La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi permane sino al momento del suo scioglimento, di cui all’art. 191 c.c., prodottosi il quale effetto, i beni cadono in comunione ordinaria e ciascun coniuge, che abbia conservato il potere di disporre della propria quota, può liberamente e separatamente alienarla.
Questo il principio espresso dalla Cassazione civile, sez. prima, Pres. Dogliotti – Rel. Genovese, con la sentenza n. 8803 del 05.04.2017.
Nel caso controverso, il Tribunale di Napoli aveva respinto la domanda giudiziale proposta da due coniugi, volta all’accertamento dell’inesistenza e/o impossibilità giuridica dell’oggetto del trasferimento immobiliare, eseguito in favore di terzo acquirente (successivamente defunto), in forza di atto di compravendita relativo ad una quota indivisa, pari alla metà, del bene già oggetto di comunione legale, ritenendo che, a seguito del fallimento di uno solo di essi, la comunione si fosse sciolta, ai sensi dell’art. 191 c.c., e quella originaria fosse divenuta una comunione ordinaria, con la conseguente libera disponibilità della quota di spettanza del coniuge non fallito, che ne aveva effettivamente disposto (in misura del 50%).
In particolare, ad avviso del Giudice di prime cure, lo scioglimento della comunione legale, ai sensi degli artt. 191 e 194 c.c., aveva determinato la divisione di tutti i beni, anche di quelli acquistati prima del fatto causativo dello scioglimento della comunione, in quote uguali, tra i due coniugi, che perciò sarebbero divenuti liberamente alienabili.
Investita del giudizio di gravame, la Corte d’Appello di Napoli, disattesa l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 348-bis c.p.c., aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione, condannando gli appellanti al pagamento delle spese di lite.
Secondo la Corte territoriale, l’appello non aveva alcuna ragionevole probabilità di essere accolto atteso che, come rilevato dal primo giudice, la dichiarazione di fallimento di uno dei coniugi aveva causato lo scioglimento della comunione legale, di cui all’art. 159 c.c., con effetti permanenti, ai sensi dell’art. 215 c.c. e ss., rendendo possibile il passaggio del bene dalla comunione legale ad un regime di comunione ordinaria, con la conseguente validità dell’alienazione della sola quota di proprietà del coniuge in bonis, successivamente al verificarsi dello scioglimento della comunione medesima.
I coniugi soccombenti, pertanto, ricorrevano per Cassazione sia avverso l’ordinanza emessa dalla Corte d’Appello, sia contro la sentenza del Tribunale di Napoli.
L’erede del defunto acquirente resisteva con altrettanti controricorsi, proponendo, peraltro, ricorso incidentale, illustrato anche con memoria.
I ricorsi venivano riuniti e la causa rinviata in attesa della pronuncia delle Sezioni Unite civili della Suprema Corte.
In particolare, con il ricorso proposto avverso il Tribunale di Napoli, i due coniugi, premesso di aver impugnato separatamente l’ordinanza di inammissibilità del proprio appello pronunciata dalla Corte territoriale, affrontavano, anzitutto, il problema del merito sottostante alle domande giudiziali proposte.
Con il primo mezzo del ricorso principale, i due coniugi lamentavano l’erronea interpretazione dell’art. 191 c.c., da parte del Tribunale, asseritamente colpevole di aver confuso il concetto di regime patrimoniale con quello di patrimonio e di non essersi avveduto del fatto che gli eventi elencati nella fattispecie non avrebbero potuto produrre effetti retroattivi sul patrimonio dei comunisti, quanto, al più, svolgere la loro efficacia solo ex nunc.
A tal proposito, i coniugi richiamavano la sentenza della Corte costituzionale n. 311 del 1988, che aveva definito la comunione legale fra coniugi come una comunione senza quote, perchè finalizzata alla tutela della famiglia e non della proprietà individuale, osservando che la vendita della frazione astratta in sè avrebbe stravolto l’istituto creando un vero e proprio vulnus, non solo attribuendo diritti reali di contenuto od estensione prima insussistenti ma permettendo l’introduzione di un estraneo nell’ambito dei beni comuni, contro il fondamento dell’istituto.
Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentavano il fatto che il Tribunale aveva interpretato l’art. 191 c.c. dando un rilievo improprio all’evento fallimento di uno dei coniugi, come circostanza fattuale capace di comportare una caduta dei beni acquistati in comunione legale in una comunione ordinaria, in tal modo legittimando una interpretazione incostituzionale dell’art. 191 c.c., per violazione dell’art. 3 Cost. e determinando una pericolosa incisione dei rapporti matrimoniali per una causa patrimoniale esogena.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentavano il fatto che il Tribunale aveva interpretato gli artt. 191 e 194 c.c. nel senso che lo scioglimento della comunione si sarebbe esteso a tutto il patrimonio familiare; con il quarto, invece, si dolevano del fatto che il Tribunale aveva affermato che lo strumento utilizzabile per censurare l’atto di trasferimento fosse l’azione di annullamento, ex art. 184 c.c., anziché di nullità per la mancanza dell’oggetto della compravendita, e che l’inutile decorso del termine annuale per proporla avrebbe reso definitivamente valido ed efficace l’acquisto, anche nei confronti del coniuge (fallito) non alienante nè consenziente.
Con l’ultimo mezzo, i ricorrenti sollevavano la questione di legittimità costituzionale della disposizione di cui all’art. 191 c.c., così come interpretata dai giudici di merito, perchè essa avrebbe determinato una disparità di trattamento del gruppo familiare, consentendo l’ingresso di estranei nella comunione familiare (art. 29 Cost.) e trasformando anche la consistenza del diritto reale di proprietà dei beni in comunione (art. 42 Cost.).
La Suprema Corte, in ordine al ricorso proposto avverso la sentenza del Giudice di primo grado, richiamava la sentenza n. 311 del 1988 emessa dalla Corte Costituzionale, osservando che la comunione legale, a differenza di quella ordinaria, è un comunione senza quote; nella comunione ordinaria, le quote sono oggetto di un diritto individuale dei singoli partecipanti (ex art. 2825 c.c.) e delimitano il potere di disposizione di ciascuno sulla cosa comune (art. 1103); nella comunione legale, i coniugi non sono individualmente titolari di un diritto di quota, bensì solidalmente titolari, in quanto tali, di un diritto avente per oggetto i beni della comunione.
In altri termini, nella comunione legale, la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190), e infine la proporzione in cui, sciolta la comunione, l’attivo e il passivo saranno ripartiti tra i coniugi o i loro eredi (art. 194).
Ebbene, ad avviso degli ermellini, se la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dall’art. 180 c.c., comma 2 per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza, ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall’art.184 c.c.
La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta, proseguiva il Giudice di legittimità, che l’espropriazione per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione.
La Corte di Cassazione, rilevata, nel caso di specie, la validità del trasferimento volontario dell’intero bene immobile, anche se posto in essere dal coniuge non autorizzato, affrontava l’ulteriore problema relativo alla legittimità, o meno, da parte del singolo coniuge, una volta sciolta la comunione coniugale, del trasferimento della propria quota.
All’uopo, il Collegio chiariva che la cd. comunione senza quote costituisce, in realtà, un artificio tecnico-giuridico utile soltanto ad affermare il diritto del coniuge a non entrare in rapporti di comunione con estranei alla stessa ed a difendere il patrimonio familiare da inframmettenze di terzi, con conseguente possibilità / necessità di alienare il bene nella sua interezza (anche senza il consenso dell’altro coniuge e salva successiva autorizzazione sanante dell’annullabilità dell’atto: art. 184 c.c.) o ad espropriarlo vendendolo per intero; dunque, una volta sciolta la comunione legale (per una delle cause di cui all’art. 191 c.c.), e maturati dalle parti i diritti di credito riguardo ai beni relitti, nulla impedisce che uno degli ex coniugi possa separatamente cedere (ad ogni titolo) la propria quota, ossia la corrispondente misura dei suoi diritti verso l’altro, senza che per questo si ponga un problema di radicale invalidità dell’atto di trasferimento.
In conclusione, la Cassazione, specificato che la natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi permane sino al momento del suo scioglimento, di cui all’art. 191 c.c., prodottosi il quale effetto i beni cadono in comunione ordinaria e ciascun coniuge, che abbia conservato il potere di disporre della propria quota, può liberamente e separatamente alienarla, rigettava il ricorso, condannando i ricorrenti alla rifusione delle spese di lite.
Per ulteriori approfondimenti in materia, si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
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Sentenza | Cassazione Civile, sez. terza, Pres. Ambrosio – Rel. De Stefano | 31.03.2016 | n.6230
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