LA MASSIMA
Il principio di prossimità o vicinanza della prova, costituisce eccezionale deroga al canonico regime della sua ripartizione, secondo il principio ancor oggi vigente che impone (incumbit) un onus probandi ei qui dicit non ei qui negat.
L’esibizione a norma dell’art. 210 c.p.c., non può in alcun caso supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova, a carico della parte istante; essa non può essere ordinata allorché l’istante possa di propria iniziativa acquisire la documentazione atta a far valere le proprie ragioni e/o eccezioni.
Questi i principi espressi dalla Suprema Corte di Cassazione, sez. sesta civile, Pres. Ragonesi – Rel. Genovese, con l’ordinanza n. 17923 del 12/09/2016.
IL CASO
Con sentenza dell’anno 2014, il Tribunale di Catanzaro aveva accolto l’appello proposto da un Istituto di credito contro sentenza del giudice di Pace, che a sua volta aveva condannato la Banca al pagamento, in favore del correntista, di una somma di denaro, previa dichiarazione della nullità delle clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi e ricostruzione del rapporto di conto corrente, a titolo di restituzione delle somme non dovute. Sul gravame della Banca, il Tribunale riformò la sentenza, condannando il correntista alla restituzione di quanto ricevuto, oltre che alle spese giudiziali.
Avverso la sentenza del Tribunale, il soccombente in appello ha adito i giudici della legge, sulla base di tre motivi, con i quali ha lamentato la violazione e falsa applicazione degli artt. 156, 157, 159, 160 e 170 c.p.c. oltre ad altre norme di diritto e vizi motivazionali.
IL COMMENTO
Orbene la Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza oggi in commento, ha condiviso la proposta del Consigliere designato alla trattazione, di definizione del procedimento ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. ad oggetto la manifesta infondatezza del ricorso.
Quanto alla prima censura, con la quale la parte ricorrente ha affermato la nullità della sentenza, per l’irregolare notificazione dell’appello, il Collegio ha osservato che dalla consultazione del fascicolo d’ufficio, risultava che la citazione di appello da parte della Banca era stata regolarmente notificata presso lo studio del rappresentante e difensore di controparte in prime cure.
Quanto al secondo motivo di ricorso, esso si palesava ad avviso dello stesso Collegio del tutto improcedibile, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, così come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 7, che onera la parte di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, “gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda“, non avendo il ricorrente provveduto al deposito dei documenti sui quali il ricorso si basava, che a dire del ricorrente avrebbero permesso la completa ricostruzione del rapporto di dare ed avere, non tenuti in considerazione dal giudice di appello.
Peraltro, ha aggiunto il Collegio, la ratio decidendi contenuta della sentenza di appello appariva plausibile, in quanto è principio fermo (cfr. Sez. L, Sentenza n. 17948 del 2006) quello secondo cui l’esibizione a norma dell’art. 210 c.p.c., non può in alcun caso supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova, a carico della parte istante; sul punto ora in commento, chi scrive ritiene opportuno ricordare che l’esibizione a norma dell’art. 210 c.p.c., non può essere ordinata allorché l’istante possa di propria iniziativa acquisire la documentazione atta a far valere le proprie ragioni e/o eccezioni (cfr. Cass. civile, sez. I, 10/01/2003, n. 149); appare altresì opportuno specificare – sempre a parere di chi scrive ma con il conforto della giurisprudenza consolidata di legittimità – che, a prescindere dalla considerazione appena esposta in ogni caso, l’ordine di esibizione costituisce una facoltà discrezionale, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito ed il suo mancato esercizio, non è sindacabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. per tutte Cass. nn. 15983-2000; 4912, 370-1999; 4363-1997; 1784-1996; 4109-1995).
Il Consigliere designato, ha proseguito ricordando il principio di prossimità o vicinanza della prova, quale eccezionale deroga al canonico regime della sua ripartizione, secondo il principio ancor oggi vigente che impone (incumbit) un onus probandi ei qui dicit non ei qui negat, che non può semplicisticamente esaurirsi nella diversità di forza economica dei contendenti, ma esige l’impossibilità della sua acquisizione simmetrica, nel caso in esame negata proprio dall’obbligo richiamato dall’art. 117 TUB; norma essa ultima secondo cui in materia bancaria, “I contratti sono redatti per iscritto ed un esemplare è consegnato ai clienti“; nella specie al vaglio dei giudici della legge, il ricorrente, da un lato aveva affermato che tale consegna non fosse avvenuta, senonchè ciò avrebbe dovuto costituire oggetto di una apposita e tempestiva documentata istanza all’Istituto di credito e, da un altro, aveva postulato una possibilità di ricostruzione completa del rapporto contrattuale, sulla base degli estratti conto, che tuttavia non erano bastati al primo giudice; esso giudice, nel disporre una CTU reputata in sede di appello come esplorativa, aveva proprio disposto l’acquisizione del contratto di apertura del conto corrente.
Il terzo motivo di ricorso relativo alla riforma della statuizione di liquidazione equitativa della somma dovuta dalla banca, è stato indi ritenuto assorbito dalla reiezione del secondo motivo, esponendo la relazione del Consigliere designato, la possibilità di liquidare una somma, solo se sia provato che essa sia dovuta; ciò che ha difettato, nella specie oggi in commento.
Per concludere oggi il breve commento alla decisione, dedicata al principio di vicinanza della prova, appare quindi di utilità, sempre a parere di chi scrive, la rievocazione dei principi generali come espressi con la sentenza fondamentale della Suprema Corte sez. un., 30/10/2001, n. 13533, secondo cui la esenzione del creditore dall’onere di provare il fatto negativo dell’inadempimento in tutte le ipotesi di cui all’art. 1453 c.c. ( e non soltanto nel caso di domanda di adempimento), con correlativo spostamento sul debitore convenuto dell’onere di fornire la prova del fatto positivo dell’avvenuto adempimento, è proprio conforme al principio di riferibilità o di vicinanza della prova.
In virtù di tale principio, che muove dalla considerazione che il creditore incontrerebbe difficoltà, spesso insuperabili, se dovesse dimostrare di non aver ricevuto la prestazione, l’onere della prova viene infatti ripartito tenuto conto, in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione; sicchè appare coerente alla regola dettata dall’art. 2697 c.c., che distingue tra fatti costitutivi e fatti estintivi, ritenere che la prova dell’adempimento, fatto estintivo del diritto azionato dal creditore, spetti al debitore convenuto, che dovrà quindi dare la prova diretta e positiva dell’adempimento, trattandosi di fatto riferibile alla sua sfera di azione.
In conclusione, disponendosi il giudizio camerale ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c. e art. 375 c.p.c., il Collegio ha condiviso la proposta di definizione contenuta nella relazione di cui sopra, dal quale è disceso il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in rivista:
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