ISSN 2385-1376
Testo massima
Con la sentenza n. 4393 del 24.02.2014 la Suprema Corte prende in esame il contratto di gestione di portafoglio titoli con particolare riferimento alla valutazione di eventuali scelte di gestione difformi da quelle previste in contratto nonché alle possibili contestazioni che possono essere mosse dal cliente alla Banca.
In particolare, vengono esaminati i possibili effetti riconducibili alla mancata contestazione da parte del cliente dei rendiconti di gestione, evidenziando come un eventuale comportamento passivo del cliente dinanzi all’invio di tale documentazione non generi alcun meccanismo di approvazione tacita degli stessi, necessitando, nel merito, una valutazione complessiva del suo contegno da parte del Giudice.
Viene esclusa, pertanto, un’applicazione analogica al rendiconto di gestione degli istituti previsti dagli articoli 119 T.U.B. e 1832 c.c., con ciò segnando una netta distinzione tra il documento relativo al riepilogo di gestione del portafoglio e gli estratti conto bancari, precisando come i primi “non siano meri riepiloghi storico-contabili, bensì veri e propri rendiconti di gestione“.
Dinanzi, quindi, ad una violazione degli obblighi di gestione da parte del mandatario, il cliente manterrà il proprio diritto al risarcimento del danno fintanto che esso non si estingua per prescrizione, non potendosi in alcun modo verificare una decadenza (nei termini suddetti) non prevista dal legislatore.
Ciò premesso, il Supremo Collegio, passando ad analizzare l’istituto della gestione di portafoglio, compie un’ulteriore rilevante precisazione, affermando come il dovere di realizzare il massimo profitto nell’interesse del cliente permanga per tutto il periodo del mandato di gestione, non essendo possibile operare alcuna compensazione tra i risultati migliori precedentemente conseguiti e quelli attuali inferiori.
IL CASO
Il Tribunale di Verona, accoglieva la domanda di parte attrice volta ad ottenere la condanna al risarcimento del danno per negligenza nella gestione del proprio portafoglio titoli, conferita dal cliente all’intermediario con contratto di mandato.
Il Giudice di prime cure, rilevava, infatti, un inadempimento gravemente colposo da parte dell’istituto di credito, che aveva posto in essere un criterio prudenziale nella gestione del suddetto portafoglio titoli, in maniera difforme rispetto a quanto convenuto in contratto.
Tale violazione consisteva, di fatto, in una riduzione da parte dell’intermediario della quota azionaria della gestione, la quale determinava una minore redditività, che ad avviso della Corte di merito, andava valutata complessivamente con la precedente gestione.
La Corte d’Appello, invece, riformando la decisione di primo grado, statuiva che la inesatta esecuzione del contratto doveva riflettere l’attività del mandatario nel suo complesso. Pertanto la valutazione complessiva dell’operato del gestore doveva essere letta con riferimento all’intero triennio di gestione, il quale evidenziava una redditività superiore a quello di fondi comuni di investimento.
Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione.
LA DECISIONE
1) DIFFERENZE SOSTANZIALI TRA RENDICONTO DI GESTIONE ED ESTRATTO CONTO E CONSEGUENTE INAPPLICABILITÀ DI MECCANISMI DI APPROVAZIONE TACITA DEL RENDICONTO
La sentenza in commento analizza preliminarmente la questione inerente la possibile operatività di meccanismi di approvazione tacita del rendiconto di gestione dinanzi a comportamenti passivi del cliente.
L’impossibilità di una approvazione tacita delle operazioni svolte dal gestore, viene dedotta attraverso la ricostruzione degli effetti riconducibili all’invio del rendiconto di gestione al cliente.
Tale documento, a differenza dell’estratto di conto corrente, non è un semplice “riepilogo di dati storico-contabili, bensì dei veri e propri rendiconti di gestione“. Data la radicale diversità di funzione, ad esso non potrà essere estesa per analogia, secondo la Suprema Corte, la disciplina prevista dagli articoli 119 T.U.B. e 1832 c.c., relativa alla approvazione tacita degli estratti conto in difetto di pronta contestazione.
Stante la sostanziale differenza di funzione e di contenuto tra i due documenti descritti e quindi l’impossibilità di una estensione analogica della normativa suddetta al rendiconto periodico di gestione del portafoglio, non si potrà verificare a carico del cliente alcuna decadenza portata da un eventuale contegno passivo dinanzi all’invio di tale documento.
Tale distinzione è confermata dalla giurisprudenza che, nel merito, ha confermato come l’estratto conto abbia la funzione di certificare la verità storica dei dati indicati nel conto, svolgendo così una funzione informativa, mentre il rendiconto di gestione, come detto, non ha mera funzione di riepilogo di dati storici, bensì di vero e proprio resoconto di gestione.
Il contegno tenuto dal cliente, pertanto, dovrà essere valutato dal giudice nel suo complesso alla luce del principio della buona fede, non essendo espressamente previsto a suo carico dal legislatore alcun meccanismo di decadenza in caso di non tempestiva contestazione dell’operato del gestore.
L’impossibilità di una approvazione tacita del rendiconto di gestione è inoltre confermata dalla causa contrattuale che il contratto di gestione di portafoglio.
Tale figura contrattuale, sebbene vicina alla figura del mandato, come affermato nella decisione in esame, differisce da essa per la caratteristica di una previsione di tutela più ampia per l’investitore, sicuramente contraddetta dalla operatività di un principio di approvazione tacita dei rendiconti periodici non contestati.
Nel merito si è altresì osservato come nel caso in cui tale contratto fosse figura tipica e quindi non appartenente al tipo del mandato, le norme di tale istituto sarebbero ad esso applicabili solo in via analogica, permettendo così l’applicazione a tale contratto della normativa regolamentare in materia finanziaria, con ogni pregiudicato giuridico da ciò discendente.
Al di là della ricostruzione giuridica della causa contrattuale, è da rilevare come all’interno del contratto di gestione di portafogli, la pattuizione che le parti concordano ha assoluto rilievo. Ciò trova conferma nella prescrizione di forma dello stesso ai sensi dell’art. 23 T.U.F..
Proprio dagli obblighi assunti con tale atto dal gestore, quindi, discende l’interesse del cliente al rispetto dei doveri gravanti su di esso.
L’inciso, pertanto, conferma l’assoluta irrilevanza della mancata contestazione dei rendiconti di gestione da parte del cliente, il quale in virtù delle pattuizioni contrattuali, ha facoltà di pretendere il ristoro del danno subito sino al termine di prescrizione previsto dall’ordinamento per tale azione, senza che si verifichi a suo carico alcun meccanismo di approvazione tacita degli stessi.
2) CRITERI E MODALITA’ DI VALUTAZIONE DELLA GESTIONE DA PARTE DELL’INTERMEDIARIO.
Passando ad analizzare i precipui obblighi di gestione dell’intermediario, la sentenza in commento afferma come tale valutazione non possa essere formulata in modo globale, bensì debba avere riguardi a tutti i segmenti dell’arco temporale relativo alla durata del contratto.
Infatti, se in un particolare periodo di gestione viene rilevata una grave violazione degli obblighi assunti in contratto da parte dell’istituto di credito, non sarà possibile valutare il risultato di gestione degli anni precedenti unitamente a tale segmento, operando in tal modo una compensazione tra gli utili maggiori della precedente gestione e quelli minori conseguenti ad un comportamento “prudenziale” contrario agli obblighi contrattuali stessi.
La Corte di Cassazione, nel merito, chiaramente afferma come gli obblighi di miglior cura dell’interesse del cliente permangono per tutta la durata contrattuale prevista e pertanto non trova giustificazione che un miglior risultato di gestione legato ad un periodo precedente autorizzi successivi risultati deteriori di gestione.
L’argomentazione su cui tale assunto si fonda è quella relativa al fatto che tali pregressi proventi non sono “un qualcosa che il cliente abbia lucrato al di là di quanto gli spettasse, e rispetto al quale si possa quindi operare una sorta di compensazione con minori guadagni del periodo successivo.”
Il cliente, infatti, conserva il proprio diritto al miglior rendimento possibile per tutta la durata del contratto di gestione. Ove, quindi, il gestore viene meno a tale dovere anche per un segmento temporale del periodo di gestione è facoltà del cliente agire nei riguardi di quest’ultimo per ottenere il risarcimento del danno provocato da tale inadempimento.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
PRIMA SEZIONE CIVILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 10932-2007 proposto da:
BC e AR elettivamente domiciliati in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5, presso l’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
BANCO POPOLARE DI X SOC. COOP. A R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BARBERINI 86, presso l’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente-
avverso la sentenza n. 352/2006 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 24/02/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/2014 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;
udito, per i ricorrenti, l’Avvocato (OMISSIS)che si riporta;
udito, per il controricorrente, l’Avvocato (OMISSIS), con delega, che si riporta;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1.- Il Tribunale di Verona ha accolto la domanda proposta da BC e AR nei confronti della Banca Popolare di X , diretta ad ottenere la condanna della convenuta al risarcimento del danno derivante dalla negligente gestione del proprio patrimonio mobiliare in forza di mandato conferito con contratto del 20.2.1992. Secondo il Tribunale, ai fini dell’accertamento della responsabilità della banca per inadempimento del mandato ricevuto, l’anno 1993 – nel corso del quale il comportamento della mandataria era a stato gravemente colposo perché ispirato ad un criterio “prudenziale”, in violazione degli obblighi assunti, riducendo la quota azionaria dell’investimento (oscillante dal 3,21% al 13,47% a fronte del limite massimo stabilito del 30%) e determinando una redditività di gran lunga inferiore a quella realizzabile non poteva essere valutato unitamente alla gestione dei due anni precedenti, con conseguente compensazione con i migliori risultati conseguiti nei primi due anni, come sostenuto, invece, dalla banca.
Per converso, secondo la Corte di appello di Venezia – la quale, con la sentenza impugnata (depositata il 20.2.2006), in riforma della decisione di primo grado, ha rigettato la domanda – l’inesatta esecuzione del contratto deve riflettere l’attività del mandatario nel suo complesso e, alla luce di tale criterio, la gestione della banca convenuta, nel triennio 1990-1993, aveva determinato una redditività superiore di due punti percentuali a quella dei fondi comuni bilanciati, di quelli azionari e di quelli comuni. Una valutazione necessariamente complessiva del comportamento della banca nell’esecuzione del mandato non poteva risolversi «in termini negativi, quand’anche constatata, nel più ridotto lasso di tempo esaminato, una riduzione della componente azionaria della gestione, in controtendenza, rispetto alle scelte attuate da altri operatori professionali, nel corso di quell’anno».
1.1.- Contro la sentenza di appello BC e AR hanno proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la banca intimata.
Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c. le parti hanno depositato memoria.
Motivi della decisione
2.1.- Con il PRIMO MOTIVO i ricorrenti denunciano violazione dell’art. 112 c.p.c. e nullità della sentenza per aver omesso la corte di appello di valutare correttamente la censura con la quale si denunciava la mancata rispondenza della CTU al quesito sottoposto all’esame del consulente; censura “snaturata” ed intesa come critica all’impostazione del quesito.
2.1.1.- Il motivo è infondato perché appare evidente che la corte territoriale abbia ritenuto (correttamente)implicita nella censura all’operato del CTU la critica alla sentenza che tale consulenza aveva integralmente condiviso.
Sì che la sentenza impugnata pur fraintendendo i termini della censura articolata dall’appellante, non ha violato il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato perché in ogni caso era censurato l’operato del CTU), L’effetto devolutivo dell’appello entro i limiti dei motivi d’impugnazione preclude al giudice del gravame esclusivamente di estendere le sue statuizioni a punti che non siano compresi, neanche implicitamente, nel tema del dibattito esposto nei motivi d’impugnazione. Pertanto non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di appello che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero prenda in esame questioni non specificamente proposte dall’appellante le quali appaiono, tuttavia, nell’ambito della censura proposta, in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi costituendone un necessario antecedente logico e giuridico (Sez. 2, Sentenza n. 397 del 16/01/2002; Sez. 3, Sentenza n. 443 del 11/01/2011). Ciò, ovviamente, alla stregua del previgente testo dell’art. 342 c.p.c., applicabile ratione temporis.
2.2.- Con il SECONDO MOTIVO i ricorrenti denunciano violazione degli artt. 1176, 1218, 1467 e 1710 c.c., lamentando l’erronea affermazione che l’inesatto adempimento del mandato debba essere valutato con riferimento all’intero arco della sua esecuzione e non con riferimento al solo quarto trimestre del 1993.
2.2.1.- Il motivo è fondato.
La Corte di merito ha accolto l’appello della banca valorizzando il principio enunciato da questa Corte con la sentenza n. 426/00 la quale esclude la rilevanza dell’approvazione tacita delle singole operazioni.
Il principio, peraltro, non è stato correttamente applicato e ciò appare evidente alla luce della giurisprudenza successiva che ne ha chiarito l’ambito.
Giova, all’uopo, riportare integralmente le argomentazioni sviluppate di recente da questa Sezione (Sez. 1, Sentenza n. 24548 del 02/12/2010, in motivazione, § 4.1):
«Si può senz’altro convenire con la difesa della banca ricorrente sull’affermazione per la quale i rendiconti periodici inviati dal gestore di portafogli ai propri clienti non sono un mero riepilogo di dati storico-contabili, bensì dei veri e propri rendiconti di gestione. È quanto si ricava con assoluta chiarezza dalla normativa primaria e secondaria emanata (tanto all’epoca dei fatti di causa quanto successivamente) per disciplinare tali rendiconti. Da questa premessa non consegue però necessariamente che il cliente decada dal diritto di agire in responsabilità nei confronti del gestore qualora, con riferimento al periodo cui un determinato rendiconto si riferisce, non abbia contestato detto rendiconto entro un termine prefissato. Ovviamente il comportamento passivo del cliente, che al pari di quello del gestore dev’essere improntato a buona fede, potrà essere valutato dal giudice, nel contesto complessivo delle risultanze sottoposte al suo esame; ma nessun meccanismo di approvazione implicita del conto in conseguenza dell’omessa contestazione entro uno specifico termine è previsto dalla normativa di settore, né si può postulare un’applicazione analogica delle disposizioni dettate dall’art. 119 del testo unico bancario e dall’art. 1832 c.c., in tema di approvazione tacita degli estratti conto bancari, attesa la differenza di contenuto e di funzione tra questi ultimi ed i rendiconti di gestione dei quali qui si discute (per non dire, poi, che anche l’approvazione tacita del conto prevista da tali ultime norme è limitata alla conformità dei dati contabili alle singole operazioni da cui derivano e non implica un esonero generalizzato da responsabilità della banca verso il correntista).
Per completezza, va aggiunto che nemmeno gioverebbe tentare di far leva sulle disposizioni dettate dal codice in materia di mandato (disposizioni che la stessa difesa di parte ricorrente nega, d’altronde, siano qui invocabili), ed in specie sulla previsione di approvazione tacita dell’operato del mandatario, contemplata dall’art. 1712 c.c., comma 2, perché questa disposizione presuppone l’esecuzione già interamente avvenuta dell’incarico affidato al mandatario stesso, laddove la valutazione periodica di una gestione patrimoniale ancora in corso è cosa affatto diversa e, proprio per il suo carattere continuativo e perdurante nel tempo, il più delle volte mal si presta ad essere approvata per segmenti temporali (si veda, a quest’ultimo riguardo, Cass. 15 gennaio 2000, n. 426, che ha anche escluso la possibilità di applicare ad un mandato di gestione del patrimonio mobiliare la previsione del termine di dieci giorni (entro il quale occorreva contestare i conti di liquidazione in base all’art. 53 degli usi della borsa valori di Milano, vigenti al tempo dei fatti di quella causa). Non può d’altronde neppure trascurarsi che, se pure per certi aspetti avvicinabile al mandato, la prestazione del servizio d’investimento consistente nella gestione individuale di portafogli ha regole sue proprie – essenzialmente dettate dall’esigenza di fornire all’investitore un surplus di tutela, che si esprime anche nell’imposizione della forma scritta sin dalla stipulazione del contratto con le quali risulterebbe sistematicamente poco coerente ipotizzare un generale principio di approvazione tacita dei rendiconti periodici non contestati in un termine la cui durata, secondo la citata disposizione dell’art. 1712, troverebbe solo un assai vago riferimento nella natura degli affari o negli usi.
Tanto meno, poi, l’esistenza di un meccanismo legale di decadenza dipendente dalla mancata contestazione tempestiva dei rendiconti periodici di gestione inviati al cliente può essere desunta, come la ricorrente vorrebbe, da esigenze generali del sistema. La necessità per il gestore di portafogli di poter fare affidamento su un quadro di scelte d’investimento ben stabilizzato nel tempo non è argomento sufficiente a far postulare, a carico del cliente, una decadenza non prevista in modo esplicito ne’ univoco dal legislatore, anche perché altro è la stabilità delle scelte di gestione operate, pur se di per sè sempre relativamente opinabili, altro è l’eventuale violazione dei doveri gravanti sul gestore nell’adempimento degli obblighi che egli è tenuto a rispettare nell’interesse del cliente. La circostanza che sia mancata la rilevazione immediata di una siffatta violazione non implica, ovviamente, che il gestore possa legittimamente perseverare in essa, trattandosi di un fatto patologico che nulla ha a che fare con la durata nel tempo di strategie d’investimento fisiologicamente sviluppate. Se, dunque, a causa di detta violazione il cliente abbia subito un danno, il suo diritto a pretenderne il risarcimento è esercitatile fin quando non sia estinto per prescrizione».
3.- Alla luce di tali principi, dunque, se è vero che il rapporto in questione «proprio per il suo carattere continuativo e perdurante nel tempo, il più delle volte mal si presta ad essere approvata per segmenti temporali», tuttavia è anche vero che «la necessità per il gestore di portafogli di poter fare affidamento su un quadro di scelte d’investimento ben stabilizzato nel tempo non è argomento sufficiente a far postulare, a carico del cliente, una decadenza non prevista in modo esplicito ne’ univoco dal legislatore, anche perché altro è la stabilità delle scelte di gestione operate, pur se di per sè sempre relativamente opinabili, altro è l’eventuale violazione dei doveri gravanti sul gestore nell’adempimento degli obblighi che egli è tenuto a rispettare nell’interesse del cliente>>.
Pertanto, i principi enunciati da questa Corte non giustificano una valutazione “globale” della gestione, quasi a compensare perdite e guadagni, laddove ciò che conta è la persistenza del comportamento diligente del gestore. Sì che, se in un dato segmento temporale della gestione è dato rinvenire – come ritenuto dal Tribunale – un comportamento «gravemente colposo perché ispirato ad un criterio “prudenziale”, in violazione degli obblighi assunti, riducendo la quota azionaria dell’investimento (oscillante dal 3,21% al 13,47% a fronte del limite massimo stabilito del 30%) e determinando una redditività di gran lunga inferiore a quella realizzabile», non poteva, poi, la corte di appello valutare quel comportamento unitamente alla gestione dei due anni precedenti, con conseguente compensazione con i migliori risultati conseguiti nei primi due anni.
L’obbligo del gestore, come del resto dell’intermediario finanziario in generale, è di curare al meglio gli interessi del cliente (ciò era insito nell’art. 6 della legge 1/91, vigente al tempo dei fatti di causa, che prescriveva l’obbligo di comportarsi con diligenza, correttezza e professionalità nell’interesse del cliente). Ovviamente un tale dovere permane intatto per tutta la durata del rapporto. Il fatto, allora, che il gestore vi abbia fatto fronte molto bene in un certo arco di tempo, consentendo al cliente di realizzare i guadagni sperati, non implica certo che quell’obbligo cessi per il periodo successivo.
A prescindere dal precedente in tema di effetti giuridici dei rendiconti periodici, valorizzato dalla Corte di merito, l’argomento decisivo sta in ciò, che il guadagno pregresso non è un qualcosa che il cliente abbia lucrato al di là di quanto gli spettasse, e rispetto al quale si possa quindi operare una sorta di compensazione con i minori guadagni del periodo successivo. Il cliente ha diritto di pretendere in ogni momento che il gestore gli assicuri il miglior rendimento possibile, e nulla esclude che lo stesso gestore, dopo aver adempiuto correttamente da principio il proprio obbligo, in un momento successivo venga invece meno ai suoi doveri: il che ovviamente comporta il diritto del cliente al risarcimento dei danni dipendenti causalmente da tale inadempimento.
4.- In accoglimento del secondo motivo del ricorso, dunque, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione per nuovo esame alla luce dei principi innanzi enunciati sub § 3 e per il regolamento delle spese.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame e per il regolamento delle spese alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 17 gennaio 2014
Depositato in cancelleria il 24 febbraio 2014
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Numero Protocolo Interno : 233/2014