In materia di compensi dell’avvocato, ai sensi dell’art. 2233, comma 3, cod. civ., l’accordo di determinazione del compenso professionale tra avvocato e cliente deve rivestire la forma scritta ad substantiam a pena di nullità, senza che rilevi la disciplina introdotta dall’art. 13, comma 2, della L. n. 247 del 2012.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Giusti – Rel. Guida, con l’ordinanza n. 34301 del 7 dicembre 2023.
Con ricorso al Tribunale di Monza ex art. 702-bis c.p.c., un Avvocato chiedeva la condanna della banca al pagamento di compensi professionali, oltre interessi moratori, per l’assistenza e la difesa legale svolta in quattro vertenze (azioni revocatorie ordinarie) promosse davanti all’intestato Tribunale nei confronti dei garanti della società, contro i quali la banca aveva ottenuto Decreto Ingiuntivo.
Il Tribunale di Monza, in composizione collegiale, in parziale accoglimento della domanda, liquidava in favore della ricorrente, come compenso residuo, la somma di Euro 17.396,00, oltre interessi legali dalla pronuncia al saldo, IVA e CPA.
Il difensore proponeva ricorso per Cassazione, denunciando che il Tribunale aveva ritenuto che tra le parti fosse applicabile la convenzione tariffaria dell’11/04/2013, asseritamente sottoscritta da un proprio collega di studio, senza considerare che sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti tra gli avvocati e i clienti che stabiliscono i compensi professionali, e che la ricorrente non aveva mai sottoscritto alcuna convenzione tariffaria con la banca resistente.
La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso in quanto: “l’accordo di determinazione del compenso professionale tra avvocato e cliente deve rivestire la forma scritta “ad substantiam” a pena di nullità, senza che rilevi la disciplina introdotta dalla L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 2 (recante la nuova disciplina sull’ordinamento professionale forense), che, nell’innovare il solo profilo del momento della stipula del negozio individuato, di regola, nella data del conferimento dell’incarico, ha lasciato invariato (con la previsione di cui dello stesso art. 13, successivo comma 6) quello sul requisito di forma, con la conseguenza che, da un lato, l’accordo, quando non trasfuso in un unico documento sottoscritto da entrambe le parti, si intende formato quando la proposta, redatta in forma solenne, sia seguita dall’accettazione nella medesima forma e, dall’altro, che la scrittura non può essere sostituita con mezzi probatori diversi e la prova per presunzioni semplici, al pari della testimonianza, sono ammissibili nei soli casi di perdita incolpevole del documento ex artt. 2724 e 2725 c.c.”.
Gli Ermellini hanno affermato che l’ordinanza in esame non si fosse attenuta agli enunciati principi di diritto, in quanto la pattuizione scritta del compenso (e cioè la convenzione tariffaria dell’11/04/2013) era stata stipulata dalla banca e da un difensore, collega di studio e convivente more uxorio della ricorrente, e non anche dalla medesima, rimasta dunque estranea all’accordo.
Inoltre, l’emissione di due fatture di acconto di importo (Euro 8.698,00) uguale alla tariffa fissata dalla convenzione intercorsa tra la banca e l’avvocato convivente della ricorrente non è stata considerata sufficiente a supplire alla mancanza di accordo scritto.
Infatti, l’accordo stipulato vincolava soltanto i firmatari della convenzione e non la ricorrente.
Pertanto, l’ordinanza è stata cassata, con rinvio al giudice a quo, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Per ulteriori approfondimenti in materia si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
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