ISSN 2385-1376
Testo massima
Il contribuente che subisce un’esecuzione immobiliare illegittima ha
diritto ad essere risarcito dall’amministrazione finanziaria. Il giudice può
accordare il ristoro se accerta gli
estremi della condotta dell’illecito aquiliano.
E’ questo quanto ha stabilito la
Suprema Corte con la sentenza n. 25855 depositata il 18 novembre 2013.
Gli Ermellini hanno accolto il
ricorso proposto da una signora che aveva subito una iscrizione di ipoteca per
un debito fiscale contratto solo dall’ex coniuge.
La ricorrente aveva promosso una
querela di falso per il disconoscimento della firma apposta sulla dichiarazione
dei redditi congiunta, che appariva sottoscritta, oltre che dal dichiarante,
anche con firma illeggibile attribuita alla moglie della quale era stata perciò
ritenuta la responsabilità solidale.
In virtù di tanto il Ministero
delle Finanze aveva intrapreso una esecuzione immobiliare nei confronti della
ricorrente che si concludeva con la vendita all’asta di due immobili di
proprietà della stessa.
Del tutto inutili erano state le
iniziative giudiziarie intraprese dalla ricorrente che, nel frattempo, aveva
sporto denuncia presso la Procura della Repubblica per la falsità della firma,
chiedendo la sospensione dell’esecuzione immobiliare e aveva proposto un
ricorso ex art. 700 c.p.c., deducendo l’ingiustizia delle esecuzioni.
Dopo la proposizione della
querela di falso il Tribunale di Napoli accertava la falsità della firma e
ordinava la cancellazione dell’ipoteca.
La ricorrente agiva, pertanto,
nei confronti del Ministero delle Finanze per ottenere il risarcimento dei danni patiti, a
seguito dell’ingiusta espropriazione, ai
sensi dell’art. 2043 c.c. e, in via subordinata, ai sensi dell’art. 20141 c.c..
In primo grado il Tribunale
accoglieva la domanda della ricorrente, anche se in misura inferiore a quella
richiesta, mentre la Corte di Appello ribaltava completamente l’esito della
sentenza di prime cure.
La Suprema Corte, al contrario,
accogliendo le ragioni della ricorrente, ha ribadito che “quanto alla tutela aquiliana che, pur se non fondata sui commi 3° e
4° dell’art. 54 del DPR n. 602/73,
potrebbe trovare il suo fondamento nella clausola generale dell’art. 2043 c.c.,
non essendo comunque sufficiente il solo accertamento dell’infondatezza della
pretesa tributaria azionata in via esecutiva, ma dovendosi accertare che la
condotta dell’Amministrazione Finanziaria, nel promuovere l’azione esecutiva,
abbia integrato gli estremi dell’illecito aquiliano, sia sotto il profilo
oggettivo sia soggettivo.
Con la sentenza in esame, la Corte
di Cassazione, ha inteso sottolineare che il procedimento esecutivo tributario
si fonda sulla separazione tra la titolarità del credito e quella dell’azione
esecutiva e che il richiamo ai commi 3° e 4° dell’art. 54 del DPR n. 602/73 è
improprio in quanto la domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente era
diretta contro l’ente impositore e non nei confronti del soggetto esattore.
A parere degli Ermellini,
infatti, il divieto di cui alla norma su indicata è applicabile solo alle
azioni risarcitorie proposte nei confronti dell’esattore per l’illegittimità
dell’azione esecutiva e non anche per quelle proposte nei confronti dell’ente
impositore nel caso in cui l’imposta non sia dovuta e quindi sia insussistente
il credito erariale.
Sulla base di tali motivazioni il
Supremo Collegio ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado, rimettendo
la causa alla Corte di Appello al fine di valutare in fatto la sussistenza o
meno delle pretese risarcitorie avanzate dalla ricorrente.
Testo del provvedimento
CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 18 novembre 2013, n. 25855
Svolgimento del processo
1. – A.S. citò in giudizio il Ministero delle Finanze, esponendo che nel 1990 aveva subito l’espropriazione di due immobili di sua proprietà, attivata a mezzo dell’esattore, su istanza del Ministero; che questa aveva fatto seguito ad un accertamento sui redditi dichiarati da G.S., coniuge dell’attrice, quali risultanti dal mod. 740/83 relativamente all’anno 1982, che appariva sottoscritto, oltre che dal dichiarante, anche con firma illeggibile attribuita alla S., della quale perciò era stata ritenuta la responsabilità solidale; che ella aveva sporto denuncia alla Procura della Repubblica per falsità della firma, aveva notificato una diffida all’Intendente di Finanza per chiedere la sospensione delle procedure esecutive, aveva proposto ricorso ex art. 700 cod. proc. civ. , deducendo l’ingiustizia delle esecuzioni, il tutto senza successo; che, infine, aveva proposto azione per querela di falso dinanzi al Tribunale civile di Napoli nei confronti dello stesso Ministero, che si era conclusa con la sentenza n. 3343/97, con la quale era stata accertata la falsità della sottoscrizione ed era stata ordinata la <<cancellazione della sottoscrizione in predicato, con rimozione di ogni effetto ad essa correlato»; che, essendosi frattanto concluse le procedure esecutive con la vendita degli immobili pignorati, meglio specificati in atti, ella aveva subito il danno corrispondente al valore degli immobili, del quale avrebbe dovuto rispondere il Ministero delle Finanze, attesa l’illegittimità delle procedure esecutive, in quanto l’accertamento della falsità della firma apposta in calce alla dichiarazione dei redditi, con sentenza passata in giudicato, aveva fatto venire meno il presupposto della responsabilità solidale per i debiti erariali del coniuge, di cui all’art. 17 della legge n. 114 del 13 aprile 1977. Concluse, pertanto, chiedendo, in via principale, che fosse dichiarato il suo diritto alla rimozione degli atti e dei provvedimenti con cui si era proceduto in suo danno e alla rimozione degli effetti pregiudizievoli prodottisi nel suo patrimonio, con condanna del Ministero al pagamento dell’importo di lire 1.200.000.000 o della diversa somma accertata in corso di causa, oltre rivalutazione ed interessi; in via gradata, previo accertamento della responsabilità ex art. 2043 cod. civ., la condanna del Ministero al risarcimento dei danni quantificati nella somma appena detta; in via ancora più gradata,l’accertamento e la dichiarazione della sussistenza della fattispecie di cui all’art. 2033 cod. civ., con condanna del Ministero al pagamento della stessa somma; in via del tutto gradata, la condanna del Ministero al pagamento del predetto importo ai sensi dell’art. 2041 cod. civ.
1.1. – A seguito della costituzione del Ministero e dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva per essere stata frattanto istituita l’Agenzia delle Entrate, con il trasferimento dei rapporti pendenti, il contraddittorio fu integrato nei confronti di quest’ultima. L’Agenzia, chiamata in causa dall’attrice, si costituì, resistendo nel merito.
1.2. – Dopo l’espletamento di una C.T.U. finalizzata ad accertare il valore degli immobili venduti in sede esecutiva, il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 10604/06, accolse la domanda subordinata proposta ai sensi dell’art. 2041 cod. civ., rigettando le altre, e condannò l’Agenzia delle Entrate al pagamento in favore dell’attrice della somma di 380.200,00, oltre interessi al tasso legale dal 1° gennaio 1998, nonché al pagamento delle spese di lite e delle spese di CTU; compensò le spese tra l’attrice ed il Ministero delle Finanze, del quale dichiarò il difetto di legittimazione passiva.
2. – L’Agenzia delle Entrate propose appello; la S. si costituì e propose appello incidentale.
Con la decisione ora impugnata, pubblicata il 16 settembre 2011, la Corte d’Appello di Napoli ha accolto l’appello principale ed, in riforma della sentenza impugnata, ha rigettato anche la domanda proposta da A.S. ai sensi dell’art. 2041 cod. civ.; ha rigettato l’appello incidentale; ha compensato tra le parti le spese di lite.
3. – Avverso la sentenza A.S. propone ricorso affidato a tre motivi, illustrati da memoria.
L’Agenzia delle Entrate si difende con controricorso.
Motivi della decisione
1. – Il Collegio ritiene che la ratio decidendi della sentenza impugnata renda pregiudiziale ed assorbente l’esame del secondo motivo di ricorso, col quale si denuncia falsa applicazione degli artt. 615, 616, 617 e 618 cod. proc. civ., violazione dell’art. 54 del d.p.r. n. 602 del 1973 nel testo vigente prima delle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 46 del 1999, in riferimento all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., nonché violazione dell’art. 615 coda proc. civ., in riferimento all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.
La ricorrente censura l’accoglimento dell’appello dell’Agenzia delle Entrate che la Corte territoriale ha fondato sul mancato esperimento da parte dell’esecutata delle opposizioni esecutive, in specie dell’opposizione all’esecuzione, con la quale, secondo la Corte, la S. avrebbe potuto e dovuto fare valere l’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata.
Con una prima doglianza (illustrata sub 2. A) deduce la violazione dell’art. 54, comma secondo, del D.P.R. n. 603 del 1972, che, nel testo applicabile ratione temporis, sanciva l’inammissibilità nella procedura esecutiva esattoriale delle opposizioni regolate dagli artt. da 615 a 618 del codice di procedura civile. Rileva che l’unico rimedio esperibile dal contribuente esecutato era la richiesta di sospensione del processo esecutivo da rivolgersi all’Intendente di Finanza, ai sensi dell’art. 53 dello stesso D.P.R., e che questa era stata avanzata dalla S., ma che, neanche dopo una diffida rivolta il 30 maggio 1989, la procedura era stata sospesa.
Secondo la ricorrente, l’illegittimità della procedura esecutiva si sarebbe potuta fare valere dal contribuente soltanto dopo il suo esaurimento, ai sensi del terzo comma dell’art. 54 del D.P.R. n. 603 del 1972, giurisprudenza di legittimità riportata in ricorso.
Con una seconda doglianza (illustrata sub 2.B) deduce che vi sarebbe stata la violazione dell’art. 615 cod. proc. civ., così come interpretato dalla Corte Suprema nel precedente citato dalla Corte d’Appello (Cass. n.7036/03), perché, anche a voler ritenere esperibile l’opposizione esecutiva, il suo mancato esperimento non avrebbe comunque potuto precludere all’esecutata il rimedio conseguente all’accertamento della perdita di validità della procedura esecutiva.
2. – Il motivo va/accolto nei limiti e per le ragioni di cui appresso.
La Corte d’Appello ha ritenuto che, anche con riguardo all’esecuzione esattoriale, l’azione sussidiaria di arricchimento senza causa non possa essere proposta dopo la conclusione dell’esecuzione e la scadenza dei termini per le relative opposizioni, all’esecuzione ed agli atti esecutivi, quando l’esecutato non si sia avvalso di tali rimedi. La Corte territoriale, a sostegno della decisione, ha richiamato e riportato in sentenza la motivazione del precedente della Corte di Cassazione n. 7036/03, già citato dal Tribunale.
Così decidendo, la Corte d’Appello non ha tenuto in alcun conto la norma dell’art. 54, comma secondo, del D.P.R. n. 603 del 1972, posta a fondamento del secondo motivo di ricorso.
2.1. – L’Agenzia delle Entrate, nel controricorso, obietta, per un verso, che il motivo sarebbe inammissibile perché nuovo e, per altro verso, che la norma citata non sarebbe pertinente perché non riguarderebbe la pretesa non debenza del tributo e la correlativa insussistenza del credito erariale, ma la eventuale lesione di posizioni soggettive da parte dell’esattore, come risulterebbe dai commi 3° e 4° dello stesso art. 54, nel testo applicabile ratione temporis.
Aggiunge che la ricorrente avrebbe dovuto agire con l’impugnazione dell’avviso di accertamento che era stato posto a fondamento dell’espropriazione de qua e che, non avendo svolto siffatta impugnazione, la ricorrente non avrebbe potuto fare ricorso al rimedio sussidiario dell’art. 2041 cod. civ.
2.2. – Le prime due obiezioni non colgono nel segno.
Quanto all’asserita novità della questione dedotta col secondo motivo di ricorso, non può non rilevarsi che, essendo incontestato, ed, anzi, presupposto, che l’esecuzione compiuta ai danni della S. fosse un’esecuzione esattoriale, l’applicazione delle norme del D.P.R. n. 602 del 1973, che dettano la disciplina di quell’esecuzione, costituiva uno dei cardini del dibattito processuale. Una volta invocate dall’appellante Agenzia delle Entrate e ritenute dalla Corte d’Appello l’esperibilità, nell’esecuzione esattoriale, dei rimedi delle opposizioni esecutive e quindi la preclusione dell’azione sussidiaria di arricchimento senza causa per non essersi l’esecutata avvalsa di tali rimedi, non si può certo sostenere che sia stata la ricorrente a porre, per la prima volta, in sede di legittimità, la questione dell’applicabilità del richiamato art. 54, comma secondo, del citato D.P.R. Si tratta infatti della norma che la Corte d’Appello avrebbe dovuto applicare proprio nel caso di specie per disattendere il motivo di appello basato sulla mancanza di sussidiarietà ex art. 2041 cod. civ., nel rapporto con gli artt. 615 e 617 cod. proc. civ. Si tratta, quindi, della norma che, come si dirà, è stata violata con la sentenza impugnata.
Quanto ai commi 3° e 4° dello stesso art. 54, ha ragione la resistente nel sostenere che questi disciplinano, in via immediata e diretta, una fattispecie dissimile dalla presente poiché riguardano l’azione risarcitoria proponibile dall’esecutato nei confronti dell’esattore per l’illegittimità dell’azione esecutiva o degli atti del processo esecutivo e non nei confronti dell’ente impositore, per la pretesa non debenza del tributo e la correlativa insussistenza del credito erariale, essendo il procedimento esecutivo esattoriale fondato sulla separazione tra titolarità del credito e titolarità dell’azione esecutiva.
Pertanto è improprio il richiamo che il ricorso fa al terzo comma dell’art. 54; e ciò anche in considerazione del fatto che la stessa ricorrente, pur richiamando in ricorso quest’ultima norma, mostra di rinvenire il fondamento normativo dell’azione risarcitoria nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, così come esercitata nei gradi di merito nell’art. 2043 cod. civ.
In ogni caso, il secondo motivo di ricorso, quanto al profilo sub A), è, in via principale, fondato sulla diversa norma del secondo comma dello stesso art. 54, che, come si dirà, sancisce l’improponibilità, in assoluto, di quei rimedi, dell’opposizione all’esecuzione e dell’opposizione agli atti esecutivi, che la Corte d’Appello ha invece ritenuto esperibili; è su questo secondo comma dell’art. 54 che si fonda, perciò, il preannunciato accoglimento del secondo motivo, non sui commi terzo e quarto, su cui si è soffermata l’Agenzia controricorrente.
Sulla questione dell’omessa impugnazione dell’avviso di accertamento, di cui pure si fa cenno nel controricorso, si tornerà, dopo aver trattato delle conseguenze dell’applicazione al caso di specie del ridetto art. 54, comma secondo.
3. – Venendo appunto a dire di quest’ultima norma, va ribadito, che, come più volte affermato da questa Corte, in tema di esecuzione esattoriale, l’art. 54, comma secondo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (nel testo anteriore alla sostituzione operata con l’art. 16 del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, cui dovrà intendersi fatto ogni ulteriore riferimento), nell’escludere l’ammissibilità delle opposizioni regolate dagli articoli da 615 a 618 cod. proc. civ., configura un’ipotesi di improponibilità assoluta della domanda per carenza, nell’ordinamento, di una norma che riconosca e tuteli la posizione giuridica di chi intenda opporsi all’esecuzione o agli atti esecutivi (cfr. Cass. S.U. n. 212/99, Cass. S.U. n. 2090/02, Cass. n. 11038/04 e n. 565/06, tutte espressione dell’orientamento, con cui si è superata la più risalente giurisprudenza di legittimità che riteneva la carenza di giurisdizione: cfr, per quest’ultima, Cass. S.U. n. 2755/93, tra le altre).
La sentenza impugnata ha perciò erroneamente ritenuto esperibile, nel caso di specie, un rimedio, quale quello oppositivo ex art. 615 cod. proc. civ., assolutamente improponibile da parte dell’odierna ricorrente e sulla base di tale errato presupposto ha ritenuto che, non essendosi la S. avvalsa di detto rimedio, le sarebbe stata preclusa ogni altra forma di tutela della posizione giuridica, che si assume lesa dall’esecuzione esattoriale illegittimamente portata compimento ai suoi danni.
Né è utile il richiamo fatto in sentenza al precedente di questa Corte avente il n. 7036/03, poiché relativo a procedura esecutiva ordinaria, quindi espressione di un principio (quello per il quale «il debitore espropriato non può esperire, dopo la chiusura del procedimento di esecuzione forzata, l’azione di ripetizione di indebito contro il creditore procedente per ottenere la restituzione di quanto costui abbia riscosso, sul presupposto dell’illegittimità per motivi sostanziali dell’esecuzione forzata, atteso che la legge, pur non attribuendo efficacia di giudicato al provvedimento conclusivo del procedimento esecutivo, tuttavia sancisce la irrevocabilità dei relativi provvedimenti una volta che essi abbiano avuto esecuzione (art. 487 cod. proc. civ.), sicché la proposizione dell’azione di ripetizione dopo la conclusione dell’esecuzione e la scadenza dei termini per le relative opposizioni sarebbe in contrasto con i principi ispiratori del sistema e con le regole specifiche sui modi e sui termini delle opposizioni esecutive, con la conseguenza che la eventuale restituzione, successivamente all’esecuzione forzata, è correlabile solo ad una perdita di validità della procedura esecutiva legalmente accertata» ribadito anche di recente da Cass. n. 17371/11) che non può trovare applicazione nel sistema dell’esecuzione esattoriale, per quanto detto in tema di rimedi oppositivi endoesecutivi, fatto salvo quanto invece sì dirà a proposito del richiamo ai rimedi restitutori- risarcitori conseguenti all’accertata perdita di legalità della procedura esecutiva.
La non conformità a diritto, per contrasto con l’art. 54, comma secondo, del D.P.R. n. 602 del 1973, del presupposto da cui la Corte d’Appello ha preso le mosse e quindi l’erroneità della conclusione raggiunta comportano la cassazione con rinvio della sentenza impugnata.
3.1. – In sede di rinvio, dovrà il giudice di merito verificare, esperiti gli accertamenti di fatto utili allo scopo, se spetti, nel caso concreto, a seguito ed a causa del compimento dell’esecuzione esattoriale, una qualche forma di tutela della posizione soggettiva che l’esecutata assume essere stata lesa per la ritenuta illegittimità dell’esecuzione, tra quelle dalla medesima invocate con l’atto introduttivo del giudizio.
In particolare, occorre verificare se questa tutela possa essere assicurata, come ribadito con l’appello incidentale, con l’actio nullitatis: ciò, che presuppone l’avvenuto accertamento, non tanto della carenza di potere dell’Amministrazione finanziaria per l’insussistenza del credito tributario, quanto dell’originaria nullità o dell’intervenuta caducazione del titolo esecutivo in forza del quale l’azione esecutiva è stata intrapresa dall’esattore, potendo rilevare a tale fine le vicende dell’accertamento tributario, nei limiti in cui siano state già tempestivamente e validamente dedotte nei pregressi gradi di merito.
Sotto questo profilo acquista significato l’eventuale legale accertamento della perdita di validità della procedura esecutiva: si tratta di ipotesi, che (come pure dedotto dalla ricorrente, con la seconda delle doglianze esposta sub 2.B) è contemplata nel precedente n. 7036 del 2003 quale causa di retrattabilità dell’esecuzione, ove ancora possibile, ovvero quale presupposto per l’azione di restituzione di indebito; azione, quest’ultima, esercitata dalla S., sia pure in via subordinata, con l’atto introduttivo del primo grado di giudizio, e riproposta con l’appello incidentale, così come quella di arricchimento senza causa (della quale pure è detto da Cass. n. 7036/03).
Quanto alla tutela aquiliana, pur se non fondata sui commi terzo e quarto dell’art. 54 del D.P.R. n. 602 del 1973 (che, come detto sopra, si riferiscono alla condotta dell’esattore), potrebbe trovare il suo fondamento nella clausola generale dell’art. 2043 cod. civ. (non essendo applicabile, con riferimento all’esecuzione esattoriale, la norma speciale dell’art. 96, comma secondo, cod. proc. civ., che dell’art. 2043 cod. civ. costituisce l’ipotesi applicativa tipica nel caso di illegittimità dell’esecuzione forzata ordinaria), non essendo comunque sufficiente il solo accertamento dell’infondatezza della pretesa tributaria azionata in via esecutiva (cfr. Cass. n. 16589/05) ma dovendosi accertare che la condotta dell’Amministrazione finanziaria, nel promuovere l’azione esecutiva, abbia integrato gli estremi dell’illecito aquiliano, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo.
4. – La cassazione con rinvio comporta l’assorbimento del primo e del terzo motivo di ricorso, relativi, rispettivamente, ad un asserito giudicato formatosi sui presupposti dell’actio nullitatis e dell’azione ex art. 2041 cod. civ., la cui verifica va rimessa -ove ritenuta rilevante- al giudice di rinvio.
In conclusione, va accolto il secondo motivo di ricorso, assorbiti i restanti; la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa di cassazione.
PQM
Accoglie il secondo motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di cassazione.
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Numero Protocolo Interno : 662/2013