Il decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, ove non sia proposta opposizione, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda.
Cass. civ. Sez. III, Sent., Presidente VIVALDI – Relatore OLIVIERI sentenza n. 28318 del 28.11.2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso omissis/2015 proposto da:
DEBITORE
– RICORRENTE –
contro
CREDITORE
– CONTRORICORRENTE –
avverso la sentenza n. omissis/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 20/04/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/06/2017 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento con rinvio 1^ motivo e assorbiti gli altri;
udito l’Avvocato ANTONINO ROSSO;
udito l’Avvocato FILIPPO SCIUTO.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte d’appello di Milano, con sentenza in data 20.4.2015 n. 1691, confermava la decisione di prime cure che aveva dichiarato inammissibile, stante la preclusione determinata da precedente giudicato, l’opposizione, proposta da DEBITORE al Decreto Ingiuntivo n. omissis del 2010, emesso dal Tribunale di Milano a favore di CREDITORE, ed avente ad oggetto il credito vantato dalla società per premi insoluti relativi a polizza fidejussoria,
La società assicurativa, infatti, aveva ottenuto dal Giudice di Pace di Milano, e notificato allo stesso DEBITORE, precedente Decreto Ingiuntivo n. omissis del 2007, per pagamento dei premi relativi al periodo luglio 2005-luglio 2007, concernenti il medesimo rapporto di garanzia (polizza fidejussoria, prorogabile fino allo svincolo, rilasciata a favore della regione Piemonte a garanzia dell’adempimento delle obbligazioni cui era tenuto DITTA, contraente la polizza con assunzione solidale dell’obbligo di pagamento dei premi da parte di diversi coobbligati, tra i quali DEBITORE: tale provvedimento monitorio non era stato opposto nei termini di legge, e veniva, quindi, a coprire con efficacia di giudicato ogni questione attinente la validità ed efficacia del contratto di garanzia, che il DEBITORE aveva dedotto, per la prima volta, con l’atto di opposizione al successivo Decreto Ingiuntivo n. omissis del 2010, disconoscendo la propria firma apposta in calce all’Appendice di polizza.
La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione dal DEBITORE con due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..
Resiste la società assicurativa con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
PRIMO MOTIVO: VIOLAZIONE ART. 2909 C.C..
Sostiene il ricorrente che il Giudice di appello avrebbe violato i limiti oggettivi di efficacia del giudicato esterno in quanto i “petita” posti a base dei due Decreti Ingiuntivi erano diversi, nel primo venendo in questione un credito di Euro 2.267,72 relativo a premi di polizza dovuti nel periodo luglio 2005-luglio 2007; nel secondo invece un credito di Euro 6.399,63 concernente premi di polizza relativi al periodo luglio 2007-luglio 2010.
Il motivo investe i limiti della efficacia esterna del giudicato e, dunque, non essendo in questione la rilevazione o interpretazione del contenuto della decisione passata in giudicato, la questione prospettata si palesa correttamente come vizio di violazione di norma di diritto e non come vorrebbe la resistente come surrettizio e non più esistente (dopo la riforma del D.L. n. 83 del 2012 conv., in L. n. 134 del 2012) vizio di insufficienza logica motivazionale.
Tanto premesso il motivo è infondato.
In tema di efficacia oggettiva dell’accertamento contenuto nel decreto monitorio, non opposto nei termini di legge, con il quale è stata accolta integralmente o parzialmente la domanda di condanna proposta dal creditore con il ricorso dotato dei requisiti di cui all’art. 633 c.p.c., non vi è uniformità di vedute nella dottrina, opponendosi alla tesi di coloro che, argomentando dalla specialità della disciplina normativa del procedimento d’ingiunzione, ed in particolare dall’art. 640 c.p.c., comma 3, art. 647 c.p.c., comma 2 e art. 650 c.p.c., nonchè dalla assenza di un’analoga norma o di un espresso richiamo all’art. 2909 c.c. (come, invece, disposto dall’art. 702 quater c.p.c., in tema di procedimento sommario di cognizione) che impone un vincolo preclusivo assoluto (“l’accertamento…..fa stato ad ogni effetto tra le parti…”), ritengono che la incontestabilità che nasce dal provvedimento non opposto e “dichiarato esecutivo” abbia un contenuto ridotto (definito come preclusione “pro judicato” per distinguerlo dall’effetto di accertamento pieno “ob rem judicatam” previsto dall’art. 2909 c.c.), riferendosi, in sostanza, esclusivamente al “petitum” (e, dunque, debba ritenersi limitata al solo accertamento della esistenza e del quantum dell’intero credito o della frazione di credito azionato, senza tuttavia estendersi alle altre questioni che costituiscono il necessario presupposto-logico della pronuncia: in tal senso la definitività dell’accertamento coprirebbe soltanto il “dedotto” ma non anche il “deducibile”), alla tesi di quegli altri autori che, traggono dalla stessa disciplina normativa speciale del procedimento d’ingiunzione, ed in particolare dagli artt. 647, 650 e 656 c.p.c., oltre che dalla assenza di altre norme dell’ordinamento processuale ostative, argomenti a sostegno, invece, della piena equiparazione dell’efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c., dell’accertamento definitivo del diritto compiuto tanto in esito al procedimento monitorio, quanto in esito al processo ordinario o sommario di cognizione.
Evidenti le ricadute pratiche.
Nel primo caso l’oggetto del giudizio e conseguentemente la preclusione che opera nei giudizi successivi, attiene esclusivamente al bene della vita indicato nel ricorso monitorio (anche se il Giudice nel valutare la sufficiente giustificazione probatoria della pretesa abbia dovuto prendere in considerazione il titolo della stessa), con la conseguenza che, nel successivo giudizio ordinario od anche nel successivo procedimento d’ingiunzione, il creditore istante potrà azionare un diverso credito od anche una diversa frazione del medesimo credito (che non era stata richiesta e concessa con il precedente decreto monitorio, divenuto definitivo) derivante dal medesimo rapporto, non operando pertanto la preclusione “pro judicato” essendo diversi i “petita” (con riferimento all’elemento cronologico, come nel caso di distinte rate o di pagamenti dovuti in forma periodica; ovvero in relazione alla natura del credito, dipendente da quello principale: credito accessorio per interessi, credito risarcitorio per danno da ritardo); mentre il debitore che non si era opposto nel precedente procedimento, costituendosi nel giudizio ordinario di cognizione o proponendo opposizione al nuovo decreto monitorio, non incontrerà alcuna preclusione alla proposizione, per la prima volta, di eccezioni di merito attinenti la esistenza, validità ed efficacia del rapporto ossia del medesimo titolo posto a fondamento del credito o della parte di credito oggetto del precedente provvedimento ingiuntivo divenuto incontestabile.
Al contrario, il riconoscimento della piena equiparazione della efficacia di giudicato al decreto monitorio non opposto, ai sensi dell’art. 2909 c.c., viene ad estendere la efficacia preclusiva dell’accertamento, nei successivi giudizi proposti tra le stesse parti, anche alle questioni presupposte che sono state oggetto di accertamento implicito nel precedente procedimento d’ingiunzione, non essendo più consentito al debitore -convenuto ovvero opponente – nel successivo giudizio avente ad oggetto l’accertamento del diverso credito, porre in discussione la validità ed efficacia del medesimo rapporto in cui aveva trovato titolo il credito non opposto.
La prevalente giurisprudenza di legittimità, dopo un periodo iniziale nel quale sono coesistiti indirizzi contrastanti, che ripetevano le due principali tesi dottrinarie (A- per la tesi restrittiva: Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7400 del 08/08/1997; Sez. 3, Sentenza n. 18205 del 03/07/2008; id. Sez. L, Sentenza n. 23918 del 25/11/2010 che condiziona però la inefficacia del giudicato alla “mancanza (nel provvedimento monitorio) di esplicita motivazione sulle questioni di diritto”; id. Sez. L, Sentenza n. 6543 del 20/03/2014; B- per la tesi della piena equiparazione: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 11549 del 16/11/1998; id. Sez. 1, Sentenza n. 15178 del 24/11/2000; id. Sez. U, Sentenza n. 4510 del 01/03/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 6628 del 24/03/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 18725 del 06/09/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 18791 del 28/08/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 11360 del 11/05/2010), si è orientata – e così anche la maggior parte della dottrina – verso la tesi della piena efficacia di giudicato sostanziale del decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo per mancata opposizione proposta nel termine perentorio di legge.
Alla tendenza indicata hanno contribuito sia gli argomenti sviluppati a confutazione della tesi cd. restrittiva, sia l’evoluzione della teoria del giudicato implicito e della efficacia espansiva del giudicato in relazione a distinti diritti che trovano titolo in rapporti di durata o connotati da una esecuzione periodica delle prestazioni od ancora caratterizzati da taluni elementi costitutivi (che integrano presupposti legali o qualificazioni giuridiche invarianti che vengono a completare altre fattispecie) tendenzialmente permanenti, sia da ultimo la elaborazione della figura dell’ “abuso del diritto” con specifico riferimento all’abuso del (diritto di azione nel) processo.
Quanto al primo aspetto è stato determinante l’approfondimento inteso a ricollegare la efficacia di giudicato, intesa come stabilità dell’accertamento tra le parti degli effetti del rapporto giuridico, e funzionale pertanto a garantire la certezza del diritto, al presupposto della esistenza di un effettivo contraddittorio tra i soggetti, indicati nello stesso art. 2909 c.c., nei cui confronti l’accertamento esplica il vincolo di incontestabilità. E’ stato rilevato, al proposito, come la stessa peculiare struttura del procedimento d’ingiunzione, collocato tra i procedimenti sommari, impone di distinguere, proprio alla stregua del principio del contraddittorio, la “ratio legis” del differente trattamento riservato alla pronuncia di rigetto del ricorso monitorio, per difetto dei requisiti di ammissibilità o per “insufficiente giustificazione” probatoria (art. 640 c.p.c.), che non impedisce la riproposizione della domanda in sede ordinaria o monitoria (art. 640 c.p.c., comma 3), e alla pronuncia di accoglimento totale o parziale cui consegue la emissione del decreto ingiuntivo (art. 641 c.p.c.) che, in caso di mancata opposizione, determina l’effetto preclusivo del giudicato: nel primo caso, infatti, la pronuncia di rigetto viene emessa “inaudita altera parte” e non può esplicare effetti vincolanti tra le parti in quanto “la reiezione non è una pronunzia di accertamento negativo a favore del convenuto, non presente nel procedimento”; nel secondo caso, invece, dopo la notifica del decreto “l’intimato può provocare il contraddittorio con la opposizione e ottenere la reiezione della domanda”, venendo a combinarsi l’attività di valutazione delle prove rimessa al Giudice, con l’iniziativa del debitore posto comunque in grado di esercitare il proprio diritto di difesa in contraddittorio con il creditore istante, assumendo rilevanza ai fini della formazione del giudicato anche la scelta dell’intimato di non proporre opposizione, in quanto “per aversi cosa giudicata non è necessario il contraddittorio effettivo, bensì la provocazione a contraddire a una domanda giudiziale, che rappresenta la “condicio sine qua non” perchè il provvedimento di merito acquisti efficacia di cosa giudicata” (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 4510 del 01/03/2006).
In relazione agli altri due aspetti, strettamente connessi, appare utile considerare come le questioni dagli stessi coinvolte non attengono specificamente alla struttura normativa del procedimento sommario, quanto piuttosto la problematica di carattere generale della individuazione dell’oggetto del giudizio, sul quale viene a formarsi il giudicato.
La teoria del giudicato implicito, esaminata dalle Sezioni Unite di questa Corte con le note sentenze Sez. U, Sentenza n. 24883 del 09/10/2008 e Sez. U, Sentenza n. 26019 del 30/10/2008, con specifico riferimento all’accertamento implicito della questione pregiudiziale di giurisdizione, ha ricevuto un determinate contributo dall’arresto di Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 26242 e n. 26243 del 12/12/2014 che, riesaminando funditus la materia delle impugnative negoziali, ha tenuto ferma la nota distinzione delle questioni pregiudiziali che tali sono solo in senso logico (in quanto oggetto dello stesso accertamento che investe i fatti costitutivi della pretesa, dovendo quindi essere necessariamente decise “incidenter tantum”, e rimanendo coperte dal giudicato) e questioni pregiudiziali che invece tali sono in senso tecnico (in quanto attengono a fatti estranei alla fattispecie costituiva del diritto ma che ne costituiscono il presupposto giuridico, potendo costituire oggetto di autonomo giudizio, e che per essere decise con efficacia di giudicato abbisognano della espressa richiesta di parte ex art. 34 c.p.c.), ha statuito che nelle azioni ex contractu la questione relativa alla validità del contratto è sempre e comunque rilevabile ex officio dal Giudice, in quanto tale accertamento si rende indefettibile -indipendentemente dalla espressa richiesta di uno specifico accertamento in tal senso formulata eventualmente dalle parti in corso di giudizio a seguito della rilevazione officiosa- essendo funzionale alla realizzazione del valore di giustizia sostanziale sotteso alla struttura del processo come delineata alla stregua dei principi costituzionali ex artt. 24 e 111 Cost., orientata “verso una decisione tendenzialmente volta al definitivo consolidamento della situazione sostanziale direttamente o indirettamente dedotta in giudizio. Una decisione tendenzialmente caratterizzata da stabilità, certezza, affidabilità temporale, coniugate con valori di sistema della celerità e giustizia. Un sistema che eviti di trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito”. Con la conseguenza che – ad esclusione delle sole ipotesi in cui il Giudice pervenga al rigetto della domanda contrattuale in base alla “ragione più liquida” omettendo quindi deliberatamente l’esame dei presupposti di validità del contratto, ovvero senza fornire in motivazione inequivoche indicazioni sulla validità del contratto – l’accoglimento della domanda ex contractu (ovviamente diversa dalla azione dichiarativa della nullità del contratto) implica, sempre e comunque, l’accertamento con efficacia di giudicato della “non nullità del contratto”.
Alla teoria del giudicato implicito sulle questioni pregiudiziali si accompagna – per quanto è di interesse nel presente giudizio – l’affermazione della “vis espansiva” del giudicato su questioni preliminari di merito, in relazione a cause non sovrapponibili quanto all’oggetto per diversità del “petitum”. Il principio di diritto statuito da Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 13916 del 16/06/2006 – massimato dal CED di questa Corte – secondo cui “Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il “petitum” del primo”, è stato, infatti, declinato in relazione anche ai rapporti di durata, con riferimento alle obbligazioni scaturenti dagli stessi e concernenti un determinato periodo, venendo la Corte a distinguere – nella fattispecie normativa del diritto – i fatti che, in quanto dipendenti da fenomeni variabili nel tempo, richiedono per ogni diverso periodo un autonomo accertamento e sono quindi privi di efficacia preclusiva nei successivi giudizi (la intangibilità del loro accertamento si esaurisce nella singola pretesa oggetto del petitum di quel giudizio), e fatti, invece, che vengono ad assumere carattere tendenzialmente permanente (di regola inerenti a qualificazioni giuridiche della fattispecie che non subiscono mutamenti nel corso del rapporto), il cui accertamento pertanto assume rilevanza anche oltre il periodo di riferimento del singolo diritti oggetto di causa, espandendo la propria efficacia vincolante anche in altri giudizi aventi ad oggetto obbligazioni concernenti periodi diversi (cfr. Corte Cass. Sez. 5, Sentenza n. 24433 del 30/10/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 13498 del 01/07/2015; id. Sez. L, Sentenza n. 15493 del 23/07/2015).
Sulla questione dei limiti oggettivi del giudicato si innesta anche l’altro filone giurisprudenziale che investe la questione della “frazionabilità della pretesa” concernente il medesimo credito, ovvero concernente singoli crediti – della stessa o di diversa natura ma – tutti aventi titolo in un unico rapporto. Non occorre ripercorrere in questa sede il travagliato percorso della giurisprudenza di legittimità che, da un’originaria affermazione di ammissibilità statuita da Corte Cass. SU Sentenza 10/04/2000 n. 108, è poi pervenuta al “revirement” di Corte Cass. SU Sentenza 15/11/2007 n. 23726 che ha ridefinito il diritto di azione alla stregua del principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), nonchè del principio di correttezza e buona fede – da leggersi in conformità al dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. – che deve caratterizzare i rapporti tra le parti non solo al momento della costituzione e nel corso della fisiologica esecuzione del rapporto (artt. 1175 e 1375 c.c.), ma anche nella fase patologica dello stesso, qualificando come “abuso dello strumento processuale” il frazionamento delle domande giudiziali intese a frazionare il credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio (seguita da Corte Cass. SU Sentenza 22/12/2009 n. 26961 – che ha esteso il divieto di frazionamento anche al debitore dell’obbligazione restitutoria ex art. 2033 c.c. e da Corte Cass. SU Sentenza 10/08/2012 n. 14374 – relativa a plurimi crediti per corrispettivi maturati in relazione ad un unico rapporto professionale svoltosi continuativamente per un lungo periodo di tempo-, oltre che da numerose decisioni delle Sezioni semplici), per approdare infine alla recente Corte Cass. SU Sentenza 16/02/2017 n. 4090 che, escludendo la rinvenibilità nell’ordinamento processuale di un divieto (assistito dalla sanzione della improponibilità della domanda) di procedere in separati giudizi all’accertamento di singoli crediti facenti capo ad un medesimo rapporto, ha tuttavia evidenziato come lo stesso ordinamento processuale preveda strumenti intesi a sollecitare la trattazione unitaria delle cause, onde evitare la “duplicazione di attività istruttoria e decisoria, il rischio di giudicati contrastanti, la dispersione dinanzi a giudici diversi della conoscenza di una medesima vicenda sostanziale” (con conseguenti ricadute negative sulla effettività della tutela giurisdizionale, che trova attuazione nella durata ragionevole dei processi e nella stabilità dei rapporti e nella certezza del diritto), traendone la conseguenza che, la scelta del creditore di azionare, in separati giudizi, distinti diritti di credito che “oltre a far capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque fondati sul medesimo fatto costitutivo”, può giustificarsi soltanto nel caso in cui sussista “un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata”.
L’aspetto rilevante ai fini del presente giudizio, posto in luce dalle SS.UU. n. 4090/2017, è il passaggio implicito concernente l’ambito oggettivo di efficacia del giudicato del precedente giudizio relativo ad altro credito nascente dal medesimo rapporto e che trova chiara decifrazione nel caso concreto esaminato dalla sentenza che ha per l’appunto individuato, nell’ambito dell’unitario rapporto di lavoro, la differente sfera di accertamento riservato ai singoli diritti azionati nei separati processi (premio di fedeltà e TFR), in quanto fondati su distinti presupposti e titoli costitutivi (rispettivamente di fonte pattizia e di fonte legale), che ne escludevano la inscrivibilità nel medesimo ambito oggettivo del giudicato, il che comporta “a contrario” che va riconosciuta la estensione della efficacia di giudicato le volte in cui il fatto costitutivo sia lo stesso ed abbia costituito oggetto di accertamento esplicito od implicito nel precedente giudizio, rimanendo circoscritto l’accertamento oggetto del successivo giudizio a quei soli elementi del diritto di credito (maturazione in relazione alla eventuale controprestazione-, scadenza del termine di esigibilità, liquidazione del “quantum” – in relazione alla applicazione dei criteri di calcolo -) non coincidenti con i fatti costitutivi “invarianti” che integrano il medesimo presupposto logico-giuridico di entrambi i diritti azionati, in tal senso dovendo condividersi l’affermazione secondo cui la incontestabilità dell’accertamento contenuto nel decreto ingiuntivo non opposto non si estende ai fatti successivi al giudicato ed a quelli che comportino un mutamento del “petitum” (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 6628 del 24/03/2006).
Orbene dall’excursus degli orientamenti giurisprudenziali emersi e dalle conclusioni in essi raggiunte, trae conferma il principio di diritto – cui il Collegio intende aderire – secondo cui l’autorità del giudicato spiega i suoi effetti non solo sulla pronuncia esplicita della decisione, ma anche sulle ragioni che ne costituiscono, sia pure implicitamente, il presupposto logico-giuridico, e che trova applicazione anche in riferimento al decreto ingiuntivo di condanna al pagamento di una somma di denaro, il quale, ove non sia proposta opposizione, acquista efficacia di giudicato non solo in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda (cfr. ex plurimis: Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 18725 del 06/09/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 18791 del 28/08/2009, in motivazione).
Può dunque risolversi la questione di diritto enucleata con il motivo di ricorso in esame, che deve ritenersi infondato, dovendo riconoscersi conforme a diritto la decisione impugnata che ha ritenuto precluso dal vincolo del giudicato sostanziale formatosi (per mancata opposizione al decreto monitorio n. omissis/2007 emesso dal Giudice di Pace di Milano, relativo al credito di Euro 2.267,72 per pagamento premi assicurativi relativi al periodo 28.7.2005 fino al 28.7.2007) sulla esistenza e validità del titolo costituivo del rapporto (garanzia fidejussoria prestata dal DEBITORE, avente ad oggetto il pagamento da parte di DITTA dei supplementi di premio relativi alla polizza fidejussoria rilasciata da CREDITORE. a favore della regione Piemonte), il successivo accertamento richiesto dal debitore – con l’atto di opposizione al Decreto Ingiuntivo n. 12980 del 2010, emesso dal Tribunale di Milano relativo all’importo di Euro 6.399,63 e concernente analogo credito per premi assicurativi maturati nel periodo 28.7.2007 fino al 28.7.2010 – che ha contestato il medesimo titolo negoziale (garanzia fidejussoria) disconoscendo per la prima volta la propria sottoscrizione apposta nell’Appendice di coobbligazione alla polizza n. (OMISSIS).
SECONDO MOTIVO: VIOLAZIONE ARTT. 350 E 356 C.P.C.; OMESSA O CONTRADDITTORIA MOTIVAZIONE.
Il ricorrente censura la sentenza di appello sostenendo che la Corte territoriale avrebbe illegittimamente omesso di pronunciarsi in ordine alle istanze istruttorie rigettate dal Giudice di prime cure e riproposte con l’atto di appello.
Premesso che la vicenda processuale non appare descritta nel ricorso in modo perspicuo, atteso che il DEBITORE, onde privare di efficacia probatoria il titolo, avrebbe dovuto disconoscere formalmente in giudizio la sottoscrizione apposta nel documento prodotto da CREDITORE, mentre da quanto riferiscono le parti, il disconoscimento non sarebbe stato effettuato con l’atto di opposizione, ma solo tardivamente – ed in quanto tale ritenuto improduttivo di effetti dal Tribunale – e la società assicurativa opposta, soltanto per tuziorismo, avrebbe formulato in comparsa di risposta istanza di verificazione ex art. 216 c.p.c., sicchè appare quanto meno curioso che, con il motivo di ricorso, il DEBITORE si dolga del mancato esame ed ammissione, da parte della Corte territoriale, della istanza di verificazione proposta da CREDITORE, ebbene ciò premesso la doglianza (che attiene anche al mancato esame da parte dei Giudici di appello della prova orale formulata su due capitoli concernenti la dimostrazione che il debitore non era presente il giorno in cui sarebbe stata sottoscritta la polizza) si palesa manifestamente infondata atteso che, la preclusione del vincolo di giudicato, rilevata dalla Corte d’appello rendeva irrilevante e dunque esonerava il Giudice di merito dall’esame delle istanze istruttorie, in quanto rivolte inammissibilmente a contestare la esistenza e validità della garanzia fidejussoria e cioè il titolo costitutivo del credito reso ormai intangibile dal giudicato.
Non appare pertinente, pertanto, il richiamo del ricorrente al precedente di Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11460 del 17/05/2007, secondo cui “la fattispecie del riconoscimento tacito della scrittura privata, secondo il modello previsto dall’art. 215 c.p.c., opera esclusivamente nel processo in cui essa viene a realizzarsi, esaurendo i suoi effetti nell’ammissione della scrittura come mezzo di prova, con la conseguenza che la parte interessata, qualora il documento sia prodotto in altro giudizio per farne derivare effetti diversi, può legittimamente disconoscerlo, non operando al riguardo alcuna preclusione”.
L’enunciato principio, infatti, opera eminentemente sul piano della efficacia dei mezzi di prova, ed è insuscettibile di riverberarsi, pertanto, sul diverso piano degli effetti preclusivi del giudicato. Lo schema processuale del disconoscimento/riconoscimento tacito ex artt. 214 e 215 c.p.c., diretto a formare la presunzione legale di riconoscimento ovvero a privare di efficacia probatoria la scrittura prodotta in giudizio, è funzionale invero all’accertamento dei fatti costitutivi del rapporto controverso: ne segue che, una volta accertati tali fatti – alla stregua della disciplina processuale richiamata – e divenuto intangibile per forza di giudicato detto accertamento, con effetto preclusivo di un nuovo e diverso accertamento nel successivo giudizio tra le stesse parti, appare evidente come rimanga inibito alla parte di contestare – attraverso il meccanismo del disconoscimento – nel successivo giudizio, quegli stessi fatti sui quali ormai si è formato il giudicato.
In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 12 giugno 2017.
Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2017
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