ISSN 2385-1376
Testo massima
I comportamenti del debitore anteriori alla presentazione della domanda di concordato possono essere valutati ai fini della revoca dell’ammissione al concordato in quanto abbiano una valenza decettiva ed quindi siano tali da pregiudicare un consenso informato dei creditori.
L’atto di frode, per avere rilievo ai fini della revoca dell’ammissione, deve essere “accertato” dal commissario giudiziale e quindi dallo stesso scoperto;
.il minimo comune denominatore dei comportamenti di frode espressamente presi in considerazione dalla norma (occultamento o dissimulazione di parte dell’attivo, dolosa omissione dell’esistenza di crediti, esposizione di passività inesistenti) è dato dalla loro attitudine ad ingannare i creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, sottacendo l’esistenza di parte dell’attivo o aumentando artatamente il passivo in modo da far apparire la proposta maggiormente conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare, con la conseguenza che tale attitudine deve ricorrere anche per gli “altri atti di frode” non espressamente presi in considerazione dalla norma.
Le scritture contabili, anche in considerazione della loro possibile complessità, non rappresentano lo strumento con il quale il debitore porta a conoscenza dei creditori tutti gli elementi rilevanti ai fini della espressione del loro consenso sulla proposta di concordato, ma rappresentano l’oggetto dell’attività di verifica ed accertamento che il commissario giudiziale deve svolgere sui dati risultanti dalla proposta e dai suoi allegati. Il silenzio della proposta di concordato su fatti e circostanze non può, pertanto, essere reso irrilevante dalla relativa annotazione sulle scritture contabili.
Questi i principi enunciati dalla Corte di Cassazione, Sezione prima, con la sentenza n. 23387 del 15.10.2013, resa nell’ambito di un procedimento di reclamo proposto avverso la sentenza dichiarativa di fallimento.
Principale ed anzi unica doglianza del ricorrente era la mancata considerazione, da parte della Corte d’Appello, della circostanza che il commissario giudiziale non aveva accertato alcun fatto che non risultasse già dalle scritture contabili e che, pertanto, non poteva ravvisarsi alcun intento fraudolento nel comportamento del debitore, sebbene gli atti pregiudizievoli compiuti da quest’ultimo fossero stati taciuti nella proposta di concordato e nei suoi allegati.
La Suprema Corte, in primis, richiama la sentenza 23 giugno 2011, n. 13817 ove era stato già chiarito che gli atti di frode, presupposto della revoca dell’ammissione al concordato preventivo dopo la riformulazione della L. Fall., art. 173, da parte del c.d. decreto correttivo non possono più essere individuati semplicemente negli atti in frode ai creditori di cui alla L. Fall., art. 64 e ss., (in questo senso, invece, la risalente Cass. 2 aprile 1985, n. 2250) ovvero comunque in comportamenti volontari idonei a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio, ma esigono che la condotta del debitore sia stata volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè situazioni che, da un lato, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e che, dall’altro, siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori.
In altri termini, intanto i comportamenti del debitore anteriori alla presentazione della domanda di concordato possono essere valutati ai fini della revoca dell’ammissione al concordato in quanto abbiano una valenza decettiva ed quindi siano tali da pregiudicare un consenso informato dei creditori.
La Corte chiarisce, rilevando l’infondatezza dell’unico motivo di ricorso, che il minimo comune denominatore dei comportamenti di frode espressamente presi in considerazione dalla norma (occultamento o dissimulazione di parte dell’attivo, dolosa omissione dell’esistenza di crediti, esposizione di passività inesistenti) è dato dalla loro attitudine ad ingannare i creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, sottacendo l’esistenza di parte dell’attivo o aumentando artatamente il passivo in modo da far apparire la proposta maggiormente conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare, con la conseguenza che tale attitudine deve ricorrere anche per gli “altri atti di frode” non espressamente presi in considerazione dall’art. 173 L. Fall.
Evidenzia, inoltre, che il tribunale non deve esprimere un giudizio di convenienza sulla proposta – che è riservato solo ai creditori, salvo che nel caso di opposizione all’omologazione previsto dalla L. Fall., art. 180, comma 4 ma deve garantire, oltre alla regolarità del procedimento, la messa a disposizione dei creditori di tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione.
A questo punto, la Corte affronta la questione se la condotta decettiva debba essere valutata solo con riferimento alla proposta di concordato ed ai suoi allegati, ovvero se la stessa debba essere valutata anche con riferimento alle scritture contabili nonché quella, accogliendo la prima soluzione, di quali siano gli atti risultanti dalle scritture contabili dei quali non può tacersi nella proposta di concordato o nei suoi allegati per escludere la sussistenza di atti di frode.
Orbene, viene chiarito come le scritture contabili non rappresentano lo strumento con il quale il debitore porta a conoscenza dei creditori tutti gli elementi rilevanti ai fini della espressione del loro consenso sulla proposta di concordato, ma rappresentano l’oggetto dell’attività di verifica ed accertamento che il commissario giudiziale deve svolgere sui dati risultanti dalla proposta e dai suoi allegati.
Da tanto, secondo la Corte, deriva che il silenzio della proposta su fatti e circostanze non può, pertanto, essere reso irrilevante dalla relativa annotazione sulle scritture contabili, con l’ulteriore conseguenza che il silenzio del debitore e l’accertamento del commissario giudiziale devono, per configurare il primo come atto di frode, riguardare non qualsiasi operazione, ma le operazioni suscettibili di assumere diverso rilievo, ai fini del soddisfacimento dei creditori, in caso di fallimento e in caso di concordato preventivo.
La Corte giunge, pertanto, a ritenere la ricorrenza di un tale carattere nel caso dei pagamenti preferenziali nei sei mesi anteriori alla presentazione della domanda di concordato e nel caso della cessione alla convivente di una quota della partecipazione, prima totalitaria, in una srl.
Il principio affermato dalla Corte rimuove i dubbi su una questione dibattuta e già conformemente risolta con la sentenza n. 13817/2013, richiamata nel testo della pronuncia in esame, laddove a contrario l’intento fraudolento del debitore era stato escluso proprio dal fatto che quest’ultimo aveva espressamente indicato gli atti pregiudizievoli ai creditori nella proposta di concordato.
Testo del provvedimento
Cass. civ. Sez. I, Sent., 15-10-2013, n. 23387
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 16553/2012 proposto da:
B.E., nella qualità di titolare dell’omonima impresa individuale;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO B.E., nella qualità di titolare dell’omonima impresa individuale;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 279/2012 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 23/05/2012;
Svolgimento del processo
Il Tribunale di Udine con decreto del 30 settembre 2011 revocava, ai sensi della L. Fall., art. 173, ed a seguito dell’accertamento di atti di frode, l’ammissione di B.E. alla procedura di concordato preventivo. Con sentenza dell’8 ottobre 2011, su richiesta del p.m., lo stesso Tribunale dichiarava il fallimento dell’imprenditore.
B.E. proponeva reclamo che la Corte di appello di Udine rigettava con sentenza del 23 maggio 2012, osservando, per quanto ancora interessa, che: 1) il commissario giudiziale nella relazione ex art. 173 l. fall., aveva accertato quattro categorie di fatti (“andamento anomalo del conto cassa e non attendibilità delle scritture contabili”; “prelievi del titolare”; “rapporti di credito con la società B. s.r.l.”; “pagamenti effettuati alla società T. s.r.l.”) non enunciati dal B. nè nella domanda di concordato, né negli allegati, né nella relazione del professionista prevista dalla L. Fall., art. 161, comma 3; 2) il silenzio del debitore su tali fatti integrava gli estremi della frode, in quanto i creditori non erano stati resi edotti sugli atti passibili di revocatoria in caso di fallimento ed in quanto, conseguentemente, si pregiudicava l’espressione da parte loro di un consapevole giudizio di convenienza sulla proposta di concordato; 3) inoltre, indipendentemente dalle eventuali prospettive di miglior soddisfacimento economico in caso di fallimento, il silenzio in questione aveva privato i creditori anche degli elementi di valutazione sulla meritevolezza dell’imprenditore dai quali essi legittimamente potevano far discendere la loro decisione.
B.E. propone ricorso per cassazione avverso detta sentenza, deducendo un motivo. Il fallimento resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Con l’unico motivo proposto il ricorrente deduce la violazione della L. Fall., art. 173, lamentando che erroneamente le Corte di appello aveva ritenuto che fossero configurabili atti di frode in una situazione nella quale il commissario giudiziale non aveva accertato alcun fatto che non risultasse già dalle scritture contabili; il che, considerata l’intima connessione tra domanda di concordato e scritture contabili conduceva ad escludere oggettivamente la sussistenza di atti di frode salvo a volerla paradossalmente affermare per il solo fatto che la domanda di concordato ed i suoi allegati non esaminino analiticamente tutti i dati riportati nelle scritture contabili; in ogni caso, poichè i fatti evidenziati dal commissario risultavano dalle scritture contabili, si doveva escludere che il debitore avesse avuto la volontà di ingannare i creditori e, quindi, mancava il requisito soggettivo della frode.
Il motivo è infondato. Questa Corte, con la sentenza 23 giugno 2011, n. 13817 ha chiarito che gli atti di frode, presupposto della revoca dell’ammissione al concordato preventivo dopo la riformulazione della L. Fall., art. 173, da parte del c.d. decreto correttivo (D.Lgs. n. 169 del 2007), non possono più essere individuati semplicemente negli atti in frode ai creditori di cui alla L. Fall., art. 64 e ss., (in questo senso, invece, la risalente Cass. 2 aprile 1985, n. 2250) ovvero comunque in comportamenti volontari idonei a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio, ma esigono che la condotta del debitore sia stata volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori, cioè situazioni che, da un lato, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e che, dall’altro, siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori. In altri termini, in tanto i comportamenti del debitore anteriori alla presentazione della domanda di concordato possono essere valutati ai fini della revoca dell’ammissione al concordato in quanto abbiano una valenza decettiva ed quindi siano tali da pregiudicare un consenso informato dei creditori.
Questa conclusione si giustifica, come ha messo in rilievo la citata decisione, sia per la lettera della L. Fall., art. 173, secondo cui l’atto di frode, per avere rilievo ai fini della revoca dell’ammissione, deve essere “accertato” dal commissario giudiziale e quindi dallo stesso scoperto; sia perchè il minimo comune denominatore dei comportamenti di frode espressamente presi in considerazione dalla norma (occultamento o dissimulazione di parte dell’attivo, dolosa omissione dell’esistenza di crediti, esposizione di passività inesistenti) è dato dalla loro attitudine ad ingannare i creditori sulle reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, sottacendo l’esistenza di parte dell’attivo o aumentando artatamente il passivo in modo da far apparire la proposta maggiormente conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare, con la conseguenza che tale attitudine deve ricorrere anche per gli “altri atti di frode” non espressamente presi in considerazione dalla norma; sia, infine, per ragioni di ordine sistematico poichè dopo la riforma il tribunale non deve esprimere un giudizio di convenienza sulla proposta – che è riservato solo ai creditori, salvo che nel caso di opposizione all’omologazione previsto dalla L. Fall., art. 180, comma 4, ma deve garantire, oltre alla regolarità del procedimento, la messa a disposizione dei creditori di tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione.
Nel caso esaminato dalla citata Cass. n. 13817/2011 la sussistenza di atti di frode è stata esclusa in relazione ad atti espressamente indicati nella proposta di concordato. Nel caso oggi all’esame della Corte si deve ulteriormente precisare se la condotta decettiva deve essere valutata solo con riferimento alla proposta di concordato ed ai suoi allegati ovvero se la stessa debba essere valutata anche con riferimento alle scritture contabili e, accogliendo la prima soluzione, quali siano gli atti risultanti dalle scritture contabili dei quali non può tacersi nella proposta di concordato o nei suoi allegati per escludere la sussistenza di atti di frode.
In ordine al primo punto assumono rilievo le previsioni della L. Fall., artt. 160 e 161. In particolare, secondo dette disposizioni, nella formulazione, applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche dettate con i D.L. n. 83 del 2012, e D.L. n. 69 del 2013, “l’imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato preventivo sulla base di un piano…” (art. 160, comma 1); “il debitore deve presentare con il ricorso: a) una aggiornata relazione sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’impresa; b) uno stato analitico ed estimativo delle attività e l’elenco nominativo dei creditori, con l’indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di prelazione; c) l’elenco dei titolari dei diritti reali o personali su beni di proprietà o in possesso del debitore; d) il valore dei beni e i creditori particolari degli eventuali soci illimitatamente responsabili” (art. 161, comma 2); “il piano e la documentazione di cui ai commi precedenti devono essere accompagnati dalla relazione di un professionista” (art. 161, comma 3). Risulta, pertanto, evidente che le scritture contabili, contrariamente a quanto era previsto, anteriormente alla riforma, dall’art. 161, comma 3, non devono essere obbligatoriamente depositate con la proposta di concordato e sono estranee ai documenti con i quali il debitore illustra al tribunale e soprattutto ai creditori la sua proposta di concordato.
E’ vero, peraltro, che la L. Fall., art. 170, continua a prevedere l’annotazione del decreto di ammissione al concordato “sotto l’ultima scrittura dei libri presentati” e, soprattutto, che la L. Fall., art. 171, comma 1, continua a prevedere che “il commissario giudiziale deve procedere alla verifica dell’elenco dei creditori e dei debitori con la scorta delle scritture contabili presentate a norma dell’art. 161, apportando le necessarie rettifiche”. Si tratta, tuttavia, di un evidente difetto di coordinamento tra le disposizioni innovate dalla riforma e quelle rimaste immutate; tale aporia non altera però la portata della nuova disciplina nella parte in cui non prevede il deposito delle scritture contabili ai fini dell’ammissibilità della proposta di concordato ed esclude che queste, sia pure come allegato, ne facciano parte e siano destinate ad illustrarne il contenuto.
Resta, invece, ferma la necessità dell’annotazione sulle scritture del decreto di ammissione alla procedura di concordato per distinguere le registrazioni anteriori da quelle successive a tale evento; così come resta ferma la messa a disposizione del commissario giudiziale delle scritture contabili sulla cui scorta, tra l’altro, il commissario giudiziale deve procedere alle verifiche ed agli accertamenti di sua competenza. In particolare, saranno oggetto di verifica i fatti esposti nella domanda di concordato e nei suoi allegati, nel piano e nella relazione del professionista mentre saranno oggetto di accertamento i fatti che non risultano dai detti documenti e che, se risultanti dalle scritture contabili, emergono soltanto grazie all’attività di accertamento del commissario giudiziale. Le scritture contabili, pertanto, anche in considerazione della loro possibile complessità, non rappresentano lo strumento con il quale il debitore porta a conoscenza dei creditori tutti gli elementi rilevanti ai fini della espressione del loro consenso sulla proposta di concordato, ma rappresentano l’oggetto dell’attività di verifica ed accertamento che il commissario giudiziale deve svolgere sui dati risultanti dalla proposta e dai suoi allegati. Il silenzio della proposta su fatti e circostanze non può, pertanto, essere reso irrilevante dalla relativa annotazione sulle scritture contabili.
Ciò, tuttavia, non consente la paradossale conclusione del ricorrente secondo cui ciò comporterebbe la configurabilità come atto di frode del silenzio della proposta di concordato e dei suoi allegati su uno qualsiasi degli elementi risultanti dalle scritture contabili. Il silenzio del debitore e l’accertamento del commissario giudiziale devono, infatti, per configurare il primo come atto di frode, riguardare non qualsiasi operazione, ma le operazioni suscettibili di assumere diverso rilievo, ai fini del soddisfacimento dei creditori, in caso di fallimento e in caso di concordato preventivo.
Un tale carattere ricorre certamente, come ritenuto dalla sentenza impugnata, nel caso dei pagamenti preferenziali nei sei mesi anteriori alla presentazione della domanda di concordato e nel caso della cessione alla convivente di una quota della partecipazione, prima totalitaria, in una s.r.l..
Per ciò che concerne, infine, l’elemento soggettivo della frode il motivo sotto tale profilo è inammissibile in quanto la relativa questione non risulta essere stata proposta dal reclamante alla Corte di appello; resta perciò assorbita ogni considerazione sul fatto che, inteso l’atto di frode nei termini sopra indicati, l’elemento soggettivo consiste soltanto nella consapevolezza di avere taciuto nella proposta circostanze rilevanti ai fini della informazione dei creditori.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
PQM
rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese di lite liquidate in Euro 5.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CP. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 settembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2013
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Numero Protocolo Interno : 621/2013