ISSN 2385-1376
Testo massima
Un’altra pronuncia, la n.16684 del 03.07.2013, rafforza il nuovo orientamento in seno alle corti tributarie, secondo il quale il contestato abuso del diritto può essere avallato dal giudice tributario solo qualora la censura mossa dall’ufficio finanziario venga adeguatamente motivata ed individui con precisione l’indebito risparmio d’imposta.
Il caso sottoposto all’attenzione del Supremo Collegio è un classico: un’azienda aveva proceduto ad una serie di cessioni di beni a favore di un’altra, svuotando la prima di ogni asset, ed effettuando, di fatto, una cessione di ramo di azienda (la quale, come noto, sconta in luogo dell’ IVA su ogni bene oggetto della cessione, l’imposta di registro del 3% sul valore corrente dell’azienda o sul valore venale in comune commercio): l’ Agenzia impugnava queste cessioni sull’assunto che gli elementi fattuali acquisiti al processo dimostravano che le cessioni, susseguitesi nel tempo, erano avvenute nell’ambito di un programma coerente di dismissione di attività, attuato per fasi distinte, ma tutte confluenti nel fine ultimo di trasferire l’intera azienda, per cui doveva essere ripreso a tassazione il valore dell’avviamento, ed inoltre tale qualificazione da parte dell’Ufficio sarebbe stata pienamente legittima sulla scorta dell’art.37 bis del DPR 600/73. Sia la CTP che la CTR propendevano a favore dell’ Ufficio.
Decisione favorevole al ricorrente invece quella propugnata dalla Cassazione, la quale, seppur affermando che è innegabile il fatto che nel nostro ordinamento esista un principio generale antielusivo previsto dall’art.37 bis del dpr 600/73, ha al contempo sancito che per la dimostrazione dell’elusività dell’operazione, debbono essere addotte dall’Agenzia delle precise e convincenti motivazioni e sull’indebito risparmio d’imposta, e sul fatto che questo sia stato l’unico motivo dell’operazione (detto altrimenti: deve essere dimostrata la tesi dell’inesistenza di valide ragioni economiche ai fini dell’operazione). Ragion per cui, la sentenza dei giudici regionali è da cassare, viste le scarne argomentazioni logico-giuridiche con le quali essi avallano l’operato dell’Agenzia.
Sentenza questa che, così come la recente pronuncia sul merito della CTP di Reggio Emilia, n.140/03/13 dello scorso 12 giugno, si pone scientemente in aperto contrasto con la giurisprudenza maggioritaria, “sfidando” niente meno che le Sezioni Unite della Suprema Corte (sent.30055 del 31.12.2008), e confermando il nuovo (e del tutto condivisibile) trend dei giudici tributari (sia di merito che di legittimità) di non condividere le censure mosse dall’Agenzia, qualora questa, con motivazioni del tutto scarne e pretestuose, vada a sindacare, con un uso quanto meno “disinvolto” dell’ art.37 bis, quelle operazioni che ancorchè del tutto lecite e consentite dall’ordinamento, portino ad un (altrettanto lecito) risparmio d’imposta.
Testo del provvedimento
CORTE DI CASSAZIONE
Sentenza 03 luglio 2013, n. 16684
Svolgimento del processo
P. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, ricorre per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo-sezione distaccata di Pescara (n. 127/09/05 depositata il 17.11.2005) che in riforma della sentenza di primo grado ed in accoglimento dell’appello dell’Ufficio-ebbe a disporre la deduzione della minusvalenza nella misura determinata in sede di verifica ed a confermare, per il resto, l’accertamento. Tale accertamento era conseguito da verifica fiscale effettuata da funzionari della Direzione Regionale delle Entrate per l’Abruzzo nella sede della BETA s.p.a. I verificatori accertarono che la società A. (
) s.p.a. aveva affidato la produzione di pompe ad acqua per motori a combustione alla BETA SPA mantenendo per sé la commercializzazione dei prodotti (che successivamente verrà anch’essa trasferita) unitamente alla possibilità di costruire i prodotti per una durata di cinque anni e con diritto di opzione, in caso dì acquisto, pari al 6% del fatturato annuo. Inoltre dall’esame della documentazione sociale ed, in particolare, dalla relazione degli amministratori al bilancio era emerso che l’affidamento della produzione era avvenuto attraverso una serie di cessioni dei macchinari, delle attrezzature, della commercializzazione dei prodotti e dell’approvvigionamento dei materiali, del Know how, del residuo del magazzino, del personale che, secondo la valutazione dei verbalizzanti, concretavano la cessione del ramo di azienda precedentemente acquisito dalla A. da potere della Piaggio.
Qualificati i singoli trasferimenti quale cessione di ramo di azienda i verificatori avevano proceduto a calcolare il valore della cessione ai fini dell’imposta dei redditi e ai fini dell’imposta di registro relative all’atto di cessione fissandone la data al 1.1.2005 (coincidente con la cessazione da parte di A. dell’attività relativa alla produzione delle pompe d’acqua). Quanto al valore della cessione i verificatori rilevavano che era stato pattuito in caso di acquisto un minimo garantito di lire 1.100.000.000 per cinque anni e che, nella relazione al bilancio, A. aveva continuato l’ammortamento dell’avviamento per lire 1.250.000.000. Ne conseguiva avviso di accertamento per l’esercizio 1.10.1994 30.9.1995, ai sensi dell’art. 39 1 comma lett. d d.p.r. 600/1973, con un maggior reddito di impresa di lire 1.250.000.000 per quota di ammortamento indeducibile.
Investita dall’appello, la Commissione Tributaria Regionale ha, preliminarmente ritenuto valida e legittima la notificazione dell’avviso di accertamento al legale rappresentante della A. s.p.a. ed infondata l’eccezione di nullità dell’avviso per mancanza di motivazione in quanto il processo verbale di constatazione era richiamato nei predetto avviso ed era, comunque, conosciuto, dal procuratore della A. s.p.a.
Nel merito della controversia, attinente alla qualificazione operata dall’Ufficio di una serie di cessioni di beni quale cessione di ramo di azienda, la C.T.R. ha motivato che gli elementi fattuali acquisiti al processo dimostravano che le cessioni, susseguitesi nel tempo, erano avvenute nell’ambito di un programma coerente di dismissione di attività, attuato per fasi distinte, ma tutte confluenti nel fine ultimo di trasferire l’intera azienda il cui momento attuativo poteva individuarsi nell’esercizio 1995 e che tale qualificazione da parte dell’Ufficio era pienamente legittima a ciò non ostando la circostanza che l’art.37 bis del dpr 600/73 fosse stato introdotto successivamente alla data dell’accertamento. Infine, la Commissione Tributaria Regionale rigettava la richiesta dell’appellata di dichiarare non dovute le sanzioni non sussistendo, nella specie, incertezza obiettiva sulla portata e sull’ambito applicativo delle norme.
Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso affidato a tre motivi P. s.p.a. (incorporante per fusione A. s.p.a.) successivamente illustrati con memoria depositata ex art.378 cpc. Ha resistito Agenzia delle Entrate con controricorso.
Diritto
1. Con il PRIMO motivo di ricorso, articolato ai sensi dell’art.360 n.3, 4 e 5 cpc, si deduce violazione o falsa applicazione degli artt.138, 139, 140, 141, 145, 148, 156, 157, 160 cpc, art.2504 bis cc, artt.43, 60 e 65 dpr 600/1973 nullità della sentenza o del procedimento omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto o un fatto controverso e decisivo per il giudizio con riferimento ai capi di sentenza relativi alla notificazione dell’avviso di accertamento.
In particolare la ricorrente deduce che: la notificazione ex art.145 III comma cpc al legale rappresentante della A. (avvenuta quando la società era estinta per fusione del dicembre 2000) fosse stata effettuata contestualmente (e non successivamente come affermato in sentenza) alla notificazione tentata alla società nella sua sede legale (con conseguente violazione del testo applicabile ratione temporis dell’art.145 cpc che prevedeva la notificazione al legale rappresentante solo nel caso in cui fosse impossibile notificare presso la sede della società);
– la notificazione al legale rappresentante fu effettuata direttamente ex art.140 cpc senza tentare previamente la notificazione ex artt.138, 139 e 141;
– la mancanza della relata di notificazione era rilevante perché non risultava da nessuna parte che la notificazione era stata effettuata ai sensi dell’art.140 cpc per impossibilità di consegna dell’atto nei luoghi, alle persone o alle condizioni prescritte;
– non si era verificata la sanatoria dell’invalidità della notificazione perché essa società aveva avuto conoscenza dell’avviso solo nel 2012 quando aveva richiesto copia dell’atto al competente Ufficio.
2. Con il SECONDO motivo in relazione all’art.360 n.3 cpc violazione o falsa applicazione degli artt.2457 ter, 2502 bis cc, art.36 dpr 600/73; art.37 della legge 340/00, art.73 co. 3 Cost.art.10 disp.att. cc- la ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui respinge i rilievi, come articolati da essa società, affermando che nessuna comunicazione in ordine alla variazione del legale rappresentante della A. né relativamente alla cessazione di quest’ultima società per incorporazione fosse stata eseguita nei confronti della Amministrazione Finanziaria. Secondo la prospettazione difensiva nessun obbligo di comunicazione degli eventi sociali all’Ufficio incombeva sulla contribuente in quanto le norme che tale obbligo prescrivevano (art.36 dpr 600/73) erano state integralmente abrogate dall’art.37, co 1 lett. b della legge 340/2000 entrata in vigore il 9.12.2000 mentre la fusione era avvenuta il 22.12.2000.
3. I motivi, attenendo entrambi alla questione relativa alla legittimità della notificazione dell’avviso di accertamento, possono essere trattati congiuntamente. Si evince dalla sentenza impugnata che la notifica dell’avviso di accertamento (intestata alla A. sede legale Atessa, rappresentata da A. O. A. domicilio fiscale OMISSIS, nella qualità di liquidatore) pacificamente avvenuta quando detta società era già estinta perché incorporata per fusione da P. s.p.a., è stata tentata, dal messo dell’Ufficio, senza esito presso la sede della società perché la stessa risultava trasferita; fu quindi effettuata notifica, ai sensi dell’art. 145 c.p.c. ed altra notifica ex art.140 cpc, al legale rappresentate dell’A., che dalla dichiarazione risultava avere domicilio fiscale nella zona industriale. Continua la sentenza impugnata che risulta, altresì, dall’attestazione del messo speciale che tale atto venne depositato presso la casa comunale di Lanciano il 22.12.2001, affisso presso il domicilio fiscale del liquidatore, in c. da C. presso A., al quale venne data notizia per raccomandata con avviso di ricevimento, raccomandata che risulta essere stata ritirata il 28.12.2001.
La C.T.R. ha ritenuto la notificazione validamente effettuata in quanto:
dalla documentazione prodotta dall’Ufficio e non contestata risultava che O. A. era il rappresentante nonché liquidatore dell’A. e che non era stata comunicata all’Ufficio l’avvenuta estinzione per incorporazione della società (22.12.2000);
– la notificazione ex artt.138, 139 e 141 cpc, seppur non tentata, era, comunque, impossibile;
– era irrilevante la mancanza di relata di notificazione in quanto i dati del referto di notifica ex art.140 cpc erano sostanzialmente riprodotti nel testo della notificazione;
– che in ogni caso il termine per ricorrere iniziava a decorrere dallo scadere dall’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione dell’avviso (regolarmente avvenuta il 22.12.2011) e che la P. rispondeva, comunque, ex art.16, III comma del dpr 598/73, del maggior reddito accertato dall’Ufficio nei confronti di A.L.M.;
che, pertanto, non si verteva in ipotesi di notificazione inesistente.
3. Così riassunto l’iter logico giuridico seguito dalla Commissione di appello nel capo di sentenza impugnata con i primi due motivi di ricorso, può, in primo luogo, affermarsi la fondatezza del secondo in quanto, effettivamente, la norma (art.36, I, II e III comma del dpr n.600/1973) come applicata dalla C.T.R. era, già stata abrogata, dall’art.37, comma 1, lett.b. della legge 24.11.2000 n.340, in epoca anteriore ai fatti per cui è controversia onde l’obbligo di comunicazione ivi sancito non era più previsto alla data in cui venne effettuata la fusione.
4. E però la fondatezza del motivo non è idonea allo scopo in quanto la sentenza impugnata è fondata anche su altre rationes decidendi (sopra illustrate) in tema di mera nullità della notificazione ed avvenuta sanatoria della stessa la cui sostanziale correttezza non viene inficiata dalle doglianze esposte con il primo motivo di ricorso.
5. In materia, come già rilevato da questa Corte (sentenze nn.22192/2006, 211108/2006 rese tra le stesse parti odiarne) l’originario contrasto riferito all’applicabilità o meno della sanatoria di carattere processuale, di cui all’art.156 cpc, comma 3 è stato risolto dalle SS.UU. n.19854/2004 affermando che “la notificazione dell’avviso di accertamento tributario affetta da nullità rimane sanata, con effetto ex tunc, dalla tempestiva proposizione del ricorso del contribuente avverso tale avviso atteso che, da un lato, l’avviso di accertamento ha natura di provocatio ad opponendum, la cui notificazione è preordinata all’impugnazione,e dall’altro il dpr 29 settembre 1973 n.600, art.60, comma 1 richiama espressamente, in tema di notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, le “norme stabilite dagli artt.137 e ss. cpc (salve le modifiche subito dopo indicate) e, quindi, dall’art.160 cpc il quale, attraverso il rinvio al precedente art.156 cpc prevede appunto che la nullità non possa essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto il suo scopo”.
Costituisce, altresì, ius receptum il principio secondo cui deve ritenersi inesistente la notificazione quando sia stata effettuata in un luogo o con riguardo ad una persona che non presentino alcun riferimento con il destinatario dell’atto, risultando a costui del tutto estranei, mentre è affetta da nullità (sanabile con effetto ex tunc attraverso la costituzione del convenuto, ovvero attraverso la rinnovazione della notifica cui la parte istante provveda spontaneamente o in esecuzione dell’ordine impartito dal giudice), quando, pur eseguita mediante consegna a persona o in luogo diversi da quello stabilito dalla legge, un simile collegamento risulti tuttavia ravvisabile, così da rendere possibile che l’atto, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, giunga a conoscenza del destinatario (tra le tante Cass. 2.12.2009 n.25350; id.26.4.2010 n.9904).
Alla luce di detto principio tutti i vizi della notificazione denunciati dalla ricorrente e ribaditi in seno di ricorso avverso le contrarie argomentazioni della sentenza impugnata non integrano ipotesi di inesistenza della notificazione ma di mera nullità sanabile.
6. Così, infatti, non può ritenersi inesistente la notificazione effettuata all’A., in persona del suo legale rappresentante presso la sua sede, allorquando la stessa era pacificamente estinta per l’avvenuta fusione nella P. s.p.a.; in quanto in detta ipotesi, e nel vigore del previdente art.2504 bis cpc, detta notificazione doveva ritenersi affetta da mera nullità sanabile da parte della società incorporante (cfr. Cass. n.1089/2013; id. n. 15252/2012; id n.14066/2008; id n.1518/2011).
Cosiccome alla dedotta violazione dell’iter sancito dall’art.145 cpc (previgente formulazione essendo per l’attuale art.145 cpc legittimamente eseguibile la notificazione presso la sede sociale ovvero alla persona fisica che la rappresenta)-consistente nell’avere eseguito la notificazione alla persona fisica del legale rappresentante senza che si fosse utilmente continuato l’iter notificatorio presso l’indirizzo ove la società risultava (sulla base del primo tentativo di notificazione) trasferita non consegue l’inesistenza della notificazione non potendosi parlare neppure di nullità ma di mera L’irregolarità (cfr. 11 febbraio 2011 n.3342, 28 febbraio 2007 n.4785, Cass.28 marzo 2008, n.8045 a mente della quale la notifica di un atto giudiziario ad una persona giuridica, ove venga eseguita a mani proprie del legale rappresentante, deve considerarsi validamente effettuata, in virtù sia del principio della validità della notifica a mani proprie del destinatario, fissato dall’art.138 cpc in riferimento alle persone fisiche ma estensibile anche alle persone giuridiche, sia del principio di immedesimazione organica tra la società e le persone che la rappresentano, o ne realizzano esecutivamente le finalità, come ribadito anche dalle ss.uu. di questa Corte (Cass. ss. uu. 8091/2002)
tale notifica, benché irrituale perché effettuata in luogo diverso da quella stabilito dalla legge non è comunque di per se stessa sanzionata da nullità: conseguenza che l’art.160 cpc prevede soltanto per la violazione delle regole circa la persona cui l’atto deve essere consegnato). Ed ancora, la giurisprudenza di questa Corte, che qui si ritiene ribadire, appare orientata a ritenere affetta da nullità (e non da inesistenza) la notificazione effettuata ex art.140 cpc, senza che si siano realizzati i presupposti indicati dall’art.139 cpc (Cfr.Cass. n.3497/98; Cass. n.14890/2000; Cass. n.1689/2007).
Alla luce delle considerazioni sopra svolte può, pertanto, concludersi per la correttezza sostanziale della sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la tempestività della proposizione del ricorso da parte della P. s.p.a. abbia sanato qualsiasi difetto di notificazione dell’avviso di accertamento.
4. Con il TERZO motivo afferente, in relazione all’art.360 n.3 e 5 cpc, violazione o falsa applicazione degli artt.37 bis e 39 dpr 600/73, artt. 54 (oggi 86), 66 (oggi 101), 68 (oggi 103), 127 (oggi 163) dpr 917/86, artt. 1322 e 2555 c.c. art. 10 della legge 408/90, artt.7 e 9 d.lgs. 353/97, art.8 legge 724/97, art.8 legge 212/00, artt. 41, 53 e 13 Cost., art.11 disp.att. cc nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto o fatto controverso e decisivo per la controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio la ricorrente deduce i vizi (motivazionali e di violazione di legge) in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata nel ritenere la fondatezza e la legittimità nel merito dell’avviso di accertamento, sotto i profili:
a) dell’irrilevanza, ai fini delle imposte dirette, nella prospettiva dell’Erario, della “riclassificazione” della cessione di singoli cespiti in cessione di azienda, anche ove la cessione di azienda includesse il valore dell’avviamento; della neutralità, ai fini della determinazione del reddito imponibile delle imposte dirette, della “riclassificazione” dei corrispettivi di royalties e riscatto di Know-how in corrispettivi per la cessione dell’avviamento; della rilevanza del divieto di doppia imposizione;
b) della mancata dimostrazione della ricorrenza di fattispecie elusiva e della irrilevanza, a tal fine, del risparmio di imposta;
c) dell’illegittimità del potere di riqualificare contratti posti in essere dalle parti, prescindendo dalla loro volontà concretamente manifestata, utilizzando l’accertamento analitico-induttivo, ai sensi dell’art.39, co 2 lett. d) dpr n.600/73 anche qualora non siano state rinvenute attività non dichiarate o passività inesistenti; dell’inapplicabilità retroattiva dell’art.37 bis dpr n.600/73 in mancanza di risparmio di imposta;
d) della dimostrazione della neutralità (invarianza) per l’Erario, ai fini delle imposte dirette, della determinazione del reddito imponibile dell’operazione “riqualificata” in cessione di azienda; del riconoscimento del credito di imposta su redditi già dichiarati e assoggettati ad imposta in dipendenza del medesimo presupposto e sul contestuale riconoscimento del principio di estinzione per compensazione dell’obbligazione tributaria, così come accolto dalla sentenza della Corte di Cassazione 24.2.2006 n. 22872.
In primo luogo vanno disattesi i rilievi formulati dalla ricorrente (illustrati sub c) in ordine all’insussistenza dei presupposti nel caso in specie, per procedere all’accertamento analitico-induttivo, ai sensi dell’art.39, co 2 lett. d) dpr n.600/73 per non essere state rinvenute attività non dichiarate o passività inesistenti ed all’inapplicabilità retroattiva dell’art.37 bis dpr n.600/73.
Ed invero, la prima questione (illegittimità dell’accertamento ex art.39, co 2 lett. 2 dpr n.600/73) deve ritenersi inammissibilmente dedotta in questa sede siccome nuova mentre in ordine alla dedotta inapplicabilità dell’art.37 bis dpr n.600/73 appare sufficiente richiamarsi al principio sancito in materia dalla Sezioni Unite di questa Corte con la pronuncia n.30055 del 31.12.2008. Va, infatti, ribadito che in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto sì traduce in un principio generale antielusivo, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa dì quei benefici: tale principio trova fondamento, in tema di tributi non armonizzati (nella specie, imposte sui redditi), nei principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione, e non contrasta con il principio della riserva di legge, non traducendosi nell’imposizione dì obblighi patrimoniali non derivanti dalla legge, bensì nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali. Esso comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, anche diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell’operazione.
Ed anche in epoca precedente all’intervento della S.U. questa Corte aveva avuto modo di affermare che l’esame delle operazioni poste in essere dall’imprenditore deve essere compiuto anche alla stregua del principio, desumibile dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia 21 febbraio 2006 in causa C-255/02), secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni che, seppur realmente volute ed immuni da invalidità, risultino, da un insieme di elementi obiettivi, compiute essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale. Tale principio, che non esclude l’operatività del principio di legalità né la liceità di comportamenti volti a minimizzare il carico fiscale, trova applicazione anche nel giudizio di cassazione, quale norma di diritto comunitario che impone la disapplicazione delle norme interne con esso eventualmente contrastanti, nonché in riferimento al periodo anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n.600, art.37 bis, introdotto dal D.Lgs. 8 Ottobre 1997, n.358, art.7, rappresentando, pur in mancanza di una clausola generale antielusiva, all’epoca non configurabile nell’ordinamento fiscale italiano, un canone interpretativo del sistema.
Esso prescinde dall’accertamento della simulazione o del carattere fraudolento dell’operazione, imponendo di valutare quest’ultima nella sua essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, inidonee a fornire una spiegazione alternativa dell’operazione rispetto al mero risparmio fiscale, e tali quindi da potersi considerare manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti rispetto alla predetta finalità (Cass. 21221/2006).
Ciò posto se, alla luce dì detti principi cui il Collegio ritiene dare continuità, la sentenza impugnata va esente da censura nel capo in cui ha riconosciuto in linea generale ed astratta la legittimità dell’operato dell’Amministrazione finanziaria ai sensi delle norme sopra citate, l’articolato motivo dì ricorso appare, invece, fondato in ordine ai dedotti vizi motivazionali ex art.360 n.5 cpc.
Come noto il suddetto vizio sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della motivazione può dirsi legittimamente sussistente quando, nel ragionamento del Giudice di merito sia rinvenibile traccia del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi per la controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio, ovvero quando esiste insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (n.4916/2000; 17447/07) o ancora, quando il giudice di merito ometta di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza un’approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass, n.1756/2006; Cass. 8106/2006; Cass. 16762/2006).
La motivazione della C.T.R. abruzzese appare, in primo luogo, priva di idonea argomentazione logico giuridica laddove nel definire il thema decidendum e motivarne la ricostruzione (rilevanza dell’operata riqualificazione delle singole cessioni di beni materiali ed immateriali in cessione di ramo di azienda) ha individuato ì vantaggi fiscali conseguibili dalla riqualificata operazione con riferimento, del tutto irrilevante nell’odierna controversia avente ad oggetto IPERG ed ILOR, alle imposte di registro ed all’IVA. In ordine invece ai tributi in contestazione, ovvero le imposte sui redditi, la C.T.R. si limita ad affermare apoditticamente l’assioma secondo cui in caso di cessioni di beni anziché di azienda, sfuggirebbe a tassazione l’avviamento.
Nessuna sufficiente argomentazione logica-giuridica viene fornita dai Giudici di secondo grado a fondamento dell’assunto né, in particolare, vengono esplicitate le ragioni per cui dalla operata riqualificazione discenderebbe un vantaggio fiscale in favore della contribuente, apparendo in tal senso del tutto irrilevanti, siccome non attinenti all’oggetto del contendere (indebita deduzione dell’avviamento) le ragioni, esplicitate dai Giudici di secondo grado, sottese all’operazione e dalle quali si evincerebbe la sussistenza dell’intento elusivo.
Inoltre, la motivazione della sentenza impugnata appare in parte illogica ed in parte contraddittoria quando da una parte, come già rilevato, afferma che con la cessione dei singoli beni sia stata evitata la tassazione dell’avviamento e dell’altra nel condividere la ricostruzione del p.v.c. sostiene che “il costo di acquisto del Know-how e l’importo delle royalties corrisposte all’A. non sono altro che la quantificazione e la corresponsione dell’avviamento” trascurando da un lato, la circostanza che nessuna contestazione emerge in atti in ordine al mancato assoggettamento ad imposte dirette delle royalties e del corrispettivo di cessione del Know-how e dall’altro la natura concessoria del contratto che consentiva l’utilizzazione da parte di A. del Know-how rimasto nella titolarità della ricorrente.
In conclusione, nella sentenza impugnata non risulta idoneamente e sufficientemente motivata la sussistenza dell’affermato vantaggio fiscale da parte della contribuente.
6. Pertanto, rigettato il primo motivo di ricorso ed in parziale accoglimento del secondo, il ricorso va accolto con cassazione della sentenza impugnata e rinvio al Giudice di merito, perché alla luce di quanto sopra esposto integri la motivazione e regoli le spese processuali.
PQM
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo in diversa composizione.
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Numero Protocolo Interno : 420/2013