ISSN 2385-1376
Testo massima
Il cittadino che, ottenuta l’equa riparazione ex legge Pinto, si sia visto costretto a promuovere processo di esecuzione forzata per ottenere l’adempimento dell’Amministrazione, a seguito del ritardo di quest’ultima, ha diritto ad un ulteriore indennizzo, o “equa soddisfazione”.
Tale principio, tuttavia, va coordinato con il “principio della domanda”, ragion per cui, se il cittadino abbia qualificato la propria richiesta come risarcimento per il ritardo nell’adempimento e non come equa riparazione per l’irragionevole durata del processo esecutivo la domanda non può trovare accoglimento nelle forme e nei modi previsti dalla legge Pinto, ma il diritto all’equa “soddisfazione” va fatto valere direttamente innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, atteggiandosi a generale rimedio per l’effettività della tutela giurisdizionale.
Questo, in estrema sintesi, il dictum della sentenza n.6312 della Cassazione civile, a Sezioni Unite, del 19.03.2014, con la quale è stato definitivamente chiarito l’ambito di operatività della legge n.89/2001 (c.d. legge Pinto), anche nell’ottica di una corretta individuazione della giurisdizione delle Corti italiane, in rapporto con le funzioni ed i poteri della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Nel caso all’esame delle Sezioni Unite, la Corte d’Appello di Firenze, adita per ottenere l’equa riparazione per irragionevole durata del processo, aveva condannato il Presidente del Consiglio dei ministri al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 2.500,00, oltre interessi e spese legali; tuttavia, nel perdurante inadempimento del Ministero competente all’erogazione della detta somma, il ricorrente si era visto costretto a promuovere procedimento di esecuzione forzata nella forma dell’espropriazione presso terzi, conclusasi con ordinanza di assegnazione.
Orbene, atteso che, tra la data del decreto e quella dell’ordinanza di assegnazione del predetto credito da indennizzo, erano trascorsi due anni circa, il cittadino “danneggiato” aveva promosso un nuovo procedimento per ottenere un indennizzo per il detto ritardo innanzi alla Corte d’Appello fiorentina, la quale aveva rigettato il ricorso, affermando che “…la domanda di equa riparazione L. n. 89 del 2001, ex art. 3, può essere proposta unicamente in relazione ad una fattispecie dannosa che si concreti in una durata del processo che eccede quella ragionevole (art. 6, par. I, della Convenzione). La parte istante ha escluso che la doglianza sia correlata ad una durata eccessiva del processo esecutivo che è stata costretta ad intraprendere …“.
In altre parole, i Giudici avevano considerato la domanda del ricorrente non come domanda di “equa riparazione” per irragionevole durata del processo, bensì come autonoma richiesta di risarcimento per la “mora debendi” (in relazione al ritardo della Pubblica Amministrazione nell’erogazione della somma richiesta), onde il rigetto della richiesta ed il conseguente ricorso per cassazione da parte del cittadino.
L’articolata decisione del plenum si apre con un’accurata ricostruzione della giurisprudenza di legittimità e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo su casi analoghi.
Questione preliminare la valutazione delle due fasi di un giudizio (di cognizione e di esecuzione), ai fini dell’individuazione della “ragionevole durata” del processo.
Due gli orientamenti che, in tal senso, vengono in rilievo:
1. le Sezioni Unite, con la sentenza n. 27365 del 2009, hanno enunciato il principio di diritto secondo cui, in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo va identificato, in base all’art. 6 della CEDU, sulla base delle situazioni soggettive controverse ed azionate su cui il giudice adito deve decidere che, per effetto di detta norma sovranazionale, sono diritti e obblighi, ai quali, avuto riguardo agli artt. 24, 111 e 113 Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici amministrativi, con la conseguenza che, in rapporto a tale criterio distintivo, il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile, nonchè il processo di cognizione del giudice amministrativo e quello di ottemperanza teso a far conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi, sul piano funzionale e strutturale, tra loro autonomi, in relazione appunto alle differenti situazioni soggettive azionate in ciascuno di essi, con l’ulteriore conseguenza che, in dipendenza di siffatta autonomia, le durate dei predetti giudizi non possono sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi (di cognizione, da un lato, e di esecuzione o di ottemperanza, dall’altro) e, perciò, solo dal momento delle decisioni definitive di ciascuno degli stessi, è possibile, per ognuno di tali giudizi, domandare, nel termine semestrale previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, l’equa riparazione per violazione del citato art. 6 della CEDU, con conseguente inammissibilità delle relative istanze in caso di sua inosservanza (cfr., ex plurimis, le successive sentenze conformi nn. 16828 del 2010, 820 e 13739 del 2011);
2. la Corte EDU ha affermato costantemente che, al fine di stabilire se un processo ha avuto durata ragionevole, ai sensi dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, deve considerarsi globalmente la fase di cognizione e quella di esecuzione, promossa per la realizzazione del diritto fatto valere in giudizio ed, in particolare, con la sentenza del 29 marzo 2006 (Cocchiarella c/ Italia), sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato Contraente consentisse a una decisione giudiziaria irrevocabile e vincolante di rimanere inoperante a detrimento di una parte. L’esecuzione della sentenza resa dal giudice deve pertanto essere considerata come parte integrante del processo ai fini dell’articolo 6 (vedi, inter alia, Hornsby contro la Grecia, sentenza del 19 marzo 1997, Reports 1997 – II, pagg. 510 – 11, p.40 e segg., e Metaras contro la Grecia, n. 8415/02, p.25, 27 maggio 2004).
Tra l’altro, a conferma di tale orientamento, la Corte Costituzionale ha più volte sottolineato la natura “costituzionalmente necessaria” della fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia.
Ciò esposto, considerato che il primo dei due orientamenti è stato dettato in relazione allo specifico caso di un processo amministrativo seguito dal giudizio di ottemperanza, tenuto conto dell’importanza massimale della questione, si comprende il motivo della sottoposizione di quest’ultima alle Sezioni Unite.
In sintesi, le questioni sottoposte a queste ultime, possono essere così sintetizzate:
a) se il ritardo nella “realizzazione” del diritto all’indennizzo ed agli interessi, di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, già fatto valere e riconosciuto nel processo di cognizione promosso ai sensi della stessa L. n. 89 del 2001, possa o no esser fatto valere mediante domanda di (ulteriore) equa riparazione per il ritardo nella realizzazione, e se, in particolare, il processo di esecuzione forzata, eventualmente promosso per ottenere la realizzazione medesima, possa qualificarsi o no del tutto autonomo rispetto al precedente processo di cognizione di formazione del titolo;
b) se il rimedio al ritardo nell’adempimento della Pubblica Amministrazione – per il tempo trascorso tra il definitivo riconoscimento del diritto all’indennizzo e la realizzazione di tale diritto (pagamento) – debba necessariamente consistere in un ulteriore indennizzo liquidato al titolare del diritto ai sensi della legge n. 89 del 2001, ovvero possa consistere anche nel riconoscimento degli interessi moratori.
Presupposto dell’analisi è il riferimento al principio costituzionale di “effettività” della tutela giurisdizionale, di cui all’art. 24 Cost., comma 1, art. 111 Cost., commi 1 e 2, e art. 113 Cost., commi 1 e 2, in relazione al quale è stata individuata la necessarietà costituzionale della “fase” esecuzione coattiva.
Orbene, proprio la denominazione “fase” induce a ritenere che quest’ultima, riferendosi ad una situazione soggettiva sostanziale di vantaggio già riconosciuta nella precedente “fase” della cognizione, alluda ad un processo “unico, nel quale il diritto rivendicato diventa effettivo solo al momento dell’esecuzione (ove necessaria).
Tanto ha affermato, in particolare, la Corte di Strasburgo in varie pronunce (una su tutte la sentenza della Grande Camera del 29 marzo 2006 Cocchiarella c/ Italia), nelle quali ha ribadito che “l’esecuzione della sentenza resa dal giudice deve [
] essere considerata come parte integrante del ‘processo’ ai fini dell’art.6” della CEDU.
Così, se “si attenuano, fino a scomparire, le ‘differenze funzionali e strutturali’ (richiamate dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite n. 27365 del 2009) tra processo di cognizione e processo di esecuzione forzata – peraltro certamente esistenti e rilevanti ad altri fini, vale a dire sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione della disciplina processuale dettata dalla legislazione ordinaria”, va però operata un’altra importante distinzione, sotto il profilo sostanziale: quella tra il diritto all’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo e quello “all’esecuzione delle decisioni interne esecutive“, il quale costituisce una situazione soggettiva differente, alla quale, in altre decisioni della Corte EDU (es. sent. Simaldone c/ Italia), va accordata tutela in via autonoma.
In altri termini, più volte la Corte di Strasburgo ha affermato che “il ritardo nel pagamento delle somme Pinto costituisce una violazione autonoma dell’art. 6 della Convenzione (diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive)“ e pertanto non vi sono “motivi per derogare a tale approccio” (sent. 16 luglio 2013, Gagliardi c/ Italia, n.50).
Alla luce di tale distinzione, gli Ermellini puntualizzano che non basta la sola considerazione unitaria del processo (e, quindi, dello stesso processo “Pinto”) perché possa dedursi che, nell’ordinamento italiano, la norma sostanziale astrattamente idonea ad assicurare la tutela di entrambi i diritti (quello alla ragionevole durata del processo e quello all’effettività della tutela giurisdizionale) sia, appunto, la legge 89/2001. Anzi, la stessa lettera della legge “Pinto” (art.2, comma 1) induce a ritenere che la fattispecie del ritardo della Pubblica Amministrazione nel pagamento delle somme a titolo di “equa riparazione” fuoriesca dall’ambito di tutela di tale normativa.
E d’altronde, tale principio sembra ben chiaro alla giurisprudenza amministrativa già da tempo, laddove, come nel caso della pronuncia del TAR LAZIO, sez. I, n.8746, già oggetto di commento su questa rivista, a venire in rilievo è l’autonomo risarcimento del danno da ritardo, a carico dell’Amministrazione, qualora il Ministero non abbia corrisposto le c.d. somme “Pinto”.
Il fatto che il legislatore del 2001, nell’accordare il diritto all’equa riparazione, non abbia inteso regolamentare l’autonoma fattispecie del ritardo della Pubblica Amministrazione nella corresponsione delle somme a tale titolo liquidate, per le Sezioni Unite non costituisce indice di illegittimità costituzionale della normativa, atteso che la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo accorda ampia discrezionalità agli Stati membri nella regolamentazione degli strumenti posti a presidio dell’effettività della tutela giurisdizionale.
Riguardo a quest’ultima fattispecie, la Cassazione sottolinea che la Corte EDU ha anche affermato che “[…] è inopportuno chiedere a una persona, che ha ottenuto una sentenza contro lo Stato, alla fine di un procedimento giudiziario, di proporre poi un procedimento di esecuzione per ottenere soddisfazione“. e pertanto questa, adita in via diretta, ha accordato ai ricorrenti una somma a titolo di “equa soddisfazione” ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, più volte ritenendo peraltro insufficiente (“non determinante”), quale rimedio a detto ritardo, il riconoscimento dei soli interessi moratori (cfr. al riguardo, ex plurimis, le sentenze 10 dicembre 2013, Limata ed altri contro Italia, n. 24, e 31 marzo 2009, Simaldone contro Italia, n. 63, cit.).
Pertanto, ad avviso del Supremo Collegio, la questione va risolta anzitutto attraverso una corretta applicazione del principio della domanda, espresso dall’art.99 cpc. Vale a dire che, preliminarmente e tenuto conto dell’intrinseca differenza delle situazioni sostanziali e degli strumenti processuali di tutela ogni singola fattispecie deve essere differenziata a seconda che il ricorrente abbia chiesto l’equa riparazione per l’irragionevole durata del processo Pinto, ovvero per il ritardo nel pagamento del già riconosciuto indennizzo e degli interessi oggetto della pronuncia di condanna con il decreto Pinto definitivo.
A tal proposito, le Sezioni Unite distinguono varie ipotesi (e altrettante prospettazioni) alternative, che di seguito si riportano:
A) Il caso in cui il ricorrente abbia fatto valere il diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole, che può essere ulteriormente suddistinto, a seconda che sia stata dedotta in giudizio la durata irragionevole della sola “fase” di cognizione ovvero anche della promossa ed esaurita “fase” di esecuzione forzata del titolo definitivo ottenuto nella prima fase.
A1) Nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa – non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente – in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze nn. 5924 e 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima L. n. 89 del 2001, il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative.
A2) Nel caso in cui la “fase” della cognizione del processo “Pinto” si sia conclusa in senso favorevole al ricorrente, la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall’Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi (secondo la giurisprudenza della CEDU dianzi citata) e cinque giorni(in forza dell’art. 133 c.p.c., comma 2) dalla data in cui il provvedimento che la accorda è divenuto esecutivo (cfr. anche, ex plurimis, la sentenza n. 15658 del 2012, in fattispecie identica a quella in esame), con la conseguenza che, ove il predetto termine dilatorio non sia stato rispettato dall’Amministrazione convenuta ed il titolare abbia optato per la promozione di un procedimento di esecuzione forzata del titolo ottenuto – procedimento, questo, da considerarsi, sulla base di tutte le considerazioni che precedono, quale “fase dell’esecuzione” di un unico processo, che ha inizio con la domanda di equa riparazione e fine con la conclusione di tale seconda fase -, la durata complessiva di tale processo è costituita dalla somma della durata delle due fasi, di cognizione e di esecuzione, con l’ulteriore conseguenza che, se tale complessiva durata eccede il termine di due anni (cfr., supra, lettera A1), sei mesi e cinque giorni, lo stesso titolare ha diritto all’equa riparazione commisurata a tale eccedenza, diritto da far esplicitamente valere – si ribadisce: con appropriate e specifiche deduzioni anche in punto di fatti costitutivi del diritto azionato, cioè del diritto ad un processo Pinto di durata ragionevole – nelle forme e nei termini di cui alla L. n. 89 del 2001, in particolare entro sei mesi dalla data del provvedimento conclusivo della “fase” di esecuzione forzata (ai sensi della L. n. 89 del 2001, art. 4, sia nel testo originario, sia in quello sostituito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. d), data nella quale – si sottolinea – può non essere stato ancora eseguito il pagamento delle somme dovute.
B) Il caso – in cui il ricorrente abbia fatto valere, invece, il diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive, cioè del decreto di condanna Pinto definitivo, dolendosi del ritardo dell’Amministrazione nel pagamento delle somme relative – può essere a sua volta suddistinto, a seconda che sia stata promossa o no l’esecuzione forzata del titolo così ottenuto, circostanze queste, come più volte sottolineato, da dedurre nel giudizio in modo adeguato e specifico.
B1) Nel primo caso (decreto di condanna Pinto seguito dalla promozione dell’esecuzione forzata) – ribadito che la somma corrispondente (indennizzo ed interessi) deve essere pagata dall’Amministrazione al titolare entro il termine dilatorio di sei mesi e cinque giorni dalla data in cui il provvedimento che la accorda è divenuto esecutivo -, il ricorrente ha il diritto – fondato appunto, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, sulla violazione dell’art. 6, prf. 1, della CEDU, sotto il richiamato profilo del “diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive” – ad un ulteriore indennizzo (ed agli interessi) commisurato sia all’entità del ritardo, eccedente i sei mesi e cinque giorni, nella “realizzazione” dell’indennizzo e degli interessi (già riconosciuti per l’irragionevole durata del processo “presupposto”), vale a dire nel pagamento effettivo di tali somme, sia alla circostanza della intervenuta promozione del processo di esecuzione forzata.
Tale diritto, tuttavia – per le anzidette ragioni, non può esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte di Strasburgo, come del resto accaduto numerosissime volte.
B2) Nel secondo caso (decreto di condanna Pinto non seguito dalla promozione dell’esecuzione forzata), in cui cioè il titolare del diritto all’indennizzo ed agli interessi per l’irragionevole durata del processo presupposto abbia scelto di tenere un comportamento di “attesa” della realizzazione del suo credito senza svolgere ulteriori attività, facendo implicitamente valere soltanto il “mero ritardo”, per così dire, nel pagamento delle somme corrispondenti, potrebbero astrattamente prospettarsi le seguenti soluzioni alternative: o il rimedio a tale ritardo dell’Amministrazione è costituito dal titolo della già pronunciata condanna al pagamento degli interessi “corrispettivi” dalla domanda di equa riparazione al saldo, interessi che, dal giorno della mora debendi della stessa Amministrazione (successivo alla scadenza di sei mesi e cinque giorni), si convertono in interessi “moratori”, dovuti appunto fino alla data dell’effettivo pagamento; ovvero il rimedio al ritardo – ed è questa la soluzione seguita dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo – è costituito, anche in questo caso, da un ulteriore indennizzo, dovuto dall’Amministrazione in forza dell’art. 41 della Convenzione, per la violazione dell’art. 6, prf. 1, sotto il più volte richiamato profilo del “diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive”, e commisurato al periodo eccedente il predetto termine dilatorio concesso all’Amministrazione medesima per il pagamento.
Anche in questo caso, tuttavia, tale diritto non può esser fatto valere nelle forme e nei termini di cui alla legge n. 89 del 2001, ma, allo stato attuale della legislazione interna, soltanto mediante ricorso diretto alla Corte EDU.
Alla luce delle prospettate ipotesi alternative, la Corte ha così rigettato il ricorso, atteso che la Corte d’Appello di Firenze aveva qualificato correttamente (rectius, motivando in maniera sufficiente, non contraddittoria ed immune da vizi logici e giuridici) la domanda come volta a far valere il danno per il ritardo del pagamento della P.A. e non come richiesta di equa riparazione per l’eccessiva durata del processo esecutivo.
In conclusione, il cittadino che abbia ottenuto l’equa riparazione e, non indennizzato dall’amministrazione nel termine di sei mesi e cinque giorni, abbia percorso la strada del giudizio di esecuzione del decreto Pinto, non può avvalersi degli strumenti processuali di cui alla legge 89/2001 se intenda dedurre in giudizio non il danno da irragionevole durata del processo esecutivo, bensì l’autonomo diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive, a fronte del ritardo della P.A., con la conseguenza che dovrà adire direttamente la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere equa “soddisfazione”.
La pronuncia delle Sezioni Unite, che si segnala per ampiezza espositiva e chiarezza del percorso logico-argomentativo, definisce de jure condito i confini di applicazione della legge “Pinto”, oggetto di recenti riforme e dibattiti, nonché di diffuso interesse, in quanto unica “ancora di salvezza” certamente insufficiente a fronte delle patologiche inefficienze della macchina della Giustizia.
Segue una rassegna delle pronunce giurisprudenziali più recenti sul tema, già oggetto di commento su questa rivista.
Principi e rassegna giurisprudenziale sul risarcimento dei danni da irragionevole durata del processo
Articolo giuridico | 12-02-2014 | Legge 24 marzo 2001 n.89; d.l. 22 giugno 2012, n.83
La contumacia della parte non preclude il riconoscimento del diritto all’equa riparazione per irragionevole durata del processo
Ordinanza | Cassazione civile, sezioni unite | 14-01-2014 | n.585
Il danno non patrimoniale si presume sino a prova contraria
Altro | Cassazione civile, sezione seconda | 20-01-2014 | n.1070
E’ configurabile anche in relazione ai procedimenti di esecuzione forzata
Sentenza | Cassazione civile, sezione sesta | 15-07-2013 | n.16029
Quando il processo è ancora pendente, non è previsto alcun termine di prescrizione per proporre la relativa domanda.
Sentenza | Cassazione civile, sezioni unite | 02-10-2012 | n.16783
Testo del provvedimento
in allegato il testo integrale del provvedimento
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