Testo massima
In tema di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, la nozione di atto in frode esige – alla luce del criterio ermeneutico letterale, ex art. 12 disp. prel. c.c. – che la condotta del debitore sia stata volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte“, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori; pertanto, nel concetto di “frode” non rientra qualunque comportamento volontario idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio e, quindi, risulta estraneo a tale qualificazione il comportamento del debitore che, già nel ricorso, abbia indicato gli atti di disposizione del patrimonio, stipulati anteriormente, implicanti la concessione di diritti di godimento a terzi e che, successivamente esaminati dal commissario giudiziale, siano ritenuti suscettibili di depauperare il detto patrimonio, così da scoraggiare l’acquisto degli immobili oggetto della cessione ai creditori, pregiudicando la fattibilità della proposta concordataria.
In tema di concordato preventivo, la valutazione in ordine al carattere di ordinaria o straordinaria amministrazione dell’atto posto in essere dal debitore senza autorizzazione del giudice delegato, ai fini della eventuale dichiarazione di inefficacia dell’atto stesso ai sensi dell’art. 167 legge fall., deve essere compiuta dal giudice di merito tenendo conto che il carattere di atto di straordinaria amministrazione dipende dalla sua idoneità ad incidere negativamente sul patrimonio del debitore, pregiudicandone la consistenza o compromettendone la capacità a soddisfare le ragioni dei creditori, in quanto ne determina la riduzione, ovvero lo grava di vincoli e di pesi cui non corrisponde l’acquisizione di utilità reali prevalenti su questi ultimi.
Posto che la causa della proposta di concordato deve essere ravvisata nella regolazione della crisi, la quale a sua volta può assumere concretezza soltanto attraverso le indicazioni delle modalità di soddisfacimento dei crediti (in esse comprese quindi le relative percentuali ed i tempi di adempimento), ne consegue che il margine di sindacato del giudice sulla fattibilità del piano va stabilito, in via generale, in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento nel senso sopra richiamato.
E’ inammissibile, per mancanza di causa, la domanda di concordato preventivo in cui il debitore, nell’offrire ai creditori chirografari il pagamento parziale del credito, si obblighi a corrispondere una percentuale minima irrisoria.
Questi i principi espressi dal Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi Giudice relatore dott. Fabrizio Ciccone, con decreto del 7/05/2013 nell’ambito di una complessa procedura di concordato preventivo, poi, revocata ai sensi dell’art. 173 lf.
E’ accaduto che, immediatamente prima dell’inizio delle operazioni di voto, la società debitrice aveva modificato in senso peggiorativo l’originaria proposta di concordato che, intanto, messa al voto, raggiungeva nella versione originaria, le adesioni favorevoli dei creditori.
In particolare, tale modifica costituiva sostanziale recepimento dei notevoli abbattimenti dei valori di stima dei beni concordatari operati nell’ultima relazione ex art. 172 L.F. depositata che, sulla scorta delle conclusioni rassegnate dai coadiutori della procedura, per la stima dei beni conferiti nell’attivo concordatario, aveva indicato un valore presumibile di realizzo dei crediti chirografari nella misura del 2,14% rispetto alla ben ottimistica previsione del 55,36% indicata nell’originaria proposta di concordato, sicché, nel formulare tale proposta, la debitrice si uniformava ai valori di stima compiuti dagli organi della procedura.
In detta relazione, inoltre, il Commissario giudiziale, segnalava al Tribunale una serie di circostanze (relative, in particolare, alla stipula, in epoca immediatamente antecedente alla presentazione della proposta di concordato, di un contratto di cessione del ramo d’azienda concernente le lavorazioni stradali, affitto e noleggio di beni concordatari, nonché il pagamento, in pendenza di procedura, di parte di un debito contratto dalla debitrice verso altra società per il leasing di un autocarro, tali da rilevare, oltre che sotto il profilo della fattibilità giuridica del concordato, anche sul piano del compimento da parte del debitore di atti in frode dei creditori (art. 173, primo e terzo comma 3, l. fall.), con conseguente revoca dell’ammissione al concordato.
Alla luce di tali circostanze il Tribunale dava inizio al procedimento di revoca dell’ammissione al concordato.
Il Tribunale, ripercorse, pertanto, le fasi salienti della procedura in esame, rileva, in primis, come si debba prendere le mosse dai principi espressi dalla Suprema Corte nella recentissima pronuncia a Sezioni Unite n. 1521 del 23/1/2013, con la quale sono state risolte le seguenti questioni:
a) rilevanza dell’indicazione concernente la misura percentuale di soddisfacimento dei creditori nell’economia della proposta concordataria, anche sotto il profilo della relativa incidenza sulla sua fattibilità;
b) necessità di stabilire in quale misura l’eventuale non fattibilità del piano possa determinare un’impossibilità dell’oggetto del concordato, e quindi di definire i limiti entro i quali il requisito della fattibilità possa essere suscettibile di sindacato da parte del giudice.
Il Tribunale, pertanto, illustra le risposte fornite a tali interrogativi dalle Sezioni Unite nei seguenti termini:
a) è irrilevante, nell’economia della proposta concordataria e della sua fattibilità economica (e, dunque, non anche giuridica) l’indicazione della prevedibile misura di soddisfacimento dei creditori;
b) il sindacato del giudice in ordine al requisito di fattibilità giuridica del concordato deve essere esercitato sotto il duplice aspetto del controllo di legalità sui singoli atti in cui si articola la procedura e della verifica della loro rispondenza alla causa del detto procedimento quale idoneità del piano e della proposta alla composizione della crisi di impresa attraverso il soddisfacimento, sia pure parziale, dei creditori, mentre non può essere esteso ai profili concernenti il merito e la convenienza della proposta.
Il Tribunale, a questo punto, procede alla preventiva individuazione della causa concreta del procedimento di concordato preventivo, ritenendo che la proposta di concordato deve necessariamente avere ad oggetto il superamento della crisi, la quale a sua volta può assumere concretezza soltanto attraverso le indicazioni delle modalità di soddisfacimento dei crediti (in esse comprese quindi le relative percentuali ed i tempi di adempimento), rispetto alla quale la relativa valutazione (sotto i diversi aspetti della verosimiglianza dell’esito e della sua convenienza) è rimesso al giudizio dei creditori, in quanto diretti interessati.
Da tanto, il Tribunale fa discendere l’ulteriore principio secondo cui il margine di sindacato del giudice sulla fattibilità del piano va stabilito, in via generale, in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento nel senso sopra richiamato.
Ciò posto, così individuati i limiti del sindacato di legittimità, consentito al giudice, della fattibilità del piano in ragione della causa concreta del concordato, il Tribunale, sulla base di tali presupposti, procede ad una analitica ed approfondita disamina, in fatto ed in diritto, delle singole circostanze oggetto del procedimento di revoca ed in particolare:
1) la stipula di un contratto di cessione del ramo d’azienda concernente le lavorazioni stradali, in epoca immediatamente antecedente alla presentazione della proposta di concordato ed in alcun modo menzionato nella detta proposta.
Il Tribunale ravvisa in tale atto una condotta di sottrazione di una parte rilevante dell’attivo, tale da giustificare la revoca dell’ammissione al concordato, affermando il seguente principio:
la dissimulazione o sottrazione dell’attivo, dunque, è ravvisabile in qualunque attività preordinata ad occultare (o anche distruggere), beni mobili o immobili, ovvero a sottrarre ai creditori beni destinati alla massa fallimentare al fine di convincerli ad accettare una percentuale inferiore, sul presupposto che detti beni non fanno più parte dell’attivo concordatario.
Sul punto, il Tribunale osserva come in tema di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, la nozione di atto in frode esiga – alla luce del criterio ermeneutico letterale, ex art. 12 disp. prel. c.c. – che la condotta del debitore sia stata volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori; pertanto, nel concetto di “frode” non rientra qualunque comportamento volontario idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio e, quindi, risulta estraneo a tale qualificazione il comportamento del debitore che, già nel ricorso, abbia indicato gli atti di disposizione del patrimonio, stipulati anteriormente, implicanti la concessione di diritti di godimento a terzi e che, successivamente esaminati dal commissario giudiziale, siano ritenuti suscettibili di depauperare il detto patrimonio, così da scoraggiare l’acquisto degli immobili oggetto della cessione ai creditori, pregiudicando la fattibilità della proposta concordataria.
2) il contratto di nolo di un bene, ove è convenuto il diritto di prelazione in ordine all’acquisto del bene in favore della conduttrice.
Il Tribunale correttamente afferma come, nel caso in esame, se è vero che il diritto di prelazione era stato oggetto di formale rinuncia da parte dell’affittuaria, tale rinuncia è da considerarsi invalida considerato che la stessa non può avvenire in astratto, ma soltanto dopo che il fatto costitutivo della prelazione si sia realizzato, cioè dopo che la “denuntiatio” si avvenuta nel rispetto delle forme previste.
Il Tribunale, a seguito di un’articolato approfondimento della questione, conclude osservando come, secondo la giurisprudenza, integri la fattispecie della dissimulazione dell’attivo e giustifica, pertanto, l’arresto della procedura di concordato preventivo ai sensi dell’art. 173 L. F., il fatto che la proposta, come nella specie, contenga la previsione di un diritto di opzione a favore dell’affittuaria di beni concordatari, offerti in cessione pro soluto ai creditori, tale da ostacolarne il trasferimento nella successiva fase di liquidazione.
3) Il Tribunale procede, poi, alla valutazione del contratto di leasing stipulato dalla società debitrice in epoca immediatamente antecedente alla presentazione della proposta di concordato ed in alcun modo menzionato nella detta proposta, cui sono seguite, nelle more della procedura, la comunicazione di risoluzione della società concedente per mancato pagamento dei canoni di godimento da parte della società proponente e la successiva autorizzazione di quest’ultima nei confronti della concedente a vendere a terzo soggetto il bene al valore commerciale, con la conseguenza che il ricavato della suddetta vendita veniva portato a deconto della esposizione debitoria maturata.
Orbene, il Tribunale, dopo un’approfondito esame della operazione, ha ravvisato nella stessa una cessione del contratto di leasing, precedentemente stipulato dalla società debitrice, di natura gratuita in quanto, per come strutturata, la cessionaria nulla avrebbe corrisposto alla procedura concordataria e, pertanto, un atto di straordinaria amministrazione, soggetto, pertanto, ad autorizzazione da parte del Giudice delegato ex art. 167 co. 2, L.F., giungendo ad affermare il seguente principio:
in tema di concordato preventivo, la valutazione in ordine al carattere di ordinaria o straordinaria amministrazione dell’atto posto in essere dal debitore senza autorizzazione del giudice delegato, ai fini della eventuale dichiarazione di inefficacia dell’atto stesso ai sensi dell’art. 167 legge fall., deve essere compiuta dal giudice di merito tenendo conto che il carattere di atto di straordinaria amministrazione dipende dalla sua idoneità ad incidere negativamente sul patrimonio del debitore, pregiudicandone la consistenza o compromettendone la capacità a soddisfare le ragioni dei creditori, in quanto ne determina la riduzione, ovvero lo grava di vincoli e di pesi cui non corrisponde l’acquisizione di utilità reali prevalenti su questi ultimi.
Nella fattispecie in esame, trattandosi di atto a titolo gratuito, in quanto privo di corrispettivo, sarebbe stata necessaria l’autorizzazione del Giudice Delegato, mai richiesta, per cui il Tribunale legittimamente fa discendere da tale violazione la revoca della procedura, così come previsto dall’art. 173 III co, prima parte, lf.
A questo punto, il Tribunale, ferma la revocabilità della procedura, per i motivi esposti, concernenti tanto la fattibilità giuridica della presente proposta di concordato (previsione di clausole di prelazione e opzione in favore delle società affittuarie dei beni aziendali), quanto il compimento di atti sottrazione dell’attivo o non autorizzato dal G.D. (cessione di ramo d’azienda in favore di BETA s.r.l. e pagamento di un debito), affronta l’ulteriore questione della rilevanza delle condotte illustrate, come ulteriore motivo di revoca dell’ammissione al concordato sotto il profilo del sopravvenuto venir meno delle condizioni prescritte per l’ammissione del concordato: art. 173, 3° co., ultima parte, lf ed in particolare la questione della inidoneità della diversa percentuale di soddisfacimento offerta in pagamento (sia pure non in termini vincolanti) ai creditori chirografari, nella misura appunto del 2,14% dell’intero loro credito vantato, a realizzare la sopra richiamata causa della procedura di concordato.
Sul punto, posta l’ammissibilità in astratto delle modifiche alla proposta di concordato, il Tribunale, correttamente, ritiene che se vero che, trattandosi di concordato con cessione pro soluto dei beni esistenti nell’attivo concordatario, l’indicata percentuale non costituisce la misura di soddisfazione dei crediti chirografari ma una mera previsione di realizzo presuntiva, che ben può essere smentita in sede di liquidazione (Cass. Civ., Sez. I, sent. n. 3957/2003), ciò non esclude, tuttavia, che l’apprezzabile variazione di tale misura preventiva di realizzo costituisca variazione essenziale della proposta di concordato, incidendo direttamente sulla sua convenienza economica e giuridica e tale da imporre una nuova convocazione dell’adunanza dei creditori, ai fini della sua approvazione.
Tanto sul presupposto che non possa negarsi ai creditori il diritto di esprimersi sulla convenienza della proposta, sol perché si tratti di concordato con cessione pro soluto dei beni concordatari, considerato che gli stessi possono pervenire ad una differente valutazione di convenienza della proposta in presenza di un peggioramento di tale previsione di realizzo presuntiva, giacché, pur se indicativa e non vincolante, tale percentuale è in ogni caso idonea ad orientare in misura significativa le valutazioni di convenienza della proposta da parte del ceto creditorio.
Nel caso di specie, il Tribunale giunge alla conclusione del mancato raggiungimento della maggioranza prevista dal primo comma dell’art. 178 lf per l’approvazione della proposta di concordato, considerata la circostanza che tanto i voti espressi prima dell’adunanza dei creditori (nella misura del 26,815%), quanto quelli ricevuti successivamente all’adunanza dei creditori (19,322%) erano stati espressi dai creditori sulla base della originaria, e per loro ben più favorevole, proposta di concordato.
Infine, viene affrontata la questione dell’idoneità della diversa percentuale di soddisfacimento offerta in pagamento (sia pure non in termini vincolanti) ai creditori chirografari, nella misura appunto del 2,14% dell’intero loro credito vantato, a realizzare la sopra richiamata causa della procedura di concordato.
Il Tribunale correttamente premette che nel concordato preventivo con cessione dei beni, il debitore non ha l’onere di indicare la percentuale di soddisfacimento che, in esito alla liquidazione, i creditori otterranno, anche se al contempo viene condivisa l’opinione secondo la quale tale indicazione, come quella relativa ai possibili tempi della liquidazione, sono necessarie al fine della determinatezza e piena intelligibilità della proposta di concordato.
Si osserva come oggetto dell’obbligazione possa essere, e tale è in difetto di diversa ed inequivoca assunzione di responsabilità, unicamente l’impegno a mettere a disposizione dei creditori i beni dell’imprenditore liberi da vincoli ignoti che ne impediscano la liquidazione o ne alterino apprezzabilmente il valore, assumendo l’indicazione della percentuale unicamente una funzione chiarificatrice del presumibile risultato del completamento del piano di concordato.
In altri termini, il proponente, ovviamente sulla base di dati concretamente apprezzabili, indica ai creditori la prospettiva che ritiene plausibile e questi, approvando la proposta, condividono la valutazione e quindi accettano il rischio di un diverso esito della liquidazione comparandone la complessiva convenienza con riferimento alle alternative praticabili (Cassazione civile, sez. I , 23 giugno 2011, n. 13818).
Tuttavia, si osserva, l’evoluzione legislativa del concordato se porta ad escludere che il Giudice possa effettuare qualsiasi vaglio di congruità dell’offerto rispetto al dovuto, certamente non implica che egli possa disinteressarsi di verificare se, l’offerta, trattandosi appunto, di un “pagamento parziale”, sia pure in termini non vincolanti, ai creditori chirografari, possa dimostrarsi idonea a realizzare la sopra richiamata causa del concordato quale soddisfacimento parziale e in tempi ragionevoli dei crediti dell’imprenditore insolvente.
Il Tribunale, aderendo a plurime e recenti pronunce della giurisprudenza di merito, giunge ad affermare il principio secondo cui è inammissibile, per mancanza di causa, la domanda di concordato preventivo in cui il debitore, nell’offrire ai creditori chirografari il pagamento parziale del credito, si obblighi a corrispondere una percentuale minima irrisoria.
Muovendo da tali principi, il Tribunale giunge a ritenere che la domanda di concordato in esame, attestando sulla percentuale senz’altro irrisoria del 2,145% è priva di causa e non integra gli elementi di fattispecie di cui all’art. 160, comma 1, lett. a) lf, è inammissibile e per l’effetto dispone la revoca dell’ammissione al concordato preventivo.
Con la decisione in esame, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi Giudice relatore dott. Fabrizio Ciccone, ha affrontato una pluralità di questioni di diritto connesse alle diverse problematiche che si pongono di continuo all’attenzione dell’interprete in materia di concordato e tanto non soltanto con riferimento al tema della individuazione dei compiti assegnati al giudice nella procedura di concordato, ed in particolare dei limiti al sindacato di legittimità della fattibilità del piano, ma, altresì, in relazione alle varie ipotesi che possono determinare la revoca del concordato, in ragione della natura giuridica della procedura concordataria e delle obbligazioni con essa assunte dalla società proponente, giungendo, così, ad affermare principi che sono il frutto di articolato iter argomentativo oltreché di notevole approfondimento della giurisprudenza in materia.
Testo del provvedimento
TRIBUNALE DI SANT’ANGELO DEI LOMBARDI
Il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, riunito in camera di consiglio nelle persone dei seguenti Sig.ri Magistrati:
dott. Vincenzo Beatrice – Presidente
dott. Marcello Rotondi – Giudice
dott. Fabrizio Ciccone – Giudice rel./est.
ha pronunciato il seguente
DECRETO
nella procedura di concordato preventivo iscritto al n. 1/2012 Reg. Conc. Prev. aperta, con decreto del 19/6/2012, a carico della “ALFA s.r.l. personale in liquidazione “, con sede in Lioni (AV), alla Contrada Oppido n. 6, in persona del legale rappresentante Rag. G. P.;
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con ricorso presentato il 12 giugno 2012 la società ALFA SRL unipersonale in liquidazione proponeva domanda di concordato, ai sensi dell’art. 160 l. fall., come novellato dal d. lgs. n. 169 del 2007 (prima, dunque, delle modifiche introdotte dal d.l. n. 83/12, conv., con modif., in l. n. 134/12), offrendo per i creditori prededucibili e per quelli privilegiati il soddisfacimento per intero dei loro diritti, e al ceto chirografario il pagamento della percentuale del 55,36% del totale dovuto, prospettando un piano di liquidazione delle attività mediante la loro cessione “pro soluto” tramite l’incasso dei crediti commerciali, la liquidazione delle rimanenze di magazzino (svolgendo la debitrice attività di produzione e commercializzazione di prodotti cementizi e bituminosi, nonché lo svolgimento di lavori edili e stradali), e la cessione del complesso di beni mobili e immobili di sua proprietà (trattasi, in particolare, di un’area destinata a cava sita in Pescopagano, di cinque impianti per la produzione del calcestruzzo e delle relative pertinenze, oltre degli automezzi utilizzati per lo svolgimento dell’attività d’impresa).
Il Tribunale, con decreto depositato il 19/6/2012, verificata la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge, ammetteva la società alla procedura di concordato preventivo. Dopo ben due rinvii giustificati dal protrarsi delle operazioni di stima del valore dell’attivo aziendale, veniva, quindi, fissata, al 22/1/2013 l’adunanza dei creditori per l’approvazione del concordato. Prima di tale udienza, come risulta dal relativo verbale, erano pervenute adesioni favorevoli da parte dei creditori interessati nella misura del 26,815%, percentuale attestatasi al 32,068% al termine dell’adunanza, e al 51,39% per effetto delle adesioni tardive pervenute nei venti giorni successivi, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 178 l. fall.
Tuttavia la società debitrice, immediatamente prima dell’inizio delle operazioni di voto, modificava in senso peggiorativo l’originaria proposta concordataria, offrendo ai creditori la cessione, pro soluto, “di tutti i beni, i crediti e le attività appartenenti (alla società ALFA) come inventariati dal Commissario e nello stato di fatto e di diritto in cui si trovano, anche con riferimento alla loro cedibilità e liquidabilità” (v. verbale di udienza del 22/1/2013). In particolare, tale modifica costituiva sostanziale recepimento dei notevoli abbattimenti dei valori di stima dei beni concordatari operati nell’ultima relazione ex art. 172 L.F. depositata il 22/1/2013 che, sulla scorta delle conclusioni rassegnate dai coadiutori della procedura, Geom. A. D. P. e Arch. S. G., nominati dal G.D. per la stima dei beni conferiti nell’attivo concordatario, aveva indicato un valore presumibile di realizzo dei crediti chirografari nella misura del 2,14% rispetto alla ben ottimistica previsione del 55,36% indicata nell’originaria proposta di concordato, sicché, nel formulare tale proposta, la debitrice si uniformava ai valori di stima compiuti dagli organi della procedura (v. al riguardo pag. 18 della memoria autorizzata del 15/4/2013, laddove si afferma espressamente che la modifica della proposta è frutto di “allineamento a quanto inventariato dal Commissario” e, dunque, ai valori di stima dell’attivo concordatario dal medesimo indicati).
In detta relazione, inoltre, il Commissario giudiziale, richiamando quanto richiamato in quella precedente del 14/12/2012, segnalava al Tribunale una serie di circostanze (relative, in particolare, alla stipula, in epoca immediatamente antecedente alla presentazione della proposta di concordato, di un contratto di cessione del ramo d’azienda concernente le lavorazioni stradali, affitto e noleggio di beni concordatari, nonché il pagamento, in pendenza di procedura, di parte del debito contratto dalla ALFA verso la “Mercedes-Benz FSI” per il leasing di un autocarro targato omissis), tali da rilevare, oltre che sotto il profilo della fattibilità giuridica del concordato, anche sul piano del compimento da parte del debitore di atti in frode dei creditori (art. 173, primo e terzo comma 3, l. fall.), con conseguente revoca dell’ammissione al concordato.
Alla luce di tali circostanze il Tribunale, con decreto del 18 febbraio 2013, dava inizio al procedimento di revoca dell’ammissione al concordato, fissando per la comparizione delle parti l’udienza del 23/4/2013, all’esito della quale veniva riservata la decisione.
Tanto chiarito, e prima di soffermarsi sulle singole questioni oggetto del procedimento di revoca, è bene prendere le mosse dai principi espressi dalla Suprema Corte nella recentissima pronuncia a Sezioni Unite n. 1521 del 23/1/2013, con la quale sono state risolte alcune questioni di particolare rilievo sulla nuova disciplina del concordato preventivo come modificata dalla l. n. 80 del 2005, in ordine alle quali erano state prospettate soluzioni non sempre coincidenti nella giurisprudenza di legittimità e di merito. Tali questioni possono rispettivamente individuarsi, per quel che interessa in questa sede: a) nella rilevanza dell’indicazione concernente la misura percentuale di soddisfacimento dei creditori nell’economia della proposta concordataria, anche sotto il profilo della relativa incidenza sulla sua fattibilità; b) nella necessità di stabilire in quale misura l’eventuale non fattibilità del piano possa determinare un’impossibilità dell’oggetto del concordato, e quindi di definire i limiti entro i quali il requisito della fattibilità possa essere suscettibile di sindacato da parte del giudice.
Rimandandosi, per esigenze di sintesi, alla diffusa motivazione della pronuncia in esame, va qui rilevato che a tali interrogativi le Sezioni Unite hanno risposto nei seguenti termini: a) è irrilevante, nell’economia della proposta concordataria e della sua fattibilità economica (e, dunque, non anche giuridica) l’indicazione della prevedibile misura di soddisfacimento dei creditori; b) il sindacato del giudice in ordine al requisito di fattibilità giuridica del concordato deve essere esercitato sotto il duplice aspetto del controllo di legalità sui singoli atti in cui si articola la procedura e della verifica della loro rispondenza alla causa del detto procedimento quale idoneità del piano e della proposta alla composizione della crisi di impresa attraverso il soddisfacimento, sia pure parziale, dei creditori, mentre non può essere esteso ai profili concernenti il merito e la convenienza della proposta.
E invero, una corretta configurazione dei margini di intervento del giudice sotto il profilo ora evidenziato presuppone la preventiva individuazione della causa concreta del procedimento di concordato preventivo. In proposito non sembra inutile premettere che, come si desume dalle recenti modifiche della disciplina del concordato (fra le quali particolarmente significative quelle concernenti la libertà delle forme, il ridimensionamento del ruolo del giudice, l’accentuazione degli aspetti negoziali), un primo obiettivo di fondo perseguito dal legislatore è univocamente individuabile nel superamento dello stato di crisi dell’imprenditore, obiettivo ritenuto meritevole di tutela sotto il duplice aspetto dell’interpretazione della crisi come uno dei possibili e fisiologici esiti della sua attività e della ravvisata opportunità di privilegiare soluzioni di composizione idonee a favorire, per quanto possibile, la conservazione dei valori aziendali, altrimenti destinati ad un inevitabile quanto inutile depauperamento.
Ne consegue, dunque, che la proposta di concordato deve necessariamente avere ad oggetto la regolazione della crisi, la quale a sua volta può assumere concretezza soltanto attraverso le indicazioni delle modalità di soddisfacimento dei crediti (in esse comprese quindi le relative percentuali ed i tempi di adempimento), rispetto alla quale la relativa valutazione (sotto i diversi aspetti della verosimiglianza dell’esito e della sua convenienza) è rimesso al giudizio dei creditori, in quanto diretti interessati.
Se il legislatore ha dunque incontestabilmente valorizzato l’elemento negoziale sotto l’aspetto sopra indicato nella procedura oggetto di esame, è pur vero che, come precedentemente già evidenziato, non si è curato di cancellare tutti gli aspetti pubblicistici che caratterizzavano la procedura prima della riforma, con ciò facendosi in particolare riferimento alle forti limitazioni e compressioni che il creditore finisce per subire per effetto del procedimento di concordato, vedendo vanificato il suo diritto di azione pur costituzionalmente garantito e assistendo alla formalizzazione di una limitazione del suo credito, per effetto di maggioranze ipoteticamente non condivise formatesi sul punto. Una limitazione così significativa, dunque, determinata da un’avvertita esigenza di bilanciamento con le sopra richiamate esigenze di agevolazione dell’imprenditore nell’uscire dallo stato di crisi, può trovare concreta giustificazione soltanto ove ricorrano le due seguenti condizioni, e cioè che: a) lo svolgimento del procedimento avvenga nel rispetto delle indicazioni del legislatore, vale a dire consentendo ai creditori, dapprima, di votare avendo conoscenza (o avendo avuto modo di conoscere) di tutti i dati a tal fine necessari e, quindi, di esprimere le eventuali riserve nel giudizio di omologazione; b) la procedura di concordato sia definita con il raggiungimento della duplice finalità cui l’istituto preordinato, consistente nel superamento della situazione di crisi dell’imprenditore, da una parte, e nel riconoscimento, dall’altra, in favore dei creditori di una sia pur minimale consistenza del credito da essi vantato in tempi di realizzazione ragionevolmente contenuti (come si desume in particolare dall’art. 181 L. F., che stabilisce un breve termine di chiusura della procedura di concordato suscettibile di una sola proroga, e per non più di sessanta giorni, da parte del Tribunale).
Ne consegue che il margine di sindacato del giudice sulla fattibilità del piano va stabilito, in via generale, in ragione del contenuto della proposta e quindi della identificazione della causa concreta del procedimento nel senso sopra richiamato.
Avendo poi più specifico riguardo al concordato con cessione dei beni, che interessa in questa sede, le Sezioni Unite hanno chiarito che il controllo va effettuato sia verificando l’idoneità della documentazione prodotta (per la sua completezza e regolarità) a corrispondere alla funzione che le è propria, consistente nel fornire elementi di giudizio ai creditori (in tal senso la consolidata giurisprudenza di questa Corte, e segnatamente C. 11/3586, C. 10/21860, C. 09/22927), sia accertando la fattibilità giuridica della proposta (si pensi, a titolo esemplificativo, alla cessione di beni altrui), sia infine valutando l’effettiva idoneità di quest’ultima ad assicurare il soddisfacimento della causa della procedura come sopra delineata.
Che tali poteri di valutazione della fattibilità del piano possano essere esercitati dal Tribunale nei tre diversi momenti di ammissibilità, revoca e omologazione del concordato, è stato affermato in termini positivi dalle Sezioni Unite, laddove si è ritenuto, per quanto concerne il rapporto fra gli artt. 162 e 163 L.F. (rispettivamente inammissibilità della domanda e ammissione alla procedura) e l’art. 173 L.F. (revoca dell’ammissione), l’identità del dato testuale (inammissibilità – ammissione e revoca dell’ammissione), l’elencazione delle ipotesi specificamente delineate nell’art. 173 L.F. (che richiama sostanzialmente atti di frode, il cui esame rientra nell’ambito dei controlli esercitati dal giudice ai sensi dei citati artt. 162 e 163 L.F.), il riferimento al venir meno delle “condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato” contenuto nell’art. 173 L.F., ultimo comma, sorreggono la conclusione sopra formulata.
Analogamente deve poi dirsi per quanto concerne il rapporto fra gli articoli sopra indicati e l’art. 180 in tema di giudizio di omologazione, e ciò per i seguenti concorrenti motivi: nel caso di mancanza di opposizioni, non è demandato al tribunale alcun accertamento o compito peculiare; la verifica in ordine alla regolarità della procedura, il cui obbligo è richiamato nel terzo comma dell’articolo citato, deve ragionevolmente essere realizzata con la verifica del fatto che anche nel prosieguo della procedura non siano venuti meno quei presupposti la cui mancanza iniziale non avrebbe consentito l’accesso alla procedura; la specifica determinazione dei poteri del giudice va effettuata in considerazione del ruolo a lui attribuito in funzione dell’effettivo perseguimento della causa del procedimento, ruolo che rimane identico nei diversi momenti ora considerati.
Tanto doverosamente premesso, occorre a questo punto considerare le singole questioni oggetto del presente procedimento di revoca. A tal fine conviene senz’altro muovere da quanto evidenziato dal Commissario nella prima relazione ex art. 172 l. fall. depositata in data 14/12/2012 e, segnatamente, alle pag. 55 e ss., laddove si pone ampiamente in evidenza l’esistenza di rapporti contrattuali genericamente indicati nel ricorso introduttivo senza indicazione del loro effettivo contenuto stipulati in epoca antecedentemente all’apertura della procedura di concordato e tali da impedire in radice la stessa fattibilità del piano concordatario.
Ci riferisce, in particolare, ai seguenti rapporti:
1) contratto di affitto di azienda stipulato in data 11/1/2012 dalla società debitrice con la ” BETA SRL” avente ad oggetto il ramo d’azienda costituito dall’impianto per il recupero e il riciclaggio degli inerti sito in Lioni (AV), alla località Oppido Balzata, per un corrispettivo di . 2.500,00 da pagarsi in due rati semestrali.
Giova qui ricordare che la ” BETA SRL ” è stata costituita in data 20/10/2011 con un capitale sociale di . 10.000,00, di cui . 9.800,00 sottoscritte dall’Avv. G. I., coniuge del Sig. I. P. A., già amministratore unico della “ALFA SRL uni personale” prima della sua messa in liquidazione, ed . 200,00 dall’Avv. A. I., legata all’Avv. I. da strettissimi rapporti di collaborazione professionale in quanto contitolare con la prima del medesimo studio legale in Lioni, nel contempo nominata quale amministratore unico della società.
La “BETA SRL”, successivamente alla stipula del contratto di affitto, ha in data 5/4/2012 (ovvero sempre prima del deposito della proposta di concordato) acquistato dalla “ALFA SRL personale in liquidazione” l’intero ramo d’azienda relativo all’esercizio dell’attività edile, ivi comprese le attestazioni S.O.A. cat. OG01, 03, 03, 08, 13, OS21, oltre attrezzature, macchinari e relativo avviamento commerciale. Il tutto per un corrispettivo di . 60.000,00, di cui . 20.000,00 al momento della sottoscrizione ed il residuo in maniera “discrezionale” da parte della compratrice nei successivi trentasei mesi.
Quanto alla disciplina del contratto di affitto, giova soffermarsi su due clausole di particolare rilevanza, gli artt. 9 e 10. La prima disposizione è così formulata: “è consentito alla BETA di procedere, senza il consenso del concedente, a trasformazioni, modifiche e migliorie degli impianti finalizzati ad una migliore efficienza produttiva, in ogni caso senza modificarne la destinazione d’uso. Al termine dell’affitto, la società affittuaria ha il diritto di pretendere dalla società concedente il rimborso dei costi sostenuti, previa esibizione di documentazione probante”. Il successivo art. 10 così dispone: “nel caso di alienazione dell’impianto di calcestruzzo ove insiste la predetta attrezzatura e/o manufatto, oggetto del presente contratto, è concessa alla società affittuaria la facoltà di esercitare il diritto di prelazione e quindi optare per l’acquisto, con scomputo del prezzo a pagarsi delle somme sostenute per tutte le migliorie apportate”.
2) Il secondo di tali rapporti concerne il contratto di nolo di una pala gommata, marca Komatsu, telaio KOMAWA380-H60484, stipulato in data 2/5/2012 (in epoca sempre antecedente al deposito del ricorso di concordato preventivo) con la ” GAMMA s.r.l.”, per il corrispettivo di . 7.000,00 annui oltre I.V.A. Quanto alla società noleggiatrice (costituita il 10/12/2004), dalla visura in atti risulta come amministratore unico il Sig. I. P. A., titolare di quote nominali per un valore di . 264.040,00, unitamente alla moglie Avv. G. I., la cui quota di partecipazione ammonta ad . 396.060,00.
Circa la disciplina del contratto di nolo, particolarmente rilevante è la disciplina contenuta nell’art. 5, in tema di “Durata del contratto”, laddove si stabilisce che “la presente locazione resta convenuta per il periodo di anni sei dalla data di sottoscrizione e, salvo disdetta da comunicarsi dall’una all’altra parte prima della scadenza a mezzo raccomandata a.r., si intenderà tacitamente rinnovato di un anno. Il contratto si risolverà sempre previa disdetta da comunicarsi dall’una all’altra parte a mezzo raccomandata a.r., altresì nel caso un cui il bene noleggiato venga alienato dalla Soc. ALFA nell’ambito di procedure finalizzate alla soddisfazione di crediti della stessa, siano esse giudiziali o stragiudiziali. In tal caso alla Soc. GAMMA S.r.l. competerà il diritto di prelazione in ordine all’acquisto del bene.
Analoga disposizione è dato leggere in altri tre contratti, afferenti la locazione di pala gommata e di tre escavatori, sempre marca Komatsu, stipulato con la GAMMA s.r.l. parimenti in data 2/5/2012.
E’ ben vero che tali diritti, di prelazione e di pagamento di indennità per migliorie, hanno costituito oggetto di formale rinuncia da parte delle società affittuarie con atti del 16/1/2013 (v. all. L alla relazione ex art. 172 L.F.), ma, a ben vedere, se valida è la rinuncia all’indennità per migliorie (v. Cass. Civ., Sez. III, 18/7/2002, n. 10425, laddove si è precisato che non costituisce clausola vessatoria a norma dell’art. 1341 la clausola del contratto di locazione che esclude la corresponsione di un’indennità per i miglioramenti, atteso che la clausola in questione non è da ricomprendere tra quelle che prevedono una limitazione di responsabilità a favore di chi la ha predisposta, poiché non limita le conseguenze della colpa o dell’inadempimento, né tra quelle che stabiliscono limitazioni alla facoltà di proporre eccezioni o di agire in giudizio per ottenere l’adempimento dell’altra parte, ma agisce sul diritto sostanziale escludendo l’indennità per i miglioramenti, previsti dall’art. 1592 c.c. con norma derogabile), invalida viceversa è la rinuncia al diritto di prelazione in caso di alienazione dei beni locati, posto che la stessa, com’è noto, non può avvenire in astratto, ma soltanto dopo che il fatto costitutivo della prelazione si sia realizzato, cioè dopo che la “denuntiatio” sia avvenuta nel rispetto delle forme previste: Cass. 24 settembre 1996, n. 8444).
Ai fini in esame non rileva, infatti, la mera circostanza che il rapporto sia in corso di svolgimento, ma occorre accertare, caso per caso, che il diritto oggetto della rinuncia sia già sorto. Non è cioè sufficiente la previsione in astratto del diritto alla prelazione in quanto potenzialmente inerente al tipo legale del rapporto in atto, ma occorre che il diritto sia concretamente sorto e possa essere fatto valere.
In particolare, i diritti alla prelazione, introdotti dalle parti nei contratti in esame, si concretizzano, divenendo attuali, solo nel momento in cui si verificano i presupposti dalla disciplina contrattuale, vale a dire l’alienazione dei beni locati “nell’ambito di procedure finalizzate alla liquidazione dei crediti” della società ALFA, “giudiziali o stragiudiziali”, tra cui appunto quella di concordato preventivo, e debbono essere esercitati nelle forme e nei termini ivi prescritti. Emerge invero dalla richiamata disciplina contrattuale che il diritto di prelazione è riconosciuto al conduttore mediante la previsione dell’obbligo, per il locatore che intenda alienare l’immobile a titolo oneroso (ovvero, per il liquidatore nominato dal Tribunale a seguito dell’omologa del concordato), di darne comunicazione al conduttore, indicando il corrispettivo, da quantificare in ogni caso in denaro, e le altre condizioni alle quali la compravendita dovrebbe essere conclusa, come avviene in tutti i casi di prelazione, legale o volontaria.
E la giurisprudenza della Suprema Corte ha avuto modo di precisare che tale comunicazione, quale atto unilaterale di adempimento di un obbligo contrattuale, è destinata a rendere attuale il diritto soggettivo del conduttore (sent. n. 5359/1989).
Il diritto di prelazione diviene quindi attuale nel momento in cui perviene al conduttore la “denuntiatio” (v. in tal senso, Cass., sent. n. 2721/87), mentre non ha modo di attualizzarsi se la “denuntiatio” è omessa, operando peraltro, in tal caso, il succedaneo diritto di risarcimento danni a favore del locatore pretermesso (trattandosi di prelazione volontaria, non opera il diritto di riscatto per le sole ipotesi di prelazione legale, ma è comunque riconosciuto al locatore sfavorito il diritto al risarcimento del danno derivante dalla violazione del patto di prelazione: v. Cass. Civ., Sez. III, 15/10/2002, n. 14645).
Ne consegue che è affetta da nullità una rinuncia preventiva a ricevere la “denuntiatio”, ai fini dell’esercizio del diritto di prelazione, con riferimento ad un’ipotesi di vendita non attuale e della quale non siano determinate le condizioni economiche, atteso che la rinuncia in questione produce un effetto sfavorevole per il conduttore, che si priva del diritto di prelazione, ed un vantaggio per il locatore, che viene esonerato dall’osservanza di un obbligo contrattuale.
Tali principi, inizialmente espressi dalla S.C. con riferimento alle ipotesi, più frequenti nella prassi, di prelazione legale (si pensi anzitutto a quella prevista a favore del coltivatore diretto in caso di alienazione di fondi rustici dall’art. 8 della L. 26.5.1965 n.590), sono stati successivamente estesi dalla Cassazione anche alle fattispecie, oggetto della vicenda in esame, di prelazione volontaria. Si è, infatti, stabilito, con riferito alla c.d. clausola di prelazione societaria (tra le principali figure di prelazione volontaria) che, qualora lo statuto di società per azioni accordi a ciascun socio la prelazione, in caso di vendita delle azioni di altro socio, facendo carico al secondo di comunicare la proposta ed attribuendo al primo la facoltà di accettarla entro un determinato termine, il diritto di questi, vertendosi in tema di posizioni disponibili, è suscettibile di rinuncia solo dopo detta comunicazione (“denuntiatio”), con ciò accogliendo l’orientamento che configura la nascita del diritto di prelazione solo a seguito dell’adempimento della suddetta comunicazione (Sez. I, 15/11/1993, n. 11278; per la giurisprudenza di merito vedasi Tribunale di Roma, 8 luglio 2005).
Non ignora il Collegio l’esistenza di un diverso orientamento, espresso dalla Suprema Corte sia pure con riferimento alla diversa fattispecie del retratto successorio ex art. 732 c.c. (inteso come diritto di essere preferito in occasione dell’alienazione di quota ereditaria), in cui si è affermato che, poiché il diritto di prelazione di cui all’art. 732 c.c. esiste già potenzialmente, segnando la comunicazione della proposta di acquisto soltanto il momento in cui esso diviene attuale – può, per tale ragione e non avendo la citata norma carattere inderogabile, validamente rinunciare al diritto stesso, con riferimento ad una progettata alienazione della quota di altro coerede, anche prima della sua “denuntiatio”, sempre che il rinunciante sia comunque a conoscenza delle relative condizioni, essendo, in mancanza di tale evenienza, nulla la rinunzia all’esercizio della prelazione per indeterminatezza dell’oggetto (Cass. Civ., Sez. 2, 22/1/1994, n. 624).
E, infatti, prima della “denuntiatio” l’oggetto del negozio abdicativo va individuato non nel diritto di prelazione in quanto tale (dal momento che l’obbligo di preferire permane anche con riferimento ad eventuali vendite successive, ove quella in ordine alla quale viene esercitata la rinuncia non dovesse essere conclusa), ma nel diritto alla notifica della “denuntiatio”. Viceversa, successivamente alla notifica della “denuntiatio” la dichiarazione del titolare di non volere esercitare la prelazione va, secondo tale pronuncia, qualificata come rifiuto, e non rinunzia, avendo essa ad oggetto non la dismissione di un diritto cui corrisponde un obbligo di un altro soggetto, ma il potere di perfezionare una situazione giuridica complesso (nel senso che, se è stata eseguita la notifica della proposta, il destinatario può accettarla o rifiutarla, in modo espresso, oppure lasciare decorrere il termine prescritto a pena di decadenza, mentre la rinunzia ha per presupposto che non sia stata fatta la notificazione della proposta, deve, cioè, per essere valida, riguardare non un affare generico, ma un progetto concreto e determinato, di alienazione del bene).
Tuttavia, anche aderendo a siffatta impostazione, identica sarebbe la conclusione del discorso, risultando ugualmente invalida la rinuncia preventiva al diritto di prelazione operata nella specie dalle società affittuarie, in quanto nulla per indeterminatezza del suo oggetto: e, infatti, se la prelazione è il diritto di essere preferito al terzo a parità di condizioni, non vi può essere rinunzia all’esercizio di tale diritto se non si conoscono le condizioni pattuite tra il soggetto passivo ed il terzo eventuale acquirente.
Ciò chiarito, va osservato che, secondo la giurisprudenza, integra la fattispecie della dissimulazione dell’attivo e giustifica, pertanto, l’arresto della procedura di concordato preventivo ai sensi dell’art. 173 L. F., il fatto che la proposta, come nella specie, contenga la previsione di un diritto di opzione a favore dell’affittuaria di beni concordatari, offerti in cessione pro soluto ai creditori, tale da ostacolarne il trasferimento nella successiva fase di liquidazione (Tribunale Milano, 28 aprile 2008, in “www.ilcaso.it”).
E, infatti, precisato che la relativa pattuizione contrattuale è opponibile alla procedura, derivando da contratto stipulato dalla proponente prima dell’ammissione al concordato (cfr. a titolo esemplificativo Cass. 18.5.2005, n. 10429), è facile immaginare quali effetti distorsivi possa avere tale clausola nell’ambito di una successiva vendita, una volta che è stato attribuito all’opzionario il diritto di costituire il rapporto contrattuale finale mediante una propria dichiarazione di volontà vincolante nei confronti del concedente (la cui proposta è da intendersi irrevocabile per quanto attiene all’inefficacia di un’eventuale revoca ed all’efficacia vincolante della stessa in caso di morte o sopravvenuta incapacità del dichiarante), così da scoraggiare l’eventuale acquisto da parte di terzi ad un prezzo superiore a quello offerto dall’opzionario, a totale discapito dei creditori, i quali ricaverebbero dalla liquidazione una somma inferiore a quella astrattamente derivante dall’esecuzione di procedure competitive di vendita dei beni concordatari.
Analogamente va detto con riferimento alla stipula, sempre con la BETA s.r.l. (la cui compagine sociale, come si è visto, è composta di “fiduciari” della società proponente) del contratto di cessione del ramo d’azienda attinente le lavorazioni edili e stradali, in virtù di atto per Notar L. R. del 4/4/2012 (precisamente dodici giorni prima delll’approvazione della delibera assembleare di scioglimento e messa in liquidazione della società, avvenuta il 16/4/2012, seguita il 23/4/2012 dalla deliberazione di proporre concordo di concordato preventivo), per un corrispettivo di . 60.000, di cui . 20.000,00, versati al momento della consegna mediante assegno bancario, non trasferibile, tratto sulla filiale di Montemarano (AV) del BANCO, e la restante parte da corrispondersi, senza interessi, entro e non oltre trentasei mesi dalla sottoscrizione, in una o più soluzione (art. 9). Al versamento della seconda rata del prezzo il legale rappresentante della società acquirente ha provveduto, all’udienza del 23/4/2013, mediante assegno circolare tratto sul predetto istituto di credito.
Della stipula di tale contratto alcuna menzione è stata fatta dalla società debitrice nel ricorso di ammissione alla procedura di concordato, ed è stata dunque stata portata a conoscenza del Tribunale solo con la prima relazione ex art. 172 L.F. depositata il 14/12/2012.
Ciò posto, e volendo sussumere la complessiva fattispecie concreta in quella astratta delineata dal legislatore, tale contratto appare senz’altro integrante una condotta di sottrazione di una parte rilevante dell’attivo (art. 173, co. 1, L. F.), tale da giustificare, a mente della medesima disposizione, la revoca dell’ammissione al concordato.
In proposito si segnala che la sottrazione o dissimulazione dell’attivo può consistere nel materiale occultamento, possibile per il denaro o per i beni non risultanti da pubblici registri, nella mancata denuncia di crediti, nell’adozione di artifici contabili, nel compimento di atti simulati od apparenti di alienazione. In particolare, la dissimulazione di attivo implica il compimento di atti giuridici, come verificatosi nel caso di specie, finalizzati a creare l’apparente estraneità di beni o diritti rispetto al patrimonio del debitore. Non si dimentichi che quello chiesto dalla ALFA S.r.l. è un concordato con cessione dei beni e non misto o con prosecuzione dell’attività, nel quale quindi è stata proposta al ceto creditorio la dismissione di tutto ciò che appartiene alla società, senza ovviamente comunicare che prima della domanda vi era stato un piano preordinato alla sottrazione dei beni di valore dal patrimonio societario; la società proponente ha omesso nel ricorso di spiegare ai creditori che prima aveva depauperato (rectius, messo al sicuro, attraverso la cessione a società riconducibile direttamente al suo precedente amministratore) una parte significativa del proprio patrimonio e poi si era rivolta a loro per ottenerne il voto, confidando nel fatto che non vi è alcuna convenienza a soddisfarsi con moneta fallimentare e nei tempi propri della procedura fallimentare, rispetto ad un’analoga liquidazione in sede di concordato.
La dissimulazione o sottrazione dell’attivo, dunque, è ravvisabile in qualunque attività preordinata ad occultare (o anche distruggere), beni mobili o immobili, ovvero a sottrarre ai creditori beni destinati alla massa fallimentare al fine di convincerli ad accettare una percentuale inferiore, sul presupposto che detti beni non fanno più parte dell’attivo concordatario.
Detto comportamento, necessariamente doloso, è considerato dal legislatore indicativo dell’intenzione del debitore di ingannare il ceto creditorio quanto al requisito della convenienza della proposta.
In quanto tale, vizia l’adesione alla stessa, finendo per caducare, retroattivamente, gli effetti dell’omologazione. Com’è indubbio che, se fatti distrattivi o di dissimulazione dell’attivo commessi anche in epoca antecedente all’apertura del concordato siano scoperti anche dopo il voto favorevole dei creditori, ciò integra motivo di rifiuto dell’omologa ex art. 173 L.F. (v. per tutte, Cass. n. 2250/1985; come esemplificato in dottrina, ragionando diversamente e, quindi, attribuendo rilievo ai soli atti distrattivi successivi alla domanda “basterebbe sottrarre la cassa il giorno prima del deposito del ricorso per sfuggire all’applicazione della norma”), parimenti gli identici fatti scoperti dopo l’omologa integrano i presupposti dell’annullamento del concordato.
Osserva al riguardo il Collegio che la procedura di concordato, sebbene oggi fortemente “privatizzata”, è rimasta una procedura improntata a principi di natura pubblicistica in quanto né il debitore può permettersi di fare quello che ritiene senza alcun controllo, né il Tribunale (e, comunque, gli organi pubblici che partecipano alla procedura e cioè il commissario giudiziale ed il pubblico ministero) sono ridotti a meri spettatori e ratificatori di accordi presi tra il debitore e i creditori.
Non è certo svuotato completamente il ruolo “filattico” del Tribunale, chiamato a proteggere una minoranza schiacciata dalla maggioranza ponderale dei crediti e, più in generale, a salvaguardare l’efficienza del sistema economico nel suo insieme, che vuole espunte le imprese e gli imprenditori inefficienti e incapaci di far fronte alle proprie obbligazioni, se non addirittura rei di illeciti perpetrati in danno di creditori e soci. E’ pacifico che alla privatizzazione dell’istituto, coerente alla privatizzazione dell’intero sistema delle procedure concorsuale, si accompagni un sistema di controlli di natura pubblicistica demandato all’autorità giurisdizionale, la quale può operare in alcune ipotesi ex officio, ed in altre su impulso del commissario giudiziale, ma sempre nell’interesse complessivo dell’intero ceto creditorio.
Né, per giustificare la liceità di tale operazione, rileva la circostanza che nella fattispecie il corrispettivo della cessione (. 60.000,00) è stato determinato con perizia di stima a firma del Dott. G. M., nominato dal Tribunale di Ariano Irpino su richiesta della società proponente, sicché, una volta ritenuto “congruo” il prezzo della cessione, si esaurisce il potere-dovere del Tribunale di valutazione circa la sua rispondenza alla causa concreto del concordato, giacché, come evidenziato dalle Sezioni Unite n. 1521/2013, la proposta concordataria sarà ritenuta meritevole di tutela dal Tribunale solo se in grado di consentire, da un lato, all’imprenditore di superare la propria crisi e, dall’altro lato, ai creditori di ottenere un soddisfacimento parziale dei loro crediti in tempi ragionevoli.
E, invero, quindi non è in discussione tanto la congruità del prezzo, quanto piuttosto l’assoluta incongruenza di tale operazione di cessione con la finalità della procedura di concordato, giacché la stessa, come si è visto, ha comportato la sottrazione all’attivo concordatario del principale “asset” produttivo dell’impresa insolvente che, anziché essere ceduto a persone di “fiducia” del precedente amministratore della società proponente, all’insaputa dei creditori e in prossimità della presentazione della domanda di concordato, poteva essere attribuito, nell’ambito del piano concordatario, a società da costituire nel corso della procedura, ma sempre previo conferimento delle relative quote ai creditori come forma di soddisfazione in natura, secondo quanto stabilito dall’art. 160 L.F. E, infatti, detta disposizione, nel disciplinare, sia pure in maniera non tassativa, l’oggetto del piano di concordato, prevede, alla lettera b), la possibilità di attribuire le attività della società proponente ad un assuntore, tra cui “i creditori ovvero società da questi partecipate o da costituire nel corso della procedura, le azioni delle quali siano destinate ad essere attribuite ai creditori per effetto del concordato”.
Ove la società proponente avesse seguito tale diverso “modus operandi”, all’insegna della trasparenza e del rispetto delle regole, il Tribunale ben avrebbe potuto, come previsto dalla citata norma, subordinare il conferimento del ramo d’azienda alla “newco” (diminutivo di “new company”) BETA s.r.l. al trasferimento delle quote sociali ai creditori come forma di soddisfazione in natura del loro credito, unitamente al pagamento del corrispettivo (che poteva essere anche superiore a quello alla fine corrisposto peraltro con modalità del tutto inappropriate attraverso l’esperimento di apposite procedure competitive), oppure prevedere la stipula con la nuova società di un contratto di affitto di azienda laddove ritenuto più remunerativo della semplice cessione della stessa -, tale da garantire la prosecuzione di una parte dell’attività di impresa di modo tale che i costi e i ricavi attesi dalla continuazione dell’attività d’impresa, in quanto funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori, andassero a diretto vantaggio della procedura concordataria (e, dunque, dei creditori), piuttosto che di società di fatto riconducibile al precedente amministratore della società proponente.
Così operando, la società resistente avrebbe potuto senz’altro realizzare l’obiettivo di superare la crisi di impresa attraverso l’effettivo soddisfacimento dei creditori in luogo della surrettizia conservazione da parte del precedente amministratore della titolarità dei beni aziendali, per l’appunto tramite la loro cessione a persone di sua “fiducia”.
Tanto chiarito, va osservato che in tema di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, secondo il procedimento disciplinato dall’art. 173 legge fall., dopo la riforma di cui al d.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, la nozione di atto in frode, che opera – ai sensi del primo comma della disposizione fallimentare cit. – quale presupposto per detta revoca, esige – alla luce del criterio ermeneutico letterale, ex art. 12 disp. prel. c.c. – che la condotta del debitore sia stata volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori; pertanto, nel concetto di “frode” non rientra qualunque comportamento volontario idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio e, quindi, risulta estraneo a tale qualificazione il comportamento del debitore che, già nel ricorso, abbia indicato gli atti di disposizione del patrimonio, stipulati anteriormente, implicanti la concessione di diritti di godimento a terzi e che, successivamente esaminati dal commissario giudiziale, siano ritenuti suscettibili di depauperare il detto patrimonio, così da scoraggiare l’acquisto degli immobili oggetto della cessione ai creditori, pregiudicando la fattibilità della proposta concordataria (Cass. Civ., sez. I, 23 giugno 2011, n. 13817).
Occorre a questo punto soffermarsi sulla vicenda, parimenti evidenziati nel decreto con cui veniva aperta la presente procedura di revoca, concernente il contratto di “leasing” stipulato dalla ALFA s.r.l. con la Mercedes – Benz Financial Services Italia s.p.a. ed avente ad oggetto un autocarro targato omissis, contratto del quale non è stata fatta menzione alcuna nella proposta di concordato e nella documentazione ad essa allegata.
In data 24/1/2013 la società concedente comunicava formalmente al Commissario che la ALFA s.r.l., a seguito della risoluzione del contratto in oggetto per mancato pagamento dei canoni di godimento, intervenuta il 10.8.2012, ovvero dopo l’ammissione della ALFA al concordato (v. all. n. 4 alla memoria depositata dalla debitrice in data 15/4/2013), maturava nei confronti della Mercedes Benz FSI un debito per complessivi . 98.500,00 (v. all. D alla relazione commissariale del 22/1/2013), e che successivamente la ALFA autorizzava la concedente a vendere l’automezzo alla società BETA s.r.l. per il prezzo di . 70.000,00 (ben superiore al valore commerciale del bene pari a circa . 55.000,00), con la conseguenza che il ricavato della vendita veniva portato dalla Mercedes Benz FSI a deconto della posizione debitoria della ALFA, ammontante pertanto ad . 28.500,00.
Riferisce inoltre il Commissario giudiziale, nella seconda relazione ex art. 172 L.F. depositata il 22/1/2013 (cfr. pag. 12), che la BETA riscatterà il bene con un pagamento rateale, ancora in corso, e che il perfezionamento dell’acquisto avverrà all’atto del pagamento dell’ultima rata.
Tanto premesso, è evidente che, attraverso la complessa operazione appena descritta, si è perfezionata la cessione del contratto di leasing precedentemente stipulato dalla ALFA s.r.l. con la Mercedes Benz FSI in favore della BETA s.r.l., che è certamente un atto di straordinaria amministrazione, soggetto, pertanto, ad autorizzazione da parte del Giudice delegato ex art. 167 co. 2, L.F., per i rilevanti profili, anche di rango penalistico, che a tale operazione di regola si connettono.
In particolare, con la cessione del contratto di leasing, l’utilizzatore trasferisce ad un altro soggetto i diritti correlati al contratto stesso, ossia, da un lato, il diritto ad esercitare l’opzione per il riscatto alla scadenza del contratto e, dall’altro, il diritto ad utilizzare il bene per la residua durata del contratto. Il cessionario assume, inoltre, l’obbligo di pagare al cedente (utilizzatore) il prezzo pattuito e di corrispondere al locatore i canoni residui del contratto nonché (in questo caso) il prezzo di riscatto.
E, infatti, che si tratti di contratto a titolo oneroso (per il quale, dunque, è previsto il pagamento di un corrispettivo in favore della società cedente), emerge dalla “doppia causa” dell’acquisizione del contratto di locazione finanziaria, il quale in parte è finalizzato all’acquisizione del diritto di godimento del bene nel residuo periodo di vigenza del contratto medesimo (profilo rilevante nei rapporti cedente – cessionario, privandosi l’utilizzatore della possibilità di utilizzazione residua del bene) e in parte all’acquisizione dell’opzione di acquisto della proprietà del bene (profilo, questo, invece, rilevante nei rapporti con la società concedente il bene).
Ciò risulta anche da una importante disposizione normativa, vale a dire l’art. 88, comma 5, del d.P.R. 29.9.1986, n. 917 (Testo Unico delle Imposte sui Redditi), il quale prevede che “In caso di cessione del contratto di locazione finanziaria il valore normale del bene costituisce sopravvenienza attiva” per il cedente e, come tale, soggetta a tassazione; detto valore normale del bene che si ottiene, in particolare, deducendo dal suo valore commerciale la somma dei canoni di residui da pagare più il prezzo di riscatto attualizzato alla data della cessione (v., in proposito, la Circolare del Ministero delle Finanze n. 108/E del 3 maggio 1996, nonché la Risoluzione dell’Agenzia delle Entrate n. 212/E del 8 agosto 2007).
E, infatti, la necessità del corrispettivo deriva dal fatto che la cessione del contratto di leasing genera una sopravvenienza attiva che, sotto l’aspetto fiscale, si determina appunto effettuando la differenza tra il valore normale del bene ed i canoni relativi alla residua durata del contratto e del prezzo di riscatto, attualizzati alla data della cessione medesima.
Affermata, dunque, la necessaria natura onerosa della cessione del contratto di leasing, utilizzando la tradizionale dicotomia tra leasing di godimento e leasing traslativo, è agevole quindi comprendere che, se si tratta di leasing traslativo, occorre valutare quale parte del prezzo di vendita (ossia al netto degli oneri finanziari connessi all’anticipazione del prezzo da parte della società di leasing) risulta già pagata dalla utilizzatrice e verificare se, a fronte della cessione del contratto, la società in concordato è stata adeguatamente indennizzata, laddove è evidente che se si tratta di un c.d. leasing di godimento la cessione del contratto senza corrispettivo può essere lo strumento per liberare la società dei debiti relativi ai canoni scaduti (nella specie sostanzialmente trasferiti in capo ad un soggetto terzo).
Si tenga, altresì presente, per cogliere la delicatezza della fattispecie, che nell’ambito della fenomenologia delle bancarotte per distrazione un’ipotesi abbastanza frequente é proprio quella del riscatto o comunque della cessione del rapporto di locazione finanziaria senza pagamento di adeguato indennizzo alla cedente (si veda, tra le tante, Cass. Pen., Sez. V, ord. n. 9427 del 3/11/2011 – 12/3/2012, P.M. in proc. Cannarozzo e altro; Sez. V, sent. n. 3612 del 6/11/2006 – 31/1/2007, Tralicci; Sez. V, sent. n. 30492 del 23/4/2003 – 21/7/2003, Lazzarini e altro).
Ciò detto, nella fattispecie in esame, la società cessionaria si è impegnata a riscattare, al prezzo di . 70.000,00, il bene locato alla società concedente (che, a seguito dell’impegno della cessionaria, ha portato il prezzo di opzione a deconto della pregressa esposizione debitoria della ALFA), senza tuttavia nulla corrispondere alla procedura concordataria (rectius, alla massa attiva concorsuale), che pure doveva ricevere dalla cessionaria il prezzo della cessione, sicché irrilevante è che, attraverso tale operazione sia stato significativamente ridotto il debito della società concordataria nei confronti della concedente (passato da . 98.500,00 ad . 28.500,00) giacché, in ogni caso, la società cessionaria doveva versare alla procedura un corrispettivo per il subentro nel contratto di leasing, nella specie mai corrisposto, così che l’operazione in questione si lascia apprezzare in termini di assoluta gratuità per la società debitrice.
Quanto, infine, alla necessità della previa autorizzazione del G.D. per il compimento di tale atto, giova ricordare che, in tema di concordato preventivo, la valutazione in ordine al carattere di ordinaria o straordinaria amministrazione dell’atto posto in essere dal debitore senza autorizzazione del giudice delegato, ai fini della eventuale dichiarazione di inefficacia dell’atto stesso ai sensi dell’art. 167 legge fall., deve essere compiuta dal giudice di merito tenendo conto che il carattere di atto di straordinaria amministrazione dipende dalla sua idoneità ad incidere negativamente sul patrimonio del debitore, pregiudicandone la consistenza o compromettendone la capacità a soddisfare le ragioni dei creditori, in quanto ne determina la riduzione, ovvero lo grava di vincoli e di pesi cui non corrisponde l’acquisizione di utilità reali prevalenti su questi ultimi (così Cass. Civ., Sez. I, 20/10/2005, n. 20291).
Posto che nella specie l’atto è stato compiuto a titolo puramente gratuito, in assenza di corrispettivo e senza dunque alcuna utilità per la società proponente (che ha di fatto rinunciato la pagamento del prezzo di cessione), esso era, dunque, idoneo a produrre effetti pregiudizievoli per il patrimonio del debitore (quantificabili nell’omesso pagamento del prezzo della cessione), sicché occorreva la preventiva autorizzazione da parte del Giudice Delegato, che nella specie non è stata mai richiesta.
Conseguenza di tale violazione non può che essere quella della revoca della procedura, poiché l’art. 173, 3° comma, prima parte, L.F., ultimo comma, l. fall., prevede appunto tra i motivi di revoca dell’ammissione al concordato al compimento da parte del debitore durante la procedura a norma dell’art. 167 L.F.
A tali considerazioni, concernenti tanto la fattibilità giuridica della presente proposta di concordato (previsione di clausole di prelazione e opzione in favore delle società affittuarie dei beni aziendali), quanto il compimento di atti sottrazione dell’attivo o non autorizzato dal G.D. (cessione di ramo d’azienda in favore di BETA s.r.l. e pagamento del debito della Mercedes Benz FSI), si aggiunge, come ulteriore motivo di revoca dell’ammissione al concordato e rilevante questa volta sotto il profilo del sopravvenuto venir meno delle condizioni prescritte per l’ammissione del concordato: art. 173, 3° co., ultima parte, l. fall. – la questione della inidoneità della diversa percentuale di soddisfacimento offerta in pagamento (sia pure non in termini vincolanti) ai creditori chirografari, nella misura appunto del 2,14% dell’intero loro credito vantato, a realizzare la sopra richiamata causa della procedura di concordato.
Sotto tale profilo, due sono le questioni che il Collegio è chiamato ad esaminare in via preliminare: innanzitutto, l’ammissibilità e gli effetti sulla procedura della modifica peggiorativa della proposta di concordato; in secondo luogo, la regolarità nel caso in esame della procedura di voto, presupposto essenziale per una eventuale omologa del concordato preventivo, avendo la società proponente espressamente richiesto, sul presupposto dell’avvenuta approvazione della proposta di concordato da parte dei creditori, l’omologazione dello stesso.
Cominciando dall’ammissibilità della modifica della proposta di concordato osserva il Tribunale come al quesito debba darsi risposta favorevole, in armonia con l’indirizzo giurisprudenziale che, con riferimento alla disciplina previgente (anteriore alle modifiche apportate alla disciplina del concordato dalla l. n. 80 del 2005), considerava ammissibile una modifica della proposta, almeno fino a quando non ne fosse intervenuta l’approvazione da parte dei creditori (cfr. Trib. Catania, 17 marzo 1983, in “Dir. fall.”, 1983, II, 573).
Si deve, infatti, costatare che la disposizione contenuta nell’art. 175, primo comma, rimasta immune dalle varie modifiche intervenute dal 2005 in poi sulla disciplina del concordato preventivo, prevede che “nell’adunanza dei creditori il commissario illustra la sua relazione e le proposte definitive del debitore”, sicché ne discende che la proposta contenuta nell’originaria domanda di ammissione alla procedura di concordato non possa considerarsi definitivamente cristallizzata e, in quanto tale, modificabile, e che in coerenza, per questo profilo, con i principi generali in tema di formazione della volontà negoziale (artt. 1326 e ss. c.c.) la proposta deve ritenersi modificabile sino a quando non intervenga l’accettazione da parte dei soggetti cui la stessa è rivolta. Conferma della correttezza della tesi qui accolta va ravvisata nel fatto che la disciplina del concordato preventivo non pone un espresso divieto al riguardo, e neppure alcuna preclusione si può ricavare dalle finalità proprie di tali procedure valutate anche alla luce della sua positiva regolamentazione, tra l’altro individuabili nell’esigenza di assicurare una spedita alternativa alla soluzione fallimentare nell’interesse del ceto creditorio.
Osserva inoltre il Collegio che la modifica della proposta, anche quanto contiene una variazione della percentuale offerta in pagamento ai creditori, non comporta l’apertura di una nuova procedura di concordato, tenuto conto dell’unitarietà della stessa, sia sotto il profilo oggettivo (rappresentato dallo stato di crisi dell’imprenditore), sia sotto quello soggettivo (individuato nell’identità del debitore proponente). Pertanto, una volta aperta la procedura, anche a seguito di una variazione peggiorativa del contenuto della proposta, non si esce dall’alveo della medesima procedura, che prosegue in virtù dell’originario decreto di ammissione, purché non vengano a mancare i presupposti oggettivi o soggettivi, né le condizioni di ammissibilità del concordato (art. 173, terzo comma l. fall.).
Tuttavia, la modifica in pejus della proposta richiede quale fatto nuovo emerso nel corso della procedura un ulteriore esame da parte del Tribunale sotto il profilo della permanente rispondenza della nuova offerta alle condizioni di ammissibilità previste dalla legge e, dunque, alla struttura giuridica dell’istituto del concordato, sicché solo in caso di soluzione positiva essa può essere sottoposta alla votazione dei creditori in adunanza. In caso di esito positivo di tale indagine cioè una volta ritenuta l’ammissibilità della nuova proposta, ancorché peggiorativa – il Tribunale emette un nuovo decreto non sostitutivo, ma integrativo di quello precedente che precedentemente ha aperto la procedura di concordato, sicché restano fermi tutti gli effetti e le statuizioni contenute nel primo decreto, che non sono mutate dal nuovo provvedimento.
Una pronuncia del Tribunale a riguardo deve, infatti, considerarsi imprescindibile, ove si tenga conto che il venir meno delle condizioni di ammissibilità del concordato implica, per le procedure, quale quella in oggetto, aperte successivamente al 1° gennaio 2007, data di entrata del d.lgs. n. 167/2007, la revoca del concordato per il sopravvenuto venir meno delle condizioni prescritte dalla legge per la sua ammissibilità (prima dell’entrata in vigore del c.d. “decreto correttivo” la sanzione prevista per tale ipotesi era quella più grave della dichiarazione di fallimento d’ufficio della società proponente).
Il Collegio ritiene inoltre che in caso di modifica della proposta di concordato, tanto migliorativa, quanto peggiorativa, non sia necessaria una nuova relazione da parte del professionista attestatore ex art. 161, terzo comma, l. fall., posto che essa trova la sua ragion d’essere solo nella fase di ammissione al concordato, nella quale occorre sottoporre al Tribunale la valutazione di un esperto in ordine alla correttezza dei dati contabili prospettati dall’imprenditore, e sulla fattibilità del programma da esso proposto. Una volta aperta la procedura, per la valutazione della modifica al piano già presentato, appare invece indispensabile l’acquisizione del parere del commissario giudiziale sulla fattibilità del piano dei pagamenti, spettando a tale organo, istituzionalmente preposto alla vigilanza sulle operazioni della procedura, individuare le prospettive di realizzabilità dei pagamenti promessi e la mancanza delle condizioni che, ai sensi del terzo comma dell’art. 173 l. fall., dovrebbero condurre alla revoca dell’ammissione (in termini, Tribunale Milano, 25 ottobre 2005, in “www.dejure.giuffre.it”), salva in ogni caso la necessità di disporre una nuova convocazione dell’adunanza dei creditori, affinché questi possano votare in modo informato sulla nuova proposta (Tribunale Monza, 28 settembre 2005, in “www.dejure.giuffre.it”).
Tuttavia, nella fattispecie, non appare necessario acquisire un nuovo parere del Commissario giudiziale, poiché, come già precisato, la proposta peggiorativa avanzata dal debitore recepisce nella sostanza le indicazioni espresse dal commissario in ordine alla effettiva percentuale di soddisfo del ceto chirografario in ragione del reale valore dei beni aziendali, laddove nelle due relazioni ex art. 172 l. fall. depositate durante la procedura l’organo commissario ha posto in evidenza una serie di circostanze che inducono il Tribunale, come tra poco si dirà, a revocare l’ammissione alla procedura di concordato.
Non ignora, tuttavia, il Collegio l’esistenza di un diverso orientamento della giurisprudenza di merito puntualmente richiamato dalla società debitrice nella memoria depositata il 15/4/2011 secondo cui in caso di modifica della proposta dopo l’ammissione al concordato, il proposta e il piano non devono essere nuovamente portati all’attenzione del Tribunale, né occorre una nuova relazione del professionista, in quanto ormai sono entrati in funzione il commissario giudiziale e l’autorità giudiziale i cui compiti ed i cui poteri rendono superflua la rinnovazione delle valutazioni (professionali e giudiziali) compiute antecedentemente all’apertura (Tribunale Pescara, 16 ottobre 2008, in “www.dejure.giuffre.it”; conf. Tribunale Mantova, 5 marzo 2009, in www.ilcaso.it; Tribunale Palermo, 18 maggio 2007, in “www.dejure.giuffre.it”
Secondo tale indirizzo, infatti, da un lato, il commissario giudiziale, ai sensi degli artt. 172 e 173 L.F., ha il compito di esaminare la proposta, verificare i dati sui quali la stessa è basata e offrire ai creditori ogni informazione utile per la valutazione di convenienza della stessa, nonché di riferire al tribunale i fatti suscettibili di condurre alla revoca dell’ammissione (ivi compresa l’insussistenza delle condizioni di ammissibilità del concordato), ciò che priva di rilevanza una nuova relazione dell’esperto ex art. art. 161 L.F. (a prescindere dal rilievo della sua funzione essenzialmente probatoria dei requisiti di veridicità dei dati aziendali e di fattibilità del piano e quindi anche ove le si conferisca una funzione di informazione dei creditori al fine delle valutazioni a questi ultime rimesse in punto di convenienza della proposta). Dall’altro lato, il Tribunale, ai sensi degli artt. 173 e 180 L.F., ha il potere di determinare l’arresto della procedura laddove, durante tutto il corso della stessa fino all’omologazione, accerti l’insussistenza dei requisiti di ammissibilità o irregolarità procedurali, sicché è su tali norme, piuttosto che sugli artt. 162 e 163, che va fondata l’eventuale valutazione giudiziale negativa della modificazione della proposta formulata dal debitore in corso di procedura.
Essenziale è soltanto garantire che la modificazione della proposta non si trasformi in un’elusione dei meccanismi informativi che il sistema appresta a tutela dei creditori, ciò che nella specie non è stato affatto garantito, poiché non si è proceduto, alla luce della proposta modificata, al rinnovo l’avviso di cui all’art. 171 L.F., laddove, come si dirà in seguito, le adesioni espresse dai creditori concernono l’originaria, e per loro ben più favorevole, proposta di concordato, senza tenere in alcun modo di quella successivamente modificata in pejus dall’imprenditore proponente.
Tale conclusione era stata però criticata sulla base del rilievo che essa, in caso di modifiche rilevanti e sostanziali al tipo di piano proposto ai creditori, avrebbe imposto al Commissario giudiziale di illustrare, illic et immediate, una proposta del tutto difforme da quella oggetto della già redatta relazione ex art. 172 L.F. E tale inconveniente ha spinto parte della successiva giurisprudenza di merito a ritenere che, in caso di modifiche appunto sostanziali e rilevanti del piano concordatario, il Tribunale dovesse aprire nuovamente la procedura, onerando il proponente di depositare una nuova attestazione di fattibilità e riconvocando i creditori per una nuova adunanza. In tale filone interpretativo si erano poste, ad esempio, quelle decisioni che avevano ritenuto totalmente innovativa e, dunque, da sottoporre a una nuova attestazione e revisione da parte del Commissario una proposta che contemplasse, ad esempio, un nuovo assuntore del concordato, una diversa percentuale di soddisfazione dei creditori e una nuova distinzione di questi ultimi in classi (in tal senso, Tribunale La Spezia, in “Il Fallimento”, 2011, 752).
Nella fattispecie in esame, diversamente da quanto sostenuto dalla resistente (v. pag. 23 della memoria autorizzata depositata il 15/4/2013), l’originaria proposta di concordato conteneva una specifica promessa di soddisfo dei creditori chirografari, individuata, come si è detto, nella percentuale determinata del 55,36 (e non 45,38% come erroneamente indicato in siffatta memoria).
E, infatti, nel ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato (v. pag. 20) si legge “la proposta consiste nella cessione pro soluto dell’intero patrimonio (della società ALFA), affinché lo stesso sia liquidato nell’interesse dei creditori e per la soddisfazione delle loro pretese, di talché sia consentito il pagamento integrale delle spese di procedura e dei crediti privilegiati, e sia consentita altresì secondo affidabile giudizio prognostico e nei limiti del valore di realizzo dei beni la soddisfazione dei crediti chirografari, in ragione di una
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