ISSN 2385-1376
Testo massima
Nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense, la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, essendo, invece, sufficiente che l’incolpato, con la lettura dell’incolpazione, sia posto in grado di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi rispetto a quelli ascrittigli.
Questo il principio affermato dalla Cassazione Civile, Sezioni Unite, Pres. Santacroce Rel. Giusti, con la sentenza n. 21948 del 28.10.2015.
Il caso di specie traeva origine da quanto accaduto presso il Tribunale di Siena, laddove la Cancelleria delle Esecuzioni denunciava al locale Ordine degli Avvocati l’intasamento dell’Ufficio per la mole smisurata dei procedimenti di pignoramento presso terzi introdotti da alcuni legali campani, che agivano per alcuni loro clienti medici convenzionati e farmacisti nei confronti della ASL di Salerno e della banca in qualità di suo tesoriere. Per effetto di tale denuncia, il consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siena, apriva un procedimento disciplinare per violazione dell’art. 49 del Codice Deontologico, nei confronti di uno di detti avvocati per aver, in pratica, quest’ultimo abusato del processo attraverso l’introduzione di plurime iniziative giudiziali aggravative della situazione debitoria della ASL senza una effettiva ragione di tutela.
Il tema è quello della violazione dell’art. 49 del Codice Deontologico, ma, più in generale, riguarda il c.d. abuso del processo, di cui manca una definizione nel nostro Ordinamento, assistendosi in dottrina e giurisprudenza alla tendenza di considerarlo quale proiezione dell’abuso del diritto; figura, questa, ravvisabile (v. Cass. 2106/2009) “quando nel collegamento tra il potere conferito al soggetto ed il suo atto di esercizio, risulta alterata la funzione obiettiva dell’atto rispetto al potere che lo prevede“.
Viene in rilievo, nella fattispecie de qua, l’ulteriore problematica attinente alla compatibilità/prevalenza di due principi cardine, di rilevanza costituzionale: da una parte il diritto all’azione e, dall’altra, quello del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Insomma, alla luce del divieto dell’abuso del processo/diritto, quel criterio che impone alle parti processuali di comportarsi secondo le regole della correttezza e buona fede, predicabili senz’altro in virtù dei principi di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), poteva l’avvocato: 1) richiedere, per conto del cliente, una pluralità di ingiunzioni per ragioni creditorie in tutto analoghe fra loro, riferite a crediti maturati in un ristretto lasso di tempo?; 2) procedere per conto dello stesso cliente a plurimi atti di intervento per fatture autenticate emesse in un arco temporale ristrettissimo, ovvero per decreti ingiuntivi ottenuti contestualmente o in breve arco di tempo, ottenendo per ciascuno di essi la liquidazione delle spese consequenziali?
No, secondo il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siena, tant’è che, avendo individuato “nel comportamento dell’avvocato un utilizzo strumentale e distorto delle procedure, moltiplicate senza plausibili ragioni giustificative, ben potendo le varie domande essere raggruppate in un unico atto“, irrogava la rilevante sanzione disciplinare di due mesi di sospensione.
La decisione veniva appellata innanzi al CNF, il quale riduceva la sanzione alla censura. Ciò poiché, per quanto riguarda la evidenza sub 1), vi erano effettive ragioni di tutela delle parti assistite, rappresentate dalla periodicità dei pagamenti dovuti dall’Ente e dalla necessità dei clienti farmacisti e medici convenzionati, di far fronte alle spese per erogare i servizi agli utenti e, quindi, non potendosi ritenere scorrette, sul piano disciplinare, le plurime iniziative giudiziali, in ragione della necessità di disporre immediatamente delle somme dovute dall’Ente.
La questione giungeva in Cassazione, sostenendo l’avvocato ricorrente, tra le altre cose, che il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati avesse posto alla base della propria decisione, quella con cui era stata dichiarata la responsabilità disciplinare, la circostanza del deposito dei plurimi atti di intervento che rappresentava, invece, una ipotesi di illecito disciplinare ulteriore rispetto a quella originariamente contestata (vedasi supra ipotesi sub 2).
Orbene, la Corte di Cassazione, enunciando il principio suddetto, ha confermato le valutazioni del CNF presso cui era stata impugnata la sentenza del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Siena, precisando, in buona sostanza, che il thema decidendum comprendeva, fin dalla formulazione del capo di incolpazione, quelle condotte rispetto alle quali era stato dedotto il contrasto tra contestato e decisione.
Ed, invero, la incolpazione, secondo la Suprema Corte, si riferiva alla violazione dell’art. 49 Codice Deontologico ed aveva avuto ad oggetto proprio l’aggravamento della situazione debitoria della ASL, realizzato con plurimi atti di intervento (ipotesi sub 2), dovendosi pertanto escludere la denunciata incertezza, essendo chiaramente conoscibile, per l’incolpato, l’addebito oggetto di contestazione, “formulato con menzione circostanziata dei fatti integranti l’illecito, non essendo certo richiesto che la contestazione disciplinare contenesse anche il numero di iscrizione a ruolo del procedimento esecutivo o dei procedimenti esecutivi nei quali le esposte condotte sono state poste in essere“.
All’enunciato principio di diritto si era attenuta la sentenza impugnata, la quale, con adeguata argomentazione, ragion per cui la Cassazione ha rigettato il ricorso.
Testo del provvedimento
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