È nullo, perché non rivestito della forma dell’atto pubblico, l’accordo, raggiunto dai coniugi in sede di separazione consensuale e omologato dal Tribunale, di risolvere una donazione che un coniuge aveva effettuato in passato a favore dell’altro.
E’ il principio stabilito dalla Corte di Cassazione, sez. I, Pres. Bisogni Rel. Scalia nell’ordinanza n. 5937 del 03/03/2020.
In particolare, la Corte ha affrontato una questione, già dibattuta in dottrina e giurisprudenza, in tema di validità dei patti conclusi in sede di separazione.
Nella specie, uno dei due coniugi parti della controversia aveva effettuato una donazione nei confronti dell’altro e, in sede di separazione consensuale, tra i due veniva pattuito che tali diritti venissero ritrasferiti all’originario proprietario, in ragione di una “risoluzione di donazione per mutuo consenso”.
Pertanto, dinanzi a tale inadempimento, il marito-originario proprietario adiva il Tribunale per ottenere il soddisfacimento dei propri diritti; la moglie- donataria, dal canto suo, resisteva affermando la mancanza del suo obbligo a prestare il consenso circa il ritrasferimento dell’immobile, data l’invalidità della scrittura di risoluzione della donazione prodotta in sede di separazione consensuale, mancante della forma pubblica ex art. 1351 c.c.
Il marito ricorreva per Cassazione.
Preliminarmente, riguardo la natura delle convenzioni stipulate tra i coniugi, l’accordo di separazione coniugale, contenente attribuzioni patrimoniali da parte di un coniuge nei confronti dell’altro ha una sua propria tipicità e trova giustificazione causale nella volontà di dare una sistemazione ai rapporti patrimoniali in occasione della sospensione del vincolo matrimoniale.
E, pertanto, tali patti sfuggono ad una precisa categorizzazione aprioristica e connotazione in termini di donazione o di compravendita,
Orbene, venendo alla problematica concernente la validità di tali accordi ove intendano risolvere una donazione effettuata in costanza di matrimonio, la Corte ha affermato che nel nostro ordinamento vige il principio di “simmetria delle forme”, in virtù del quale un negozio accessorio-quale appunto la risoluzione- deve avere, a pena di nullità, la stessa forma di quello principale.
Esso, pur non trovando una specifica positivizzazione, viene dedotto dalla lettera dell’art. 1351 c.c. che, in tema di contratto preliminare, impone che esso abbia, pena la sua invalidità, la stessa forma del definitivo.
Nel caso di specie, quindi, considerato che il negozio accessorio-contratto risolutivo non rivestiva la stessa forma pubblica del negozio principale-donazione, che deve essere stipulata con atto pubblico a pena di invalidità ai sensi dell’art. 782 c.c. l’accordo di cui è causa non può considerarsi valido.
Pertanto, non potendo l’accordo di separazione essere portato ad esecuzione coattiva, costringendo la moglie donataria alla retrocessione dei diritti immobiliari già trasferitile, la Corte rigettava il ricorso con condanna alle spese.
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