Testo massima
Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile (nella specie, una banca), l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che si tratti di impresa economicamente valida. Nel sistema della legge fallimentare , difatti, la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa – finalizzate, cioè, alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo – al cui novero non appartiene l’azione risarcitoria in questione, la quale, analogamente a quella prevista dall’art. 2395 cod. civ. , costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, giacché, per un verso, il danno derivante dall’attività di sovvenzione abusiva deve essere valutato caso per caso nella sua esistenza ed entità (essendo ipotizzabile che creditori aventi il diritto di partecipare al riparto non abbiano ricevuto pregiudizio dalla continuazione dell’impresa), e, per altro verso, la posizione dei singoli creditori, quanto ai presupposti per la configurabilità del pregiudizio, è diversa a seconda che siano antecedenti o successivi all’attività medesima.
L’azione di danno da abusiva concessione di credito non può essere considerata azione di massa e, di conseguenza, non può essere esperita dal curatore.
Nel sistema fallimentare il curatore non è titolare di un potere di rappresentanza di tutti i creditori, indistinto e generalizzato. Il sistema piuttosto prevede che la funzione del curatore sia diretta a conservare il patrimonio del debitore, garanzia del diritto del creditore, attraverso l’esercizio delle cosiddette azioni di massa, dirette ad ottenere, nell’interesse del creditore, la ricostituzione del patrimonio predetto, come avviene per l’appunto attraverso l’esercizio delle azioni revocatorie e surrogatorie. Tale principio non è assoluto ma va armonizzato con quello secondo il quale siffatta legittimazione ad agire sostitutiva dei singoli creditori, non sussiste in presenza di azioni esercitabili individualmente in quanto dirette ad ottenere un vantaggio esclusivo e diretto del creditore nei confronti di soggetti diversi dal fallito. Ne consegue che l’azione di danno da abusiva concessione del credito, non annoverabile fra le azioni di massa – accomunate dal carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari dell’esito favorevole – non è esperibile dall’ufficio della curatela.
Questi gli interessanti principi affermati dalla Corte d’Appello di Milano, Pres. Fabrizi Rel. Nardo, con sentenza del 20 marzo 2015.
Il tema della c.d. concessione abusiva di credito, come ormai il fenomeno viene tralatiziamente denominato, continua a riproporsi all’attenzione degli operatori del diritto.
Nel caso di specie, una società in liquidazione in amministrazione straordinaria conveniva in giudizio alcune banche esponendo che, a seguito della dichiarazione di fallimento ed a procedura di amministrazione straordinaria in corso le stesse avevano continuato a finanziare la società permettendo il continuo depauperamento del patrimonio sociale e l’aumento del passivo della società. Su tali presupposti l’attrice chiedeva accertarsi la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale degli istituti di credito.
In primo grado, il Tribunale di Monza dichiarava il difetto di legittimazione attiva dell’attrice.
Avverso tale statuizione la società proponeva appello chiedendo l’accoglimento delle domande già tutte formulate in primo grado.
La Corte milanese, quanto alla legittimazione ad agire del curatore con riguardo alla domanda di risarcimento del danno causato dalla condotta delle banche sia alla massa dei creditori che al patrimonio della società, ha ribadito quanto già sostenuto dalle Sezioni Unite del 2006 con la sentenza n. 7029, ossia:
1) il curatore fallimentare non è legittimato a proporre, nei confronti del finanziatore responsabile (nella specie, una banca), l’azione da illecito aquiliano per il risarcimento dei danni causati ai creditori dall’abusiva concessione di credito diretta a mantenere artificiosamente in vita una impresa decotta, suscitando così nel mercato la falsa impressione che sì tratti di impresa economicamente valida. Nel sistema della legge fallimentare , difatti, la legittimazione del curatore ad agire in rappresentanza dei creditori è limitata alle azioni c.d. di massa finalizzate, cioè, alla ricostituzione del patrimonio del debitore nella sua funzione di garanzia generica ed aventi carattere indistinto quanto ai possibili beneficiari del loro esito positivo – al cui novero non appartiene l’azione risarcitoria in questione, la quale, analogamente a quella prevista dall’art. 2395 cod. civ. , costituisce strumento di reintegrazione del patrimonio del singolo creditore, giacché, per un verso, il danno derivante dall’attività di sovvenzione abusiva deve essere valutato caso per caso nella sua esistenza ed entità (essendo ipotizzabile che creditori aventi il diritto di partecipare al riparto non abbiano ricevuto pregiudizio dalla continuazione dell’impresa), e, per altro verso, la posizione dei singoli creditori, quanto ai presupposti per la configurabilità del pregiudizio, è diversa a seconda che siano antecedenti o successivi all’attività medesima;
2) in relazione a tale tipo di azione le Sezioni unite hanno puntualizzato che la società fallita “partecipò al contratto che dette luogo alla abusiva concessione del credito. Essa dunque da quel contratto non trasse un credito nei confronti della banca, oggi rivendicabile dal curatore. Piuttosto dette luogo, nella stessa costruzione proposta dalla curatela, all’illecito di cui si discute. Dunque non può ragionarsi in termini di compensazione delle colpe, come pretende la curatela, giacché l’ipotesi di cui all’art. 1227 cod. civ., non può applicarsi al caso in cui entrambe le parti del rapporto danno vita, consapevolmente, al medesimo illecito, riguardando la norma codicistica la fattispecie nella quale distinte condotte, diversamente efficienti a produrre l’evento di danno, ma tuttavia l’una avente titolo nella colpa, concorrono a produrre l’evento pregiudizievole“.
La Corte ha, altresì, precisato che l’unica ipotesi nella quale il curatore può dirsi legittimato ad agire nei confronti della banca, quale responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita dall’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società stessa, è quella nella quale, come precisato nella sentenza della Cassazione n. 13413/2010, la circostanza che l’amministratore della società fallita e il direttore della filiale della banca siano stati condannati per “concorso in bancarotta fraudolenta e ricorso abusivo al credito“.
Tanto, infatti, vale ad integrare un’ipotesi di responsabilità dell’amministratore verso la società ex art. 2393 cod. civ. – che il curatore può far valere ai sensi della L. Fall., art. 146 – e di concorso nella stessa responsabilità della banca convenuta in relazione alla condotta del proprio funzionario.
Parte attrice sosteneva, inoltre, che il curatore, a seguito delle riforme alla legge fallimentare, fosse divenuto titolare di un indistinto e generalizzato potere di rappresentanza dei creditori anche nell’ipotesi in cui questi ultimi siano legittimati ad esperire azioni risarcitorie nei confronti di terzi.
Sul punto, la Corte milanese, ha precisato che la su richiamata interpretazione appare coerente con la linea di tendenza che emerge dalle riforme nella materia fallimentare (D.L. n. 35 del 2005, L. n. 80 del 2005 e D.Lgs. n. 122 del 2005 ).
Mentre infatti le finalità recuperatorie della azione revocatoria risultano ribadite, viene ulteriormente rafforzata la opinione oramai risalente che sostiene lo sganciamento dell’istituto dalle forme di tutela nei confronti dell’illecito, e dunque viene ulteriormente sottolineata la differenza con la azione ordinaria. Cosicché pare di dovere concludere che ogni pretesa che pur riguardando il patrimonio del fallito, allega a fondamento un illecito da questi subito, sfugge alla logica della universalità e della concorsualità, tipiche delle azioni esecutive di massa.
Del resto, ai sensi dell’art. 240 L. Fall. a fronte di un illecito, appare del tutto eccezionale la doppia legittimazione ad agire del curatore e del creditore.
In conclusione, la Corte ha rigettato l’appello spiegato dalla società fallita.
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