L’invio a mezzo PEC o la consegna “brevi manu” della comunicazione di escussione di una fideiussione, rilasciata da una banca, non sono equivalenti alla comunicazione inviata con “raccomandata a.r.”, quando il contratto prevede che possa essere escussa solo attraverso tale mezzo. Non è valida l’escussione ricevuta oltre il termine di validità della garanzia, ancorché spedita entro il termine predetto.
Questo il principio espresso dalla Corte d’Appello di Bologna, Pres. Rel. Aponte, con la sentenza resa il 25 giugno 2019.
Una società ha proposto appello contro una sentenza del Tribunale di Bologna, che aveva revocato un decreto ingiuntivo relativo ad una fideiussione prestata dalla azienda di credito a garanzia dell’adempimento dell’obbligo che la società s.r.l. aveva assunto quale acquirente di alcune aree di terreno. Nella fattispecie, il giudice di prime cure aveva osservato che la richiesta di escussione fosse pervenuta tramite PEC e successivamente (e tardivamente) a mezzo lettera raccomandata A/R, come invece era specificato nel contratto stipulato fra le parti.
La società, impugnando la sentenza, ha negato l’esclusività del mezzo di comunicazione prescelto, non espressamente previsto dal testo contrattuale, mentre l’istituto di credito ha chiesto il rigetto dell’appello.
La Corte territoriale, confermando quanto pronunciato dal giudice di primo grado, ha chiarito che la forma di comunicazione contrattualmente prevista consiste nell’invio della richiesta di escussione con una “lettera raccomandata a.r.”, espressione che va intesa, secondo il linguaggio comune, in una comunicazione scritta e cartacea tramite il servizio postale secondo le regole per questo previste (consegna all’ufficio, compilazione dei moduli di accettazione, registrazione e recapito con il relativo avviso avente un determinato contenuto da ritornare al mittente, tracciabilità del recapito e possibilità di ottenere duplicati, ecc.).
Le “modalità sopra indicate”, così come il termine, sono convenzionalmente previste a pena di decadenza, e non possono essere genericamente intese e “tradotte” quali “spedizione garantendo la certificazione dell’invio e della ricezione” come vorrebbe l’appellante. Infatti il servizio postale non era e non è (almeno sino alla recente equiparazione “concorrenziale” di alcuni gestori) equivalente a quello di qualunque corriere, potendo le parti affidarsi al servizio che ritengono più sicuro e certificativo, pubblico o privato; la cd. “raccomandata a mani” non è una “raccomandata a.r.”, ma una consegna informale a mani (non si sa da parte di chi e a chi, e con quale certezza di data o con quale forma attestante la ricezione), che per un destinatario avente un’organizzazione complessa e una pluralità di addetti o filiali potrebbe non rivestire la medesima certezza o garanzia di conoscenza della vera e propria “raccomandata a.r.” inoltrata a mezzo servizio postale.
Sul valore della PEC, la Corte ha rilevato che l’equiparazione non può essere concretamente ritenuta sempre in forza dell’art. 1352 c.c. L’art. 48 CAD d.leg. 82/2005 formalmente sancisce l’equivalenza della PEC alla “notificazione” a mezzo posta, termine che non può essere inteso in senso atecnico o generico, ma è quella prevista ad. es. dalle leggi 890/82 e 53/1994 in primis ma non solo per gli atti processuali e sostitutiva della notifica a mani a mezzo ufficiale giudiziario, e che quindi non è la comunicazione contrattualmente prevista a mezzo raccomandata a.r..
Per questo motivo, la Corte ha rigettato l’appello, condannando l’appellante a rimborsare all’appellata le spese del grado.
Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
FIDEIUSSIONE: PERDE EFFICACIA SE NON ESCUSSA ENTRO IL TERMINE STABILITO
ALLA SCADENZA IL GARANTE È LIBERATO DAL VINCOLO GIURIDICO
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VIOLAZIONE NORMATIVA ANTISTRUST: LA NULLITÀ DEVE ESSERE ECCEPITA NEL PRIMO SCRITTO DIFENSIVO
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