che regolano l’attuale ordinamento processuale, il vizio di vocatio in jus assume rilevanza quale vizio di nullità dell’atto introduttivo se ed in quanto abbia inficiato la regolarità del contraddittorio recando all’insopprimibile diritto di difesa, costituzionalmente garantito, un vulnus tale da rendere impraticabile ogni ipotesi di sanatoria; e cioè se ed in quanto si accerti la concreta ed effetti-va lesione del diritto di difesa. Ampie, articolate, approfondite e puntuali nei rilievi appaiono invece, dal tenore degli scritti difensivi, le difese svolte dall’odierno appellato, donde l’evidente insussistenza di tale lesione.
Ne consegue l’infondatezza dell’eccezione preliminare per soprav-venuta eliminazione del vizio originario dell’atto d’appello, pienamente sanato dalla successiva costituzione e dal contegno processuale del convenuto.
3.1. Possono a questo punto esaminarsi i motivi d’appello attinenti a questioni di rito. Essi si risolvono, a ben guardare, in una doglianza specifica nullità dell’istruttoria per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 281-ter c.p.c. che refluisce nella più ampia censura di violazione, da parte del giudice di prime cure, di quasi tutti i principi regolatori del giusto processo (legalità del processo, contraddittorio tra le parti, terzietà ed imparzialità del giudice).
Le censure sono fondate.
Osservato preliminarmente che il procedimento davanti al giudice di pace è regolato, ai sensi dell’art. 311 cp.c., dalle norme dettate per il procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (artt. 281ss. C.p.c.) in quanto compatibili, e rilevato che l’iniziativa processuale del giudice di prime cure appare pacificamente riconducibile all’esercizio del potere ufficioso attribuitogli, in forza del predetto rinvio, dall’art. 281-ter c.p.c., non può non rilevarsi l’error juris della sentenza appellata dovuto all’ applicazione di detta norma senza che ne ricorressero i presupposti.
La giurisprudenza è granitica nel rammentare come tale potere istruttorio ufficioso sia attribuito al giudice monocratico unicamente in chiave sussidiaria, vale a dire per fornire elementi utili alla decisione ulteriori rispetto a quelli già articolati e dedotti dalle parti; non può, viceversa, in alcun caso essere esercitato per supplire alla carente allegazione difensiva.
Le poche pronunce sintomo evidente dell’assenza di significativi contrasti sul punto sull’art. 281-ter affermano chiaramente che il tribunale monocratico non può disporre d’ufficio la prova testimoniale dopo che siano maturate le preclusioni istruttorie a carico delle parti (Tribunale Bari, 27/01/2004; Tribunale Udine, 14/07/2003). E anche la giurisprudenza apparentemente contraria, secondo cui “Il potere istruttorio ufficioso ex art. 281 ter c.p.c. è esercitabile anche dopo il maturarsi delle preclusioni ex art. 184 c.p.c.” , precisa che tale potere è ammesso “non per sostituire la parte inerte nella deduzione dei fatti principali, ma per rendere più specifica, completa e precisa la formulazione della prova articolata” (Tribunale Napoli, 30/09/2002).
Sono principi del resto ampiamente consolidati nell’elaborazione che ne ha fatto la giurisprudenza in materia di rito del lavoro, in cui l’art. 421 c.p.c. prevede espressamente il potere istruttorio ufficioso del giudice. Si afferma così che “stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ex art. 437 c.p.c., ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può in via eccezionale ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento.” (Cassazione civile, sez. lav., 04/05/2012, n. 6753).
Per tutte: “l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa. Non ricorrono, pertanto, i suddetti presupposti, allorché la parte sia incorsa in decadenze per la tardiva costituzione in giudizio in primo grado e non sussista, quindi, alcun elemento, già acquisito al processo, tale da poter offrire lo spunto per integrare il quadro probatorio già tempestivamente delineato.” (Cassazione civile, sez. lav., 11/03/2011, n. 5878).
L’istruttoria svolta in primo grado appare pertanto affetta da nullità; donde la necessità di valutarne le possibilità di sanatoria ovvero di concludere per la insanabile nullità, derivata, della pronuncia di primo grado.
3.2. Ad avviso di questo Giudice si impone tale seconda soluzione. Se si vogliono adeguatamente valorizzare struttura e funzione del processo civile nell’attuale ordinamento, occorre assumere quale primario riferimento il dettato costituzionale. Gli artt. 24 e 111 Cost. enunciano a chiare lettere che il processo in tanto ha un senso in quanto sia preordinato a dare chiara concreta ed efficace tutela ai diritti azionati; che da tale finalità trae i propri connotati strutturali essenziali, vale a dire la regolamentazione legale, lo svolgimento della difesa in contraddittorio, la terzietà ed imparzialità del giudice, la ragionevole durata; e che se ed in quanto sia conforme a tutti questi profili, e solo in tal caso, potrà definirsi “giusto”, cioè idoneo a rendere giustizia e non semplicemente ad “amministrarla“.
Il processo è giusto in quanto regolato dalla legge, cioè disciplinato da norme processuali che vincolano l’attività delle parti e del giudice. Non fa eccezione il giudizio c.d. secondo equità, qualificando tale espressione unicamente la regola di diritto sostanziale applicabile dal decidente, vinco-lato comunque al rispetto delle forme processuali, e dunque dei modi e termini in cui è scandita l’attività processuale; a fortiori il giudizio secondo diritto, reso dal giudice di prime cure, ancorché nell’ambito di un procedi-mento, quale quello davanti al giudice di pace, ampiamente mediante il rinvio alle disposizioni di cui agli artt. 281 ss. c.p.c. ma non totalmente deformalizzato. Ne discende che l’applicazione dell’art. 281-ter c.p.c., so-pra esaminata (§3.1), viola l’art. 111 Cost. in quanto determinante la con-creta elusione delle norme regolatrici del processo e segnatamente:
a) del regime delle preclusioni istruttorie, che imponeva a pena di decadenza la formulazione delle istanze istruttorie entro la prima udienza di comparizione, con la conseguenza che qualora il giudice non rilevi tale decadenza e fondi la sua decisione su una prova tardivamente acquisita al processo, la sentenza così pronunciata contiene un vizio di nullità derivante dalla viola-zione di una norma sul procedimento, che, secondo le regole ordinarie, si traduce in un motivo di impugnazione, che è onere della parte soccombente proporre; nullità che può essere fatta valere dalla parte soccombente solo se non vi ha dato causa (Cassazione civile, sez. III, 15/12/2003, n. 19186); laddove, viceversa, il giudice di prime cure ha autorizzato la “eventuale richiesta per mezzi istruttori” ad altra udienza (la terza) fissata per la discussione “con eventuali testi” e a tale udienza ha autorizzato la loro escussione nonostante non vi sia traccia, nel fascicolo d’ufficio di primo gra-do, acquisito agli atti del presente giudizio, di alcuna indicazione di testi né di citazione testimoniale;
b) degli artt. 230 e 244 c.p.c., applicabili anche davanti al giudice di pace, che disciplinano modi e termini delle deduzioni istruttorie di prova orale, prescrivendone l’articolazione in capitoli specifici e separati; laddove, viceversa, il giudice di prime cure ha consentito l’escussione di testi nonostante non vi sia traccia, nel fascicolo d’ufficio di primo grado, di alcun capitolato di prova; procedendo così ad una sorta di interrogatorio libero, di cui non sfugge l’inammissibilità ed irritualità.
3.3. L’iniziativa processuale assunta dal decidente di primo grado appa-re peraltro, e conseguentemente, di dubbia compatibilità anche con il ca-none costituzionale della terzietà ed imparzialità del giudice, risultando tanto disinvolta quanto poco comprensibile alla luce degli atti e verbali di causa, e ciò anche in considerazione della omissione di ogni iniziativa con-seguente al formale disconoscimento delle scritture prodotte dall’ appellato. Non può, sempre in relazione a tale profilo, non rilevarsi d’ufficio come il tenore delle motivazioni della sentenza appellata appaia in vari passi singolare, lanciandosi l’estensore in considerazioni sulla deontologia forense di cui fornisce una ricostruzione personale e poco condivisibile: “Ma dopo una quindicina di anni di assistenza professionale “proficua” era logico, di-rei doveroso, che il professionista proseguisse la propria opera in favore degli eredi dei primitivi clienti, onde terminare quanto già compiuto attraverso l’espletamento della pratica di condono fiscale“.
Se si considerano i principi di correttezza e buona fede, cui il professionista è tenuto ad attenersi, e la specifica disposizione di cui all’art. 40 del Codice Deontologico Forense a mente del quale “L’avvocato è tenuto altresì ad informare il proprio assistito sullo svolgimento del mandato affidatogli, quando lo reputi opportuno e ogni qualvolta l’assistito ne faccia richiesta” evidenti ragioni di opportunità inducono, o dovrebbero indurre, il legale, in caso di decesso del proprio assistito, ad interloquire con gli eredi al fine di verificarne l’intenzione di proseguire o meno nel rapporto di assistenza professionale. L’ automatismo prospettato dal giudice di primo grado non appare fondato né condivisibile.
Grave appare il vizio di motivazione della sentenza che traspare dalla successiva interrogativa retorica (elemento anch’esso singolare) dell’ estensore: “Perché, infatti, comunicare per iscritto di non volersi servire di una assistenza professionale, se si è sicuri, non avendo “dato incarico scritto”, di non essersi altrimenti impegnati per una assistenza professionale?“.
Grave sia perché oblitera l’espresso disconoscimento del conferimento dell’incarico, viceversa apoditticamente attestato quale accordo verbale dall’estensore, nonché la circostanza documentale della impossibilità di sottoscrivere mandato difensivo da parte di soggetto defunto (Botti Bian-ca), sia perché implicitamente qualifica come perlomeno colposo l’atto con cui il successore dell’assistito manifesti la volontà di non avvalersi del mini-stero del difensore incaricato dal de cuius e di interrompere, conseguentemente, il rapporto professionale. La censurata comunicazione scritta ben poteva trovare spiegazione proprio in tale volontà, piuttosto che come apoditticamente asserito dal giudice di prime cure nella strumentale revoca di un precedente mandato conferito nomine proprio.
Sulla non eccessiva terzietà ed imparzialità del decidente valga poi, per brevità, la lettura della penultima pagina della pronuncia, pregna di considerazioni poco tecniche, poco compatibili anche con un giudizio di mera equità, ed alquanto proclivi ad una supina acquiescenza alle tesi difensive dell’odierno appellato, recepite quasi alla lettera.
4. L’appello appare fondato anche nel merito. Non v’è prova, per le motivazioni appena esposte (§3.3), del conferimento di un incarico difensi-vo all’appellato, né esplicito, né implicito. V’è anzi in atti prova della volon-tà esattamente contraria (v. nota dell’8.02.2004, doc. 2 del fascicolo di primo grado di parte opposta). Non v’è prova neanche del credito ingiunto. La sola parcella corredata dal parere del consiglio dell’ordine, sulla base della quale il professionista abbia ottenuto il decreto ingiuntivo contro il cliente, se è vincolante per il giudice nella fase monitoria, non lo è nel giu-dizio di opposizione poiché il parere attesta la conformità della parcella stessa alla tariffa legalmente approvata ma non prova, in caso di contesta-zione del debitore, la effettiva esecuzione delle prestazioni in essa indicate, né è vincolante per il giudice della cognizione in ordine alla liquidazione degli onorari, per cui la presunzione di veridicità da cui è assistita la parcella riconosciuta conforme alla tariffa non esclude né inverte l’onere probatorio che incombe sul professionista creditore – ed attore in senso sostanziale – sia quanto alle prestazioni effettivamente eseguite che quanto alla misura degli importi richiesti (Cassazione civile, sez. II, 27/09/2011, n. 19750). L’onere probatorio gravante sull’opposto, attore in senso sostanziale, non può pertanto in questa sede ritenersi assolto, anche in conside-razione della nullità degli atti istruttori compiuti in primo grado.
Da tali rilievi, assorbenti ogni diverso ed ulteriore profilo, discende l’accoglimento dell’appello e la revoca del decreto ingiuntivo opposto. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, avuto riguardo alla natura della controversia, alla complessità delle questioni, alle modalità della loro trattazione, al valore assegnato, nonché alla de-terminazione del compenso professionale che, in forza del combinato di-sposto del D.M. 140/2012 e dell’art. 2233, comma 2, codice civile, deve es-sere in ogni caso adeguato all’ importanza dell’opera ed al decoro della professione.
PQM
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone:
Accoglie l’appello; per l’effetto, a totale riforma della sentenza n. 691/06 emessa dal Giudice di Pace di Piacenza,
Revoca il decreto ingiuntivo n. 25.02.2005 emesso in favore di TIZIO; e per l’effetto
Condanna l’appellato a rifondere a CAIA la somma di Euro 2.742,34 già corrisposte in esecuzione della pronuncia di primo grado, con interessi le-gali e rivalutazione dalla domanda al soddisfo;
Condanna l’appellato a rifondere all’appellante le spese di lite di entrambi i gradi di giudizio che liquida in Euro 1.500,00 oltre IVA e accessori di legge.
Così deciso in Piacenza, 27 giugno 2013
Il Giudice (dott. Antonino Fazio)
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 566/2013