Va escluso il risarcimento per l’errata segnalazione alla Centrale Rischi di Bankitalia, se l’errore della banca riguarda una società in crisi da anni e manca la prova che la stretta sui finanziamenti degli istituti di credito sia collegata al comportamento illegittimo della banca che ha lanciato l’”alert”.
Questo il principio di diritto espresso dalla Corte di Cassazione, VI sez. civ., Pres. Scoditti – Rel. Rossetti, con l’ordinanza n. 13264 dell’1 luglio 2020.
IL CASO
Una società conviene in giudizio una delle sue banche d’appoggio, deducendo l’erroneità della segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia di una sua posizione debitoria nei confronti di un altro istituto di credito. A causa di detta segnalazione gli istituti di credito con cui la società intratteneva rapporti hanno iniziato a ridurre o chiudere le linee di credito e a chiedere di rientrare, gettando sulla stessa un discredito commerciale tale per cui non ha più potuto portare a termine i suoi investimenti e progetti di ampliamento. Il Tribunale accoglie la richiesta della società e la sentenza viene confermata anche in appello, riconoscendo il nesso di causa tra la segnalazione alla Centrale rischi, la revoca degli affidamenti della altre banche e la conseguente modifica dei propri progetti manageriali.
LA DECISIONE
Con l’ordinanza de qua, la Corte di Cassazione, adita dalla banca, ha negato il risarcimento del danno alla società perché in realtà la crisi era preesistente e non è dipesa dalla segnalazione alla Centrale Rischi.
La Suprema Corte ha precisato che l’accertamento del danno causato dalla lesione del credito commerciale esige l’accertamento d’un duplice nesso causale:
(a) un primo nesso tra la condotta illecita (nella specie: la erronea segnalazione alla centrale rischi) e la contrazione dei finanziamenti o la perduta possibilità dell’accesso al credito;
(b) un secondo nesso tra la contrazione dei finanziamenti e il peggioramento dell’andamento economico del soggetto danneggiato.
Ovviamente l’accertamento del primo nesso (da valutare con le regole della causalità materiale, ex art. 40 c.p.) non implica di per sé la sussistenza del secondo (da valutare con le regole della causalità giuridica, ex art. 1223 c.c.). La chiusura, da parte di un istituto bancario, delle linee di credito precedentemente accordate ad una società commerciale potrebbe infatti in teoria causarne la decozione tout court; oppure accelerarne una decozione che comunque era inevitabile; od ancora risultare irrilevante, ad esempio nel caso di società floride e sovracapitalizzate. Le pregresse condizioni economiche e patrimoniali della società che assume di essere stata danneggiata, pertanto, costituiscono un fatto materiale rilevante e centrale nell’accertamento del danno in esame, che la sentenza d’appello ha effettivamente trascurato di esaminare: sia in sé, sia in relazione alla illegittima segnalazione alla centrale rischi.
In relazione, invece, all’accertamento e alla liquidazione del danno non patrimoniale in favore di persone giuridiche, gli Ermellini hanno ribadito quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, e cioè che “il danno non patrimoniale, come qualsiasi altro tipo di danno, non può mai ritenersi in re ipsa, con la conseguenza che la relativa prova (beninteso, anche presuntiva) deve essere dapprima offerta da chi invochi il risarcimento, e quindi valutata dal giudice”.
Da quanto precede discende che del pregiudizio in esame l’organo giudicante di merito deve accertare l’esistenza sotto due profili:
a) se ed in che misura il fatto illecito abbia nuociuto alla serenità degli amministratori della persona giuridica che afferma di essere stata danneggiata, e quindi di rimbalzo sulla società stessa;
b) se ed in che misura il fatto illecito abbia nuociuto all’immagine pubblica della persona giuridica.
Inoltre i suddetti pregiudizi non patrimoniali, per essere risarcibili, debbono superare una soglia minima di tollerabilità, ovviamente ben più elevata per le società commerciali rispetto alle persone fisiche, ché altrimenti si perverrebbe a ristorare come veri danni dei semplici fastidi o disagi.
Secondo la Suprema Corte, la sentenza impugnata manca della necessaria indagine sulla diffusione della notizia diffamatoria; sulla sua percepibilità da parte della collettività; sulla possibilità per fornitori e clienti di connettere il declino societario a quella notizia, piuttosto che ad altri fattori; sulla eccedenza del danno rispetto alla soglia della normale tollerabilità.
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