Ai fini dell’osservanza del requisito della forma scritta ex art. 117 TUB non è richiesta la contestualità delle firme su un unico documento, ciò in quanto la sottoscrizione, pur esprimendo la funzione di individuazione dell’autore del documento nonché di assunzione della paternità dello scritto, non può considerarsi un elemento essenziale dell’atto scritto in quanto tale.
A supporto di tale assunto militano molteplici considerazioni: in primo luogo l’art. 2702 c.c. non stabilisce che la scrittura privata è quella redatta per iscritto e sottoscritta dalle parti; affermando unicamente che la scrittura privata fa piena prova, sino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta; in secondo luogo l’art. 214 c.p.c. afferma che colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione: questo significa che potrebbe esservi una scrittura privata anche senza sottoscrizione, che varrebbe come tale fino a quando non venga disconosciuta la scrittura.
Ulteriore argomento a supporto della tesi per cui la sottoscrizione, in quanto tale, non sia un elemento naturale della scrittura privata si rinviene nella più recente giurisprudenza di legittimità che afferma che, con la produzione in giudizio del documento non sottoscritto, si può concludere il contratto, sia pure con efficacia ex nunc: se, dunque, la produzione in giudizio vale a determinare la conclusione del contratto, come accettazione dell’altrui proposta, vuol dire che ben possono esistere comportamenti concludenti che possono tener luogo della sottoscrizione, ferma restando la necessità di un testo contrattuale scritto, e l’avvenuta e reiterata esecuzione del contratto, unita alla sua mancata contestazione ed al suo mancato disconoscimento, rappresentano certamente comportamenti che palesano la volontà di dare esecuzione a quel contratto scritto.
L’esecuzione del rapporto che si sia protratta per svariati anni, anche mediante la produzione e lo scambio di documenti scritti e sottoscritti, come gli estratti conto, costituisce un’ulteriore e più radicale e dirimente ragione per ritenere che, comunque, non possa essere dichiarata la nullità del contratto.
La forma scritta del contratto bancario ex art. 117 TUB assolve infatti la specifica funzione di informazione e trasparenza contrattuale nell’interesse del cliente e questa funzione appare pienamente soddisfatta con la sottoscrizione da parte del cliente stesso del documento contrattuale, predisposto dalla banca.
Ed allora, in definitiva, la sottoscrizione da parte del cliente del testo contrattuale non può di per sé escludere la sottoscrizione da parte della banca, che non deve certo essere “protetta” dall’aver concluso un contratto, che non disconosce, su propri moduli e formulari, al quale ha dato pacificamente attuazione, anche con documenti scritti, negli anni successivi e che, nel giudizio, non solo non lo disconosce ma lo produce a riprova delle pattuizioni intercorse con la controparte.
E’ infondata la pretesa di sommare il tasso di mora con il tasso corrispettivo, in quanto il primo sostituisce il secondo e quindi non possono sommarsi fra loro, perché anche se pattuiti originariamente, sono suscettibili di essere applicati solo in presenza di eventi fra loro in radice alternativi, l’uno dei quali esclude l’altro, poiché o il creditore adempie e, in tal caso, onora il tasso corrispettivo o non adempie e, in tal caso, gli viene applicato l’interesse moratorio. In altri termini, finchè non si verifica l’inadempimento che fa scattare la mora o l’estinzione anticipata del mutuo che scattare la penale, l’eventuale previsione usuraria è puramente virtuale, sicchè non può esplicare alcun effetto.
Tribunale di Alessandria, Dott.ssa Patrizia Cazzato, sentenza n.990 del 31.10.2017
Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in rivista:
CONTRATTI BANCARI: VALIDI ED EFFICACI ANCHE SE MANCA LA SOTTOSCRIZIONE DELLA BANCA
LA PRODUZIONE IN GIUDIZIO E/O MANIFESTAZIONE DI VOLERSI AVVALERE DEL CONTRATTO SONO EQUIPOLLENTI DELLA FIRMA
Sentenza | Tribunale di Savona, Dott. Fabrizio Pelosi | 02.05.2017 | n.517
CONTRATTI MONOFIRMA: LA PRODUZIONE DEL DOCUMENTO FIRMATO DAL CLIENTE È EQUIPOLLENTE DELLA SOTTOSCRIZIONE
L’ADESIONE ALL’ACCORDO PUÒ ESSERE MANIFESTARSI IN QUALSIASI FORMA AMMESSA DALL’ORDINAMENTO
Sentenza | Tribunale di Brescia, Dott.ssa Laura Frata | 05.07.2017 | n.2080
RIPETIZIONE INDEBITO: È ONERE DEL CORRENTISTA DI PRODURRE L’INTERA SEQUENZA DEGLI ESTRATTI CONTO
IL MANCATO DEPOSITO DELLA DOCUMENTAZIONE CONTABILE NON PUÒ ESSERE SANATA EX ART. 210 C.P.C..
Sentenza | Corte d’Appello di Milano, Pres. – Rel. Alberto Massimo Vigorelli | 05.07.2017 | n.3406
CONTRATTI “MONOFIRMA”: VALIDI ED EFFICACI IN PRESENZA DI ATTI EQUIVALENTI ALLA SOTTOSCRIZIONE
RILEVA LA VOLONTÀ DELLA BANCA NON FIRMATARIA DI AVVALERSI DEL CONTRATTO
Sentenza | Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Dott. Edmondo Cacace | 29.06.2017 | n.2121
USURA: INFONDATA LA PRETESA DI SOMMARE INTERESSI CORRISPETTIVI E MORATORI
È DEL TUTTO INATTENDIBILE LA DETERMINAZIONE DI UN TASSO EFFETTIVO DI MORA (CD. TEMO)
Sentenza | Tribunale di Pavia, Dott.ssa Laura Cortellaro | 31.10.2017 | n.1668
USURA: NON PUÒ SOSTENERSI LA TESI DELLA SOMMATORIA TASSI IN VIRTÙ DELLA DECISIONE CASS. CIV. 23192/2017
I TASSI VANO CONFRONTATI CIASCUNO SINGOLARMENTE RISPETTO AL TASSO SOGLIA
Sentenza | Tribunale di Sulmona, Giudice Daniele Sodani | 30.10.2017 | n.384
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di ALESSANDRIA
Sezione CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Patrizia Cazzato ha pronunciato ex art. 281 sexies c.p.c. la seguente
SENTENZA
nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. omissis/2016 promossa da:
MUTUATARIO
attore/i
contro
BANCA
convenuto/i
CONCLUSIONI
Le parti hanno concluso come da rispettive note difensive.
CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE
Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità per tardività della domanda attorea di accertamento della inesistenza e/o invalidità e in ogni caso inefficacia del contratto di mutuo “stante la mancanza di requisiti essenziali ad integrarne la validità”. In atto di citazione gli attori avevano limitato la richiesta di accertamento del contratto di mutuo “stante l’inesistenza di soggetto qualificato a rappresentare BANCA” e poi solo in III memoria istruttoria ex art. 183 c. VI c.p.c. hanno per la prima volta lamentato la mancanza di piano di ammortamento allegato al contratto di mutuo, salvo poi in sede di note difensive, per la prima volta (e quindi tardivamente) cambiare le proprie conclusioni, aggiungendo un vizio. Tale doglianza va infatti a riverberarsi sulla determinatezza e determinabilità dell’oggetto del contratto di mutuo che come tale doveva essere oggetto di apposita causa petendi fin dall’inizio della controversia per permettere così alla controparte di potersi difendere. Pare ultroneo evidenziare come non possa neppure considerarsi una mera precisazione della domanda essendo la domanda introduttiva volta a chiedere la nullità per vizio di forma, mentre quella tardivamente proposta per mancanza di un elemento essenziale del contratto. Ne deriva la dichiarazione di inammissibilità.
Per quanto riguarda la domanda tempestiva di accertamento della nullità per inesistenza di soggetto qualificato a rappresentare BANCA, essa deve essere rigettata. Nel caso di specie si è di fronte ad un contratto di mutuo fondiario stipulato dinanzi al notaio nella forma dell’atto unilaterale di accettazione della proposta da parte dell’istituto di credito, proposta il cui contenuto viene interamente riportato nell’atto stesso di accettazione. Non doveva quindi essere presente alcun funzionario dell’istituto di credito proponente, poiché l’atto de quo è atto degli accettanti, entrambi presenti come attestato dal notaio rogante e la cui accettazione alla proposta dell’istituto di credito è conforme, tanto che il notaio riporta le condizioni contenute nella proposta e “di seguito trascritte e sottoscritte in segno di piena e completa accettazione”. È così osservato anche il requisito della forma scritta ex art. 117 TUB che non richiede la contestualità delle firme su un unico documento.
La sottoscrizione è certamente a regola esprimendo la funzione di individuazione dell’autore del documento nonché di assunzione della paternità dello scritto. Ma, a ben vedere, la sottoscrizione non è un elemento essenziale dell’atto scritto in quanto tale.
L’art. 2702 c.c., infatti, non stabilisce che la scrittura privata è quella redatta per iscritto e sottoscritta dalle parti; afferma, invece, che la scrittura privata fa piena prova, sino a querela di falso, della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta.
E’ il firmatario dell’atto, allora, e non la controparte, che può togliere la piena efficacia alla scrittura, disconoscendola.
D’altro canto – venendo al terreno processuale – l’art. 214 c.p.c. (rubricato disconoscimento della scrittura privata) afferma che colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione: questo significa che potrebbe esservi una scrittura privata anche senza sottoscrizione, che varrebbe come tale fino a quando non venga disconosciuta la scrittura.
Ed allora che la sottoscrizione, in quanto tale, non sia un elemento naturale della scrittura privata trova un’involontaria conferma, del resto, anche nella stessa più recente giurisprudenza di legittimità sopra citata che afferma che, con la produzione in giudizio del documento non sottoscritto, si può concludere il contratto, sia pure con efficacia ex nunc.
Se, infatti, la produzione in giudizio vale a determinare la conclusione del contratto, come accettazione dell’altrui proposta, vuol dire che ben possono esistere comportamenti concludenti che possono tener luogo della sottoscrizione, ferma restando la necessità di un testo contrattuale scritto.
E l’avvenuta e reiterata esecuzione del contratto, unita alla sua mancata contestazione ed al suo mancato disconoscimento, rappresentano certamente comportamenti che palesano la volontà di dare esecuzione a quel contratto scritto.
Ma, soprattutto, quand’anche si volesse ritenere indispensabile la sottoscrizione anche del contraente che abbia prodotto in giudizio il testo contrattuale scritto e sottoscritto solo dall’altra parte, e non sufficiente a manifestare la volontà di concludere proprio quel contratto (pur redatto per iscritto) l’esecuzione del rapporto che si sia protratta, in ipotesi, per svariati anni, anche mediante la produzione e lo scambio di documenti scritti e sottoscritti (si pensi all’invio degli estratti conto), si ritiene che vi sia un’ulteriore e più radicale e dirimente ragione per ritenere che, comunque, non possa essere dichiarata la nullità del contratto.
Ed infatti, se quella prospettata per la violazione della forma scritta nei contratti bancari è una nullità di “protezione” (e tale viene espressamente qualificata da Cass. n. 8395 del 2016, che richiama, per il resto, integralmente la precedente 5919/2016), la protezione va accordata al soggetto in cui favore è prevista. E non pare dubitabile che la previsione sotto sanzione di nullità della forma scritta sia rivolta a tutelare la parte che possa avere pregiudizio da una mancanza di adeguata valutazione e ponderazione di un testo contrattuale che venisse solo concordato verbalmente.
La forma scritta del contratto bancario ex art. 117 TUB assolve infatti la specifica funzione di informazione e trasparenza contrattuale nell’interesse del cliente e questa funzione appare pienamente soddisfatta con la sottoscrizione da parte del cliente stesso del documento contrattuale, predisposto dalla banca. Ed allora, in definitiva, la sottoscrizione da parte del cliente del testo contrattuale non può di per sé escludere la sottoscrizione da parte della banca, che non deve certo essere “protetta” dall’aver concluso un contratto, che non disconosce, su propri moduli e formulari, al quale ha dato pacificamente attuazione, anche con documenti scritti, negli anni successivi e che, nel giudizio, non solo non lo disconosce ma lo produce a riprova delle pattuizioni intercorse con la controparte.
Per tale motivo la domanda attorea deve essere rigettata.
Parte attrice si è quindi lamentata del superamento del tasso soglia da parte degli interessi moratori. Si noti che nel caso di specie, il tasso soglia sarebbe stato superato dalla sommatoria dell’interesse corrispettivo (pari al 5,65%) in aggiunta al tasso moratorio del 2%, con una determinazione del tasso del 7,65% superiore al tasso soglia per i mutui ipotecari a tasso fisso pari al 6,75% (si veda in proposito la perizia di parte, dott.ssa omsissis).
La suddetta prospettazione porta già di per sé alla reiezione della domanda.
È infatti evidente l’errore insito in tale sommatoria, senza considerare l’elemento di per sé dirimente posto all’art. 4 dello stesso contratto di mutuo in relazione agli interessi di mora: “la misura di tali interessi non potrà mai essere superiore al limite fissato ai sensi dell’art. 2 c. 4 l. 108/1996”.
Come è stato più volte rilevato (Trib. Torino 17.9.2014 e 20.6.2015, su Il caso e dirittobancario.it), per la stessa struttura del contratto di mutuo, il tasso moratorio e quello compensativo non possono mai trovarsi ad essere applicati congiuntamente in relazione ad un medesimo periodo temporale.
Infatti, gli interessi corrispettivi si applicano soltanto sul capitale a scadere, essendo il corrispettivo del diritto del mutuatario a godere della somma capitale in conformità al piano di rimborso graduale (artt. 821 e 1815 c.c.), mentre gli interessi di mora si applicano soltanto sul debito scaduto (art. 1224 c.c.). Il tasso di mora dunque sostituisce il tasso corrispettivo – con formula equivalente può dirsi che, con riguardo al debito scaduto, al tasso corrispettivo si aggiunge lo spread di mora – e pertanto i due tassi non possono sic et simpliciter sommarsi tra loro.
Detto altrimenti, il mutuatario può essere tenuto a corrispondere, per un certo periodo, o il tasso corrispettivo (se il capitale deve ancora scadere) oppure il tasso di mora (se la rata è già scaduta), mentre non può, né mai potrebbe, essere chiamato a pagare un tasso di interesse periodale pari alla somma del tasso corrispettivo e della mora. È quindi evidente che il TEG contrattuale ai fini della verifica dell’usura non possa corrispondere alla sommatoria dei tassi.
Inoltre anche laddove – e ciò non è nel caso di specie – vi sia una previsione di tasso moratorio pari o superiore alla soglia non si determina alcun incremento nel costo del credito, se il debitore non ha mai ritardato nei pagamenti o se la somma addebitabile a titolo di mora è insignificante rispetto alla massa degli interessi corrispettivi dovuti.
In tal modo non si vuole escludere l’usurarietà dell’interesse moratorio, così come affermato da Cass. 350/2013, ma senza collegarlo all’arbitraria sommatoria dell’interesse corrispettivo e dell’interesse moratorio.
L’orientamento giurisprudenziale di merito è, in larghissima maggioranza, nel senso opposto a quello propugnato dagli attori. I giudici di legittimità si sono limitati ad affermare l’applicabilità della legge 108/1996 al tasso degli interessi di mora, ma non hanno affermato la tesi, propugnata nella perizia di parte, che nella verifica del tasso di usura originaria, si dovesse procedere alla sommatoria tra il tasso corrispettivo e quello di mora, considerando automaticamente gli interessi corrispettivi (di per sé inferiori al tasso soglia) usurari per essere collegati agli interessi moratori.
È stato affermato solo il principio, che si condivide, secondo cui si intendono usurari gli interessi pattuiti che superano il limite stabilito dalla legge al momento della pattuizione a qualunque titolo e quindi anche gli interessi di mora, ma ciò non equivale ad affermare che il tasso corrispettivo e quello di mora vadano sommati al fine del superamento del tasso soglia in quanto, in presenza di ritardo nell’adempimento, il tasso di mora si sostituisce a quello corrispettivo.
In considerazione della diversa natura degli interessi di mora, diversa è la base di calcolo: infatti gli interessi corrispettivi si applicano soltanto sul capitale a scadere, essendo il corrispettivo del diritto del mutuatario a godere della somma capitale in conformità al piano di rimborso graduale (art. 821 e 1815 c.c.), mentre gli interessi di mora si applicano soltanto sul debito scaduto (art. 1224 c.c.), sicché “il tasso di mora dunque sostituisce il tasso corrispettivo (…) e pertanto i due tassi non possono sic et simpliciter sommarsi tra loro, come pretenderebbero gli attori” (Cfr. Trib. Torino, Sez. VI, sent. del 17.9.2014).
In estrema sintesi: il tasso di mora sostituisce il tasso corrispettivo, e quindi non possono sommarsi fra loro, perché anche se pattuiti originariamente, sono suscettibili di essere applicati solo in presenza di eventi fra loro in radice alternativi, l’uno dei quali esclude l’altro, poiché o il creditore adempie e, in tal caso, onora il tasso corrispettivo o non adempie e, in tal caso, gli viene applicato l’interesse moratorio. In altri termini, finchè non si verifica l’inadempimento che fa scattare la mora o l’estinzione anticipata del mutuo che scattare la penale, l’eventuale previsione usuraria è puramente virtuale, sicchè non può esplicare alcun effetto.
Vi è poi un altro problema. Con la Legge 108/1996 si è inteso “oggettivizzare” la nozione di usura, introducendo l’istituto del tasso soglia, in modo che, superando le difficoltà probatorie in precedenza riscontrate in materia, gli interessi dovessero essere riconosciuti come usurari per il solo fatto che fossero stati pattuiti in misura superiore al tasso soglia rilevato per la tipologia di contratto omogenea a quella in verifica.
Il tasso soglia, come è noto, è stato determinato attraverso la rilevazione del Tasso Effettivo Globale Medio (TEGM) praticato nel periodo per la specifica tipologia di contratto e, quindi, operando su di esso la maggiorazione prevista (inizialmente il 50%, dal 14.5.2011 il 25% maggiorato a sua volta di 4 punti percentuali e con il limite di una maggiorazione finale rispetto al TEGM non superiore all’8%), mediante rilevazioni trimestrali della Banca d’Italia secondo le indicazioni e le prescrizioni impartite dal Ministero delle Finanze.
Ebbene, dette prescrizioni hanno sempre previsto e disposto che le rilevazioni statistiche fossero condotte con riferimento esclusivamente ai tassi corrispettivi, verosimilmente alla luce della maggiore omogeneità delle condizioni concordate sul mercato con riferimento a tali interessi, in considerazione della loro natura e funzione di retribuzione del denaro e, quindi, di prezzo corrisposto in relazione all’erogazione del credito.
Al contrario, analoga rilevazione non viene richiesta con riferimento agli interessi di mora, in considerazione della loro differente natura di prestazione non necessaria, ma solo eventuale, in quanto destinata a operare solo in caso di inadempimento del mutuatario, nonchè in ragione della funzione non corrispettiva, ma risarcitoria del danno derivante dall’inadempimento e, quindi, di una funzione che può portare a quantificare la pattuizione in forza di variabili e di componenti estremamente eterogenee e non strettamente e direttamente collegate al costo del denaro e all’erogazione del credito.
Il fatto, quindi, che il TEGM, e conseguentemente il Tasso Soglia che dal primo dipende, siano determinati in forza di rilevazioni statistiche condotte esclusivamente con riferimento agli interessi corrispettivi (oltre alle spese, commissioni e oneri accessori all’erogazione del credito), porta a concludere come non si possa pretendere di confrontare la pattuizione relativa agli interessi di mora con il Tasso Soglia così determinato, al fine di accertare se i primi siano o meno usurari. Così operando, infatti, si giungerebbe a una rilevazione priva di qualsiasi attendibilità scientifica e logica, prima ancora che giuridica, in quanto si pretenderebbe di raffrontare fra di loro valori disomogenei (il tasso di interesse moratorio pattuito e il tasso soglia calcolato in forza di un TEGM che non considera gli interessi moratori, ma solo quelli corrispettivi, anche perché includendo in esso anche i tassi moratori si avrebbe l’effetto distorsivo di aumentare i tassi soglia).
In sostanza, quindi, quanto meno ad oggi una verifica in termini oggettivi del carattere usurario degli interessi moratori risulta preclusa dalla mancanza di un termine di raffronto, ossia di un tasso soglia, che sia coerente con il valore che si vuole raffrontare.
Né il problema potrebbe essere superato invocando la rilevazione condotta dalla Banca d’Italia nel 2001 con riferimento ai tassi di interesse moratori praticati sul mercato; l’Istituto di vigilanza bancaria, infatti, anche con la propria Circolare del 3.7.2013, ha fatto richiamo a tale rilevazione, ricordando come fosse stato verificato come in media gli interessi moratori fossero pattuiti in misura maggiorata di 2,1 punti percentuali rispetto ai tassi medi concordati per gli interessi corrispettivi.
Sennonchè detta rilevazione, oltre a essere “ufficiosa”, in quanto condotta in assenza di una istruzione in tal senso disposta dal Ministero delle Finanze in attuazione a quanto dettato dalla 108/1996, non solo non può considerarsi neppure scientificamente attendibile, non essendo conosciute le modalità di rilevazione statistica utilizzate e, al contrario, risultando essere stata condotta attraverso l’acquisizione di dati a campione, ma soprattutto risale a oltre dieci anni fa, senza essere stata aggiornata e rivisitata trimestralmente, come invece preteso dal legislatore.
In sostanza, quindi, anche la soluzione di raffrontare il tasso degli interessi moratori con un tasso soglia specifico costruito con riferimento agli interessi di mora, se dal punto di vista logico matematico risulta sicuramente più condivisibile, non trova comunque giustificazione sul piano propriamente giuridico per il carattere “privato” del tasso di riferimento preso in esame per il raffronto.
Deve, pertanto, concludersi che, sino a quando non verrà commissionata dal Ministero delle Finanze una rilevazione di un TEGM specifico per gli interessi di mora, per questi ultimi non risulti possibile procedere a una qualificazione in termini “oggettivi” dell’interesse usurario, ferma restando la possibilità che tali interessi possano essere riconosciuti comunque come usurari in chiave soggettiva, ossia là dove, richiamando quanto dettato dall’art. 644 c.p., si dimostri che detti interessi siano stati pattuiti in termini tali da creare una sproporzione delle prestazioni, con approfittamento delle condizioni di difficoltà economiche e finanziarie del debitore (ipotesi neppure dedotta da parte attrice).
Ad oggi, quindi, la premessa ricavabile dalla Legge 394/2000 e ribadita reiteratamente dalla giurisprudenza e dalla stessa Banca d’Italia circa la possibilità di sottoporre a un vaglio di usurarietà anche gli interessi moratori, per forza di cose non può che essere circoscritta alla dimensione “soggettiva” dell’usura, così come ricavabile dalla disciplina penalistica dell’istituto. E tale tesi sembra essere confortata dal D.L. 132/2014 convertito con la Legge 10.11.2014 n. 162, il quale ha introdotto un interesse legale di mora per le ipotesi in cui lo stesso non fosse stato oggetto di specifica pattuizione ad opera delle parti; tale interesse legale è stato parametrato con richiamo al tasso di interesse legale per le transazioni commerciali di cui al D.L.vo 231/2002, determinando in tal modo un tasso di interesse che per diverse tipologie contrattuali risulta essere superiore al Tasso Soglia trimestralmente rilevato dalla Banca d’Italia.
Il tasso di interesse moratorio previsto dallo stesso legislatore risulterebbe usurario per una molteplicità di contratti, con l’effetto di qualificare come illegittimo un tasso di interesse imposto dal legislatore.
Gli stessi attori, peraltro, non hanno mai neppure dedotto di avere pagato in ritardo, escludendo così in radice l’applicazione degli interessi moratori, indicando solo di avere rinegoziato il mutuo con altro istituto di credito. È quindi evidente la loro mancanza di interesse: chiedono infatti la restituzione di quanto pagato quale interesse corrispettivo, di per sé, come sopra visto, inferiore ai tassi soglia.
Per quanto riguarda la doglianza circa l’illegittimità dell’ammortamento alla francese essa è infondata nel merito non essendovi alcuna violazione del divieto di cui all’art. 1283 cc. poiché prevede che il debitore rimborsi alla fine di ogni anno (o di altro intervallo temporale che disciplina la cadenza delle rate) e per tutta la durata dell’ammortamento, una rata costante posticipata tale che al termine del periodo stabilito il debito sia completamente estinto, sia in linea capitale che per interessi (v. in termini (v. Trib. Pescara 10.4.2014, Trib. Torino sent. 2365/2016).
Ogni rata costante si compone di una quota interessi e di una quota capitale; dal punto di vista del mutuatario, la quota interessi rappresenta il costo per l’uso del denaro mentre la quota capitale rappresenta la somma destinata al rimborso del capitale mutuato. In linea generale – nei contratti di mutuo in cui la restituzione del prestito è fatta in modo graduale nel tempo – il debitore paga periodicamente sia gli interessi, sia una parte del capitale.
Segnatamente, la rata di ammortamento è composta da due parti:
– la quota interessi necessaria per pagare gli interessi sul debito di quel periodo;
– la quota capitale necessaria per rimborsare una parte del prestito.
Ora, di tali quote componenti la rata, solo le quote capitale vanno ad estinguere il debito, generando – di rata in rata – un debito residuo sempre minore, su cui si calcolano gli interessi che il mutuatario paga con la rata successiva. Di rata in rata, quindi, le quote interessi sono sempre decrescenti, mentre le quote capitali possono essere costanti (metodo di ammortamento c.d. uniforme, caratterizzato dal fatto che le quote capitali sono sempre costanti e conseguentemente, essendo le quote interessi decrescenti, le rate sono decrescenti oppure variabili (metodo di ammortamento progressivo o c.d. francese, in cui ad essere costante è la rata complessiva, ragione per cui – essendo la quota interesse comunque decrescente – la quota capitale è invece crescente).
Laddove il rimborso abbia luogo con il sistema progressivo c.d. francese, la misura della rata costante dipende da una formula matematica i cui elementi sono: 1) il capitale dato in prestito; 2) il tasso di interesse fissato per periodo di pagamento; nonché 3) il numero dei periodi di pagamento. La formula matematica in questione individua in sostanza quale sia quell’unica rata costante capace di rimborsare quel prestito con quel determinato numero di pagamenti periodici costanti.
E quindi tale metodo non implichi, per definizione, alcun fenomeno di capitalizzazione degli interessi. Il metodo “alla francese” comporta infatti che gli interessi vengano comunque calcolati unicamente sulla quota capitale via via decrescente e per il periodo corrispondente a quello di ciascuna rata e non anche sugli interessi pregressi. In altri termini, nel sistema progressivo ciascuna rata comporta la liquidazione ed il pagamento di tutti (ed unicamente de) gli interessi dovuti per il periodo cui la rata stessa si riferisce. Tale importo viene quindi integralmente pagato con la rata, laddove la residua quota di essa va già ad estinguere il capitale. Ciò non comporta tuttavia capitalizzazione degli interessi, atteso che gli interessi conglobati nella rata successiva sono a loro volta calcolati unicamente sulla residua quota di capitale, ovverosia sul capitale originario detratto l’importo già pagato con la rata o le rate precedenti (v. Trib. Pescara 10.4.2014, Trib. Torino sent. 2365/2016).
Infine, per quanto riguarda l’asserita violazione degli obblighi informativi, non risulta essere concretizzata in una concreta doglianza.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. Nel caso di specie in difetto di prova di pattuizioni intercorse tra la parte vittoriosa ed il suo difensore; tenuto conto del valore determinabile del decisum e degli effetti della decisione; della complessità della controversia, del numero e dell’importanza delle questioni trattate, nonché del pregio dell’opera prestata e dei complessivi risultati dei giudizi, le spese del giudizio vengono liquidate in applicazione dei parametri medi diminuiti del 40% (ed esclusa la fase istruttoria, non essendo stata espletata alcuna prova).
PQM
il Tribunale di Alessandria, in composizione monocratica, in persona del dott.ssa Patrizia Cazzato, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione reietta, definitivamente pronunciando, così provvede:
- Dichiara inammissibile la domanda di accertamento dell’invalidità, inesistenza, inefficacia del contratto di mutuo per mancanza dei requisiti essenziali;
- Rigetta nel resto le altre domande attoree;
- condanna gli attori, in solido tra di loro, a rifondere alla convenuta le spese del presente giudizio che liquida in € 3.320,40 per compensi, oltre 15% per spese generali, IVA, CPA e oneri accessori di legge.
Sentenza resa ex articolo 281 sexies c.p.c., pubblicata mediante lettura ad aula vuota ed allegazione al verbale.
Alessandria, 31 ottobre 2017
Il Giudice
dott. Patrizia Cazzato
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