In ogni operazione di swap esiste un margine lordo implicito a favore della banca, che è costituito, da un lato, dalle condizioni più favorevoli che la stessa spunta sul mercato per concludere il contratto di segno contrario, e, dall’altro, dalla copertura del rischio di credito e dei costi operativi.
Tale margine lordo di intermediazione non comporta, né al momento della conclusione dello swap né durante la sua vigenza, un esborso a favore dell’istituto di credito da parte del cliente ma consiste nella differenza tra il valore corrente (c.d. fair value) del contratto al momento della sua rilevazione e il fair value di analogo contratto stipulato, a condizioni praticate sul mercato, con soggetti terzi; peraltro, alla stipulazione del contratto, il mark to market è solo astrattamente nullo mentre di fatto è normalmente positivo per la banca, risentendo del predetto margine lordo.
Solo nel caso in cui il contratto di swap giunga alla sua naturale scadenza o venga risolto anticipatamente il cliente è tenuto a corrispondere all’istituto di credito il c.d. costo di uscita del derivato, comprensivo anche del margine di intermediazione. L’entità di questa voce è tanto maggiore quanto più elevato è il numero delle rinegoziazioni che il contratto di swap abbia subito poiché, in occasione di ciascuna di esse, la banca effettua delle operazioni di ricopertura, con le caratteristiche sopra descritte, maturando in relazione a ciascuna di esse un margine di intermediazione, dato dalla differenza tra il mark to market e la somma riconosciuta al cliente a titolo di up front.
Questi i principi espressi dal Tribunale di Verona, Giudice Massimo Vaccari con la sentenza n. 1660 del 23.06.2017.
Nella fattispecie esaminata una società investitrice conveniva in giudizio la Banca al fine di far accertare la nullità, per difetto di causa, di quattro contratti di swap conclusi tra il 2003 e il 2006 con la convenuta, proponendo altresì domanda di risoluzione in relazione ad uno dei contratti conclusi, sul presupposto della violazione da parte dei funzionari della convenuta degli obblighi comportamentali prescritti dalla vigente normativa, ed infine denunciando l’applicazione di cd. costi impliciti.
Si costituiva in giudizio la Banca convenuta contestando le avverse deduzioni, rilevando in particolare di non essere stata tenuta ad osservare le norme che prevedono obblighi comportamentali a carico dell’intermediario richiamate da controparte, dal momento che il legale rappresentate della società attrice in ben sei occasioni aveva rilasciato la dichiarazione di essere operatore qualificato e in tre di esse con atto distinto dal contratto di swap.
Quanto all’asserita applicazione da parte dell’intermediario di costi non dichiarati, il Tribunale ha rilevato che ogni operazione in materia di contratti derivati deve necessariamente contenere un margine di “remunerazione” per la banca derivante dalla conclusione di un contratto derivato di segno opposto a quello concluso con il cliente; tale margine però non si traduce in un esborso a carico del cliente, motivo per il quale non si configura in tale tipologia contrattuale l’applicazione di cd. costi impliciti.
In merito alle doglianze attoree in punto di nullità per difetto di causa, il Giudice ha rilevato che nei contratti di swap, la causa è data dallo scambio di flussi finanziari in base alla variazione dei tassi che determina, come conseguenza, lo scambio reciproco dei rischi commerciali, elemento esprime la natura intrinsecamente aleatoria del contratto; pertanto la mancanza di alea bilaterale, non potrebbe neanche astrattamente determinare la nullità negoziale per difetto di causa.
Quanto infine, alle asserite violazioni delle regole comportamentali poste in essere dalla Banca, il Giudicante ha ancora una volta disatteso le prospettazioni dell’attrice rilevando che il legale rappresentante della stessa al momento della conclusione dei contratti aveva dichiarato di “possedere una specifica competenza ed esperienza in materia di operazioni in strumenti finanziari” nonché di essere consapevole delle conseguenze di tale dichiarazione, con conseguente applicazione della disciplina derogatoria dell’art. 31 reg. Consob 11522/98.
Sul punto il Magistrato, uniformandosi a precedente giurisprudenza di legittimità, ha chiarito che la dichiarazione resa dall’investitore di essere “operatore qualificato” esonera l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche sul punto e che l’inefficacia di tale dichiarazione deve essere specificamente dimostrata dalla parte che intende avvalersene, ben potendo il Giudice, in carenza di contrarie allegazioni, porre ai sensi dell’art. 116 c.p.c. anche solo essa a base della propria decisione ai fini della verifica dell’esistenza della competenza ed esperienza dell’investitore.
Sulla scorta di tali rilievi il Tribunale ha dunque rigettato integralmente le domande spiegate dall’investitrice, condannandola altresì al pagamento delle spese di lite.
IL COMMENTO
Ogni operazione in materia di contratti derivati deve necessariamente contenere un margine di “remunerazione” per la banca costituito appunto dalle condizioni più favorevoli che la stessa ottiene sul mercato parallelo concludendo il contratto derivato di segno opposto a quello con il cliente, e dalla copertura del rischio di credito e dei costi operativi. Detto margine però non si traduce in un esborso a carico del cliente (né alla stipula del contratto né in corso di durata), ma consiste nella differenza tra il fair value del contratto al momento della sua rilevazione e il fair value di analogo contratto stipulato, a condizioni praticate sul mercato, con soggetti terzi.
Per questo motivo quindi alla stipulazione del contratto il mark to market è solo astrattamente nullo, mentre in realtà è positivo per la banca, in quanto influenzato proprio dal predetto margine.
Pertanto il divario tra prezzo teorico (fair price) del derivato e prezzo realmente praticato dalla banca al cliente non è immediatamente definibile in termini di mispricing in quanto una parte del valore teorico del derivato è resa necessaria, come detto, per via dell’intrinseco margine lordo che l’operazione deve avere per poter esistere. In questo senso incidono dunque (i) la c.d. market charge, che copre il costo dell’attività di intermediazione e di hedging del rischio di mercato; (ii) la c.d. credit charge, che, in assenza di altri meccanismi di garanzia quali la collateralization, copre il rischio di credito connesso con l’operazione e gravante sulla parte avente il miglior merito creditizio (in genere ovviamente la banca); (iii) infine un ragionevole “profitto” parametrato al rischio dell’operazione.
Del resto una banca che non voglia deviare dai principi di sana e prudente gestione, non potrà mai corrispondere un importo pari al valore teorico del derivato, dato che appunto deve come minimo coprire i rischi di credito e di mercato connaturati con l’operazione stessa.
Ovviamente, precisa ancora il Tribunale di Verona, l’entità del margine lordo è tanto maggiore quanto più elevato è il numero delle rinegoziazioni (e quindi l’aumento del rischio) che il contratto di swap subisca. In occasione di ciascuna rinegoziazione, infatti, la banca effettua delle operazioni di ricopertura sempre maggiori perché finalizzate a coprire anche il valore negativo assunto dal contratto sostituito al momento della sua anticipata chiusura e sostituzione con un nuovo contratto. In tal caso la banca matura in relazione a ciascuna rinegoziazione un ulteriore margine di intermediazione, dato dalla differenza tra il mark to market e la somma riconosciuta al cliente a titolo di up front sul nuovo contratto di volta in volta sostituito.
Secondo il Tribunale scaligero ne conseguirebbe dunque che il cliente che intende contestare alla banca la presenza implicita di un margine lordo a favore di quest’ultima sarebbe tenuto a formulare una domanda di condanna della convenuta al pagamento di una somma diretta a riequilibrare il profilo economico dell’operazione contestata, così da ridurre il margine lordo a favore della stessa; ma una simile domanda postulerebbe la volontà di mantenere in essere il contratto, se ancora in vigore, o comunque di trarre vantaggio da esso confermandone quindi l’adeguatezza, ove già estinto. Pertanto una siffatta domanda risulterebbe essere inconciliabile ed in contrasto con tutte le domande caducatorie come quelle di nullità e/o annullamento.
Nel decidere la controversia il Giudice di Verona ha affrontato anche altri aspetti oggetto di contestazione da parte del clienti che solitamente vengono contestati nel contenzioso in materia di contratti derivati e in relazione ai quali, possiamo dire finalmente, sono stati messi dalla giurisprudenza dei punti fermi.
Anzitutto la causa dello swap, costituita dallo scambio di flussi finanziari in base alla variazione dei tassi; mentre invece lo scambio reciproco dei rischi commerciali (che è soltanto la conseguenza della variazione predetta) è un elemento esterno al negozio e ne connota la natura tendenzialmente aleatoria ed economicamente incerta per le parti contraenti. Pertanto solamente la totale assenza di alea può determinare invalidità del contratto per difetto di causa, mentre invece il semplice squilibrio dell’alea a favore dell’una o dell’altra parte non genera alcuna invalidità.
Anche la dichiarazione di ‘operatore qualificato’ ex art. 31 reg. Consob 11522/98 è un altro tema ancora oggi fortemente dibattuto e contestato. Il Tribunale di Verona ha applicato al caso in commento l’insegnamento ormai consolidato della S.C. (Cass. n. 12138/2009). Viene pertanto ribadito che la dichiarazione ex art. 31 reg. cit. rilasciata dal cliente alla banca, pur non costituendo dichiarazione confessoria, in quanto volta alla formulazione di un giudizio e non alla affermazione di scienza e verità di un fatto obbiettivo, esonera l’intermediario dall’obbligo di ulteriori verifiche sul punto in carenza di contrarie allegazioni specificamente dedotte e dimostrate dalla parte interessata.
Il giudice, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., può porre detta dichiarazione alla base della propria decisione, ai fini della verifica dell’esistenza della competenza ed esperienza dell’investitore che l’ha rilasciata.
Come noto, grava invece su chi detta discordanza intende dedurre, al fine di escludere in concreto la propria competenza ed esperienza in materia di operazioni finanziarie, l’onere di dimostrare circostanze specifiche dalle quali desumere la mancanza di detti requisiti e, non solo, la conoscenza da parte dell’intermediario delle circostanze medesime, o almeno la loro conoscibilità in base ad elementi obiettivi di riscontro, già nella disponibilità dell’intermediario stesso o a lui risultanti dalla documentazione prodotta dal cliente.
Infine, anche gli obblighi comportamentali specifici della banca non possono poi essere fatti discendere dalla norma generale dell’art. 21 TUF, ponendo così di fatto nel nulla la dichiarazione ex art. 31 reg. Consob. Per la serie, non può essere fatto rientrare dalla finestra ciò che è uscito dalla porta. Non va infatti dimenticato che l’art. 31 reg. cit. costituisce applicazione dell’art. 6 del d.lgs. 58/1998 che, a sua volta, ha dato attuazione alla direttiva 93/22/CEE del 10 maggio 1993, relativa ai servizi di investimento nel settore dei valori mobiliari. Quest’ultimo provvedimento, come chiarito dalla già citata sentenza n. 12138/2009 della S.C., nel fare riferimento all’opportunità di tener conto delle esigenze di tutele differenziate delle possibili diverse categorie di investitori, riconosceva al legislatore nazionale un certo margine di discrezionalità circa i parametri da utilizzare per l’individuazione delle categorie per le quali attuare forme di tutela differenziate. Il legislatore nazionale, nell’esercizio della predetta discrezionalità, ha inserito tra le categorie di soggetti sottratti agli obblighi di cui agli artt. 27, 28, e 29 reg. Consob, che costituiscono una specificazione dei criteri generali di cui all’art. 21 TUF e delle regole di comportamento fissate dall’art. 26 reg. Consob, anche le società e persone giuridiche che rilascino la dichiarazione autoreferenziale.
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