Anteriormente alla L. n.154 del 1992 non vi era alcun obbligo di redazione del contratto bancario in forma scritta a pena di nullità. Né può ritenersi che la previsione di cui all’art.117 del D.Lgs. n.385 del 1993 abbia efficacia retroattiva. Prima dell’entrata in vigore della predetta legge sulla c.d. trasparenza bancaria la forma dei contratti bancari non era ritenuta ad substantiam bensì ad probationem, con la conseguenza che, in mancanza dell’atto negoziale, non si verifica alcuna nullità. La cms per poter essere validamente pattuita deve essere determinata contrattualmente in base alla percentuale, alla base di calcolo ed ai criteri e alla periodicità di addebito.
Questo il principio espresso dalla Corte d’Appello di Bari, Rel. Colella, con la sentenza n. 1462 del 3 agosto 2020.
In riferimento alla disciplina della nullità contrattuale per difetto di forma scritta, rilevanti sono state le previsioni di cui all’art. 117 del TUB, nell’ambito delle quali è stato previsto l’obbligo aggiuntivo di consegnare una copia al cliente, copia che nel caso esaminato dalla Corte barese non era stata mai consegnata alla società correntista, trattandosi di contratto forma scritta a pena di nullità dello stesso contratto, con stipulato in data antecedente all’entrata in vigore della L. 152/92. Tuttavia, anche se l’obbligo della forma scritta “ad substantiam” del contratto bancario è disciplinata dagli artt. 117 del TUB e 23 del TUF, in ragione della specificità di tale tipologia negoziale, con la sentenza che si annota sono stati fugati dubbi e lacune, non trovando in subiecta materia nell’ordinamento giuridico una specifica disciplina normativa.
La mancanza della forma scritta ad substantiam, infatti, per i contratti sorti dopo l’entrata in vigore delle norme sugli obblighi di trasparenza e correttezza ai quali la banca deve sottoporsi, determina ora pacificamene la nullità del contratto, qualificata come “nulllità di protezione”, secondo le previsioni di cui all’art. 127 del Testo Unico Bancario. La Corte barese, con la interessante sentenza de qua, ha correttamente evidenziato, però, che “per consolidata e condivisibile giurisprudenza di merito e di legittimità l’apertura di credito a favore del correntista non soggiace necessariamente alla forma scritta, in relazione ad un rapporto di c/c sorto in epoca anteriore all’entrata in vigore della l. 154/1992, potendo detta prova risultare anche da fatti concludenti e potendo essere fornita anche per il tramite di prove indirette quali estratti conto, riassunti scalari, report della centrale dei rischi, etc. (cfr Cass. 85/2003; n. 3842/1996; n. 2752/1995, n. 17090/2008; n. 2915/1992; C.A. Torino, n. 902 del 3.5.2013), ne’ puo’ ritersi che in assenza di contratto scritto non sarebbe possibile accertare il limite massimo dell’affidamento, in quanto la predeterminazione di tale limite massimo non costituisce elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito in c/c (cfr. Cass. N. 3842/1996). Nella specie, dallo stesso prospetto prodotto dalla convenuta nella propria comparsa di costituzione in primo grado, risulta che: nel corso degli anni la banca ha consentito stabilmente e costantemente alla correntista di usufruire di scoperti di c/c anche per somme ingenti (a far data dall’anno 1981, fino a raggiungere nei periodi successivi somme anche superiori ai 200 milioni di lire), per il periodo precedente alla formalizzazione dei contratti di affidamento (dal 24.3.2000), non risultando mai proposta alcuna richiesta di rientro dallo scoperto; negli estratti conto scalare trimestrali, sin dal primo periodo, risultano indicate, tra le condizioni applicate, le percentuali di tasso di massimo scoperto; sono state addebitate al correntista, in svariate occasioni, spese di istruttoria per revisione di pratica fido, come evincibile dagli estratti conto”.
Da ciò consegue che, anche in assenza di contratto per il periodo antecedente al 1992, è possibile accertare la esistenza dell’affidamento ed il suo limite massimo, in quanto la sua predeterminazione non costituisce affatto elemento essenziale della causa del contratto di apertura di credito in c/c, ben potendo tale limite essere individuato aliunde da elementi indiziari ed in particolare dall’esame degli estratti conto e dall’andamento del medesimo conto, in mancanza di elementi di segno contrario.
La Corte barese ha anche affrontato la vexata quaestio della validità della c.m.s., che, per poter essere validamente pattuita, deve essere determinata contrattualmente, o, comunque, determinabile non solo nel suo ammontare ma anche nelle modalità di computo, con la ovvia conseguenza che debba contenere la puntuale indicazione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla; in assenza di univoco criterio di determinazione del suo importo, la relativa pattuizione va ritenuta senz’altro nulla per indeterminatezza dell’oggetto ex art. 1418, comma 2, c.c. La Corte ha accolto l’appello della società correntista, condannando la banca alla restituzione di tutte le cms, indebitamente applicate, nella misura accertata dal CTU, con computo dei relativi interessi dalla domanda sino al soddisfo e con condanna alle spese di lite per entrambi i gradi del giudizio.
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