ISSN 2385-1376
Testo massima
Con l’ordinanza del 28.10.2015, il Tribunale di Reggio Emilia, Pres. Dott.ssa Savastano, Relat. Dott. Varotti, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 137 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942 n° 267, in relazione agli articoli 3, 35 primo comma, 38 secondo comma, 41 primo comma, della Costituzione, laddove esso non prevede che, a seguito della pronuncia di risoluzione del concordato preventivo ad iniziativa di uno o più creditori, il Tribunale possa dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore, qualora non vi sia domanda in tal senso da parte dei creditori, del pubblico ministero o dello stesso debitore.
In particolare, è accaduto che nell’ambito di una procedura di concordato preventivo, meramente liquidatorio e già omologato, scaduto il termine finale per l’adempimento, senza che fosse stato eseguito alcun riparto in favore dei creditori, un creditore chiedeva al tribunale di pronunciare la risoluzione per inadempimento del concordato predetto, senza, tuttavia, chiedere il fallimento della società.
Il Tribunale si riservava e successivamente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che il combinato disposto degli articoli in tema di risoluzione del concordato preventivo (articoli 137 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942 n. 267) sia in contrasto con gli articoli 3, 35 primo comma, 38 secondo comma, 41 primo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede che, a seguito della domanda di risoluzione del concordato preventivo formulata da uno o più creditori, il Tribunale possa dichiarare d’ufficio il fallimento, ove manchi richiesta in tal senso da parte del debitore o dei creditori predetti o del pubblico ministero.
Il Tribunale precisa, in primis, la rilevanza della questione sollevata, evidenziando come l’inadempimento a fronte del quale è stata chiesta la risoluzione del concordato, sia di non scarsa importanza, non avendo la procedura di concordato consentito il pagamento di alcun creditore e tanto sia che si consideri come parametro per valutare la non scarsa importanza dell’inadempimento la generalità dei creditori (ossia il rapporto tra l’ammontare complessivo delle pretese creditorie soddisfatte e quelle non soddisfatte), sia che si consideri il credito del singolo creditore che agisce per la risoluzione.
Sul punto, poi, il Tribunale precisa, altresì, il profilo economico e finanziario della questione per i creditori concorsuali, osservando come, una volta rimosso il concordato preventivo, la gestione dell’insolvenza della società e l’amministrazione del suo patrimonio verrebbero rimesse, in mancanza di fallimento, ad una fase liquidatoria destrutturata e incoerente, caratterizzata, da un lato, da atti dispositivi totalmente rimessi all’impresa tornata in bonis e, dall’altro, dalla possibile aggressione incontrollata del patrimonio da parte del ceto creditorio, motivo per il quale la tutela degli interessi dei creditori concorsuali e dei lavoratori subordinati dell’impresa affittuaria sarebbero difficilmente tutelabili in modo accettabile.
In secondo luogo, viene affrontato il profilo della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.
Sul punto, il Tribunale di Reggio Emilia, muovendo dal presupposto che la giurisprudenza della Suprema corte di cassazione è ormai consolidata nel senso che una pronuncia di fallimento d’ufficio è comunque esclusa dalla legge fallimentare anche in sede di risoluzione del concordato preventivo (per tutte Cassazione Sezioni Unite n° 9934/2015), ritiene allora di dover verificare se il “diritto vivente“, desumibile dalla interpretazione del testo normativo ormai favorita dalla Cassazione, sia esente da censure di manifesta irragionevolezza e sia rispettoso di altri diritti costituzionalmente protetti.
Si rileva come, ad oggi il settore fallimentare dal 2005 sia stato oggetto di più riforme, laddove, in altri settori dell’ordinamento, le norme che disciplinano le procedure concorsuali sono rimaste invariate. Si richiamano, dunque, la disciplina della amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, di cui al decreto legislativo n° 270/1999, che all’art. 69 prevede che, «qualora, in qualsiasi momento nel corso della procedura di amministrazione straordinaria, risulta che la stessa non possa essere utilmente proseguita, il tribunale su richiesta del commissario straordinario o d’ufficio, dispone la conversione della procedura in fallimento», i poteri attribuiti nelle liquidazioni coatte amministrative c.dd. speciali all’autorità amministrativa che sovraintende alla procedura, l’articolo 80 del decreto legislativo n° 385/1993 (testo unico bancario) e l’articolo 57 del decreto legislativo n° 58/1998 (testo unico finanza) che prevedono il potere del Ministero dell’economia e delle finanze, su proposta della Banca d’Italia (nel caso delle società di intermediazione mobiliare, anche su proposta della Consob), di disporre con decreto la revoca dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria o di intermediazione mobiliare «anche quando sia in corso l’amministrazione straordinaria» dei predetti enti (banche e società di intermediazione).
Al contempo, il Tribunale considera anche come nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, disciplinate dalla legge n° 3 del 2012, si assista ad una disciplina opposta, caratterizzata dalla possibilità di convertire l’accordo di composizione (articolo 10) e il piano del consumatore (articolo 12 bis) nella procedura denominata “liquidazione del patrimonio” (articolo 14 ter) solo su iniziativa dei creditori e non d’ufficio (articolo 14 quater) e a questo punto osserva come la scelta del legislatore di attribuire o non attribuire il potere di intervento officioso nella conversione delle procedure concorsuali, dovrebbe essere coerentemente e ragionevolmente esercitata a seconda delle caratteristiche di ogni singola procedura.
E allora, ad avviso del Tribunale emiliano, nei casi in cui le ripercussioni giuridiche, economiche e sociali derivanti dall’insolvenza sono, di solito, minime, non appare irragionevole rimettere l’iniziativa per la conversione della procedura totalmente all’iniziativa dei creditori, laddove, invece, trattasi di procedure concorsuali destinate ad imprese di maggiori dimensioni, appare ragionevole e coerente con i principi costituzionali che il potere di conversione sia attribuito all’autorità giudiziaria o a quella amministrativa che sovraintendono alle procedure.
Tuttavia, proprio perché la procedura di concordato preventivo disciplinata dagli articoli 160 e seguenti del regio decreto 16 marzo 1942 n° 267 appare destinata ad imprese di maggiori dimensioni, parificabili per importanza e grandezza alle imprese assoggettabili alle liquidazioni coatte amministrative speciali o ad amministrazione straordinaria, il Tribunale ritiene irragionevole la soppressione totale del potere di dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore una volta che sia intervenuta, su ricorso dei creditori, la risoluzione del concordato.
Il Tribunale di Reggio Emilia giunge così ad evidenziare le conseguenze giuridiche e fattuali irrazionali di tale scelta “irragionevole del legislatore” e le relative ripercussioni su molti diritti costituzionalmente protetti, tra i quali il diritto dei lavoratori alla tutela del lavoro in tutte le sue forme (articolo 35, primo comma, Costituzione), il diritto di iniziativa economica privata (articolo 41, primo comma) spettante ai creditori concorrenti, diritti questi la cui tutela richiederebbe che la valutazione circa l’opportunità o la necessità della conversione della procedura concorsuale o della sua definitiva cessazione (nell’ipotesi di risoluzione senza fallimento) non possa essere rimessa alla sola decisione di soggetti privati.
Tale tutela, ad avviso del Tribunale emiliano, imporrebbe anzi che, laddove manchi l’iniziativa dei privati (o del pubblico ministero) e siano tuttavia sussistenti esigenze di tutela dei diritti dei creditori o di terzi, sia l’autorità giudiziaria a valutare l’utilità, l’opportunità o la necessità della conversione.
Il Tribunale di Reggio Emilia, infine, richiama la sentenza 240/2003 della Corte Costituzionale, che aveva dichiarato infondata la questione di legittimità dell’articolo 6 della legge fallimentare nel testo anteriore al 16 luglio 2006, laddove essa prevedeva la possibilità di dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore insolvente, sul presupposto affermato che tale intervento officioso era giustificato proprio per «le prevalenti finalità pubblicistiche che caratterizzano la procedura fallimentare».
Sulla base di tale iter argomentativo, il Tribunale di Reggio Emilia, Pres. Dott.ssa Savastano, Relat. Dott. Varotti, ha sollevato la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 137 e 186 del regio decreto 16 marzo 1942 n° 267, in relazione agli articoli 3, 35 primo comma, 38 secondo comma, 41 primo comma, della Costituzione, laddove esso non prevede che, a seguito della pronuncia di risoluzione del concordato preventivo ad iniziativa di uno o più creditori, il tribunale possa dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore, qualora non vi sia domanda in tal senso da parte dei creditori, del pubblico ministero o dello stesso debitore.
Testo del provvedimento
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