LA MASSIMA
1) La valutazione sulla fattibilità del piano compete in via esclusiva ai creditori che la esprimono tramite il voto e si fonda da un lato sulla relazione attestativa del professionista e dall’altro lato sui rilievi del commissario giudiziale, sì che il tribunale non può effettuare una valutazione di merito sulla fattibilità nel procedimento ai sensi dell’art.173, R.D. n.267/1942 (legge fallimentare).
2) Le condotte del debitore anteriori alla presentazione della domanda di concordato vengono in evidenza ai fini della revoca dell’ammissione alla procedura solo se rivestano una valenza decettiva, tali da potere PREGIUDICARE LA FORMAZIONE DI UN CONSENSO INFORMATO e non quando si tratti di comportamenti chiaramente individuati e resi noti ai creditori.
3) IL GIUDIZIO IN ORDINE ALLA FATTIBILITÀ DEL PIANO DI CONCORDATO SPETTA AI CREDITORI, sicché il tribunale non può procedere alla revoca dell’ammissione alla procedura sul ravvisato presupposto dell’assenza di detta fattibilità, né su tali basi può rifiutare l’omologazione, salvo che siano state proposte ed accolte opposizioni aventi specificamente ad oggetto questo profilo.
4) Nella proposta di concordato preventivo con cessione dei beni, salva diversa volontà delle parti, la misura del soddisfacimento dei creditori costituisce mera indicazione idonea a consentire ai creditori di esprimere il voto, ma non assurge a obbligazione contrattuale.
5) In tema di revoca dell’ammissione al concordato preventivo, secondo il procedimento disciplinato dall’art.173 legge fallimentare, DOPO LA RIFORMA di cui al d.lgs. 12 settembre 2007, n.169, LA NOZIONE DI ATTO IN FRODE, che opera – ai sensi del primo comma della disposizione fallimentare cit. – quale presupposto per detta revoca, ESIGE – alla luce del criterio ermeneutico letterale, ex art.12 Preleggi – che LA CONDOTTA DEL DEBITORE SIA STATA VOLTA AD OCCULTARE SITUAZIONI DI FATTO IDONEE AD INFLUIRE SUL GIUDIZIO DEI CREDITORI, cioè tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una valutazione diversa e negativa della proposta e, dunque, che esse siano state “accertate” dal commissario giudiziale, cioè da lui “scoperte”, essendo prima ignorate dagli organi della procedura o dai creditori; pertanto, nel concetto di “frode” non rientra qualunque comportamento volontario idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio e, quindi, risulta estraneo a tale qualificazione il comportamento del debitore che, già nel ricorso, abbia indicato gli atti di disposizione del patrimonio, stipulati anteriormente, implicanti la concessione di diritti di godimento a terzi e che, successivamente esaminati dal commissario giudiziale, siano ritenuti suscettibili di depauperare il detto patrimonio, così da scoraggiare l’acquisto degli immobili oggetto della cessione ai creditori, pregiudicando la fattibilità della proposta concordataria.
IL CASO
La società CASA ROSSA SPA ha presentato domanda di concordato preventivo con cessione dei beni ed è stata ammessa alla procedura.
Successivamente, a seguito della segnalazione del 16 giugno 2008 dei COMMISSARI GIUDIZIALI secondo la quale la società avrebbe compiuto, prima dell’ammissione alla procedura, presunti atti di frode per le quali sarebbero venute a mancare le condizioni per l’ammissibilità del concordato, il Tribunale, anche su istanza di fallimento di alcuni creditori HA REVOCATO L’AMMISSIONE AL CONCORDATO E DICHIARATO IL FALLIMENTO DELLA SOCIETÀ.
La fallita ha proposto reclamo avverso la sentenza di fallimento che è stato respinto dalla Corte d’appello.
Contro tale decisione la CASA ROSSA SPA ha proposto ricorso per cassazione sostanzialmente per i seguenti motivi.
1) per essere stata dichiarato il fallimento senza previa specifica convocazione della debitrice;
2) per essere stato ritenuto ammissibile un giudizio di valutazione da parte del tribunale sulla fattibilità del piano di concordato anche sulla base dell’erroneo presupposto che le percentuali indicate nella proposta di cessio bonorum fossero vincolanti;
3) per la ritenuta natura di atti di frode di pattuizioni contrattuali afferenti ai beni ceduti benché queste fossero esplicitate nella proposta;
LA DECISIONE
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ed ha rinviato la causa alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione ai fini della decisione.
In particolare i giudicidi piazza Cavour hanno ritenuto che al GIUDICE NON SPETTI UN GIUDIZIO SULLA FATTIBILITÀ DEL PIANO, né tanto meno un generale potere di controllo, non solo formale, ma anche sostanziale, sulla fattibilità del concordato, dovendosi limitare alla semplice esame della sussistenza dei presupposti formali.
La nuova legge fallimentare ha ridisegnato i ruoli degli organi preposti alle procedure concorsuali attribuendo al giudice il controllo della regolarità formale e sostanziale del procedimento finalizzato a consentire ai creditori di prendere le loro decisioni.
In tale ottica,l’indicazione di una percentuale di soddisfacimento dei creditori a fronte di una pressoché infinita gamma di possibili articolazioni della proposta di concordato,può avere un valore indicativo al fine di consentire ai creditori di esprimere il voto, ma non assurge a obbligazione contrattuale per cui il proponente assume unicamente l’impegno a mettere a disposizione dei creditori i beni dell’imprenditore liberi da vincoli ignoti che ne impediscano la liquidazione o ne alterino apprezzabilmente il valore.?
A ciò la Corte ha ben precisato che IL TRIBUNALE È PRIVO DEL POTERE DI VALUTARE D’UFFICIO IL MERITO DELLA PROPOSTA, in quanto tale potere appartiene solo ai creditori.
Con tale decisione inoltre è stata offerta le nozione del COMPORTAMENTO IN FRODE DEI CREDITORI relativamente ad atti di ATTI DI DISPOSIZIONE DEL PATRIMONIO IDONEI A PREGIUDICARE LE ASPETTATIVE DI SODDISFACIMENTO DEI CREDITORI.
Su punto la Corte ha precisato che la espressa enunciazione degli stessi nella DOMANDA DI CONCORDATO ha fatto si che i creditori fossero ampiamente partecipati in merito all’esistenza degli asseriti atti di disposizione potenzialmente idonei a modificare le prospettive di recupero.
La esplicita conoscenza di tali atti fa sì che gli stessi non possono essere considerati come atti di frode in quanto i creditori al momento della votazione hanno la facoltà di compiere le valutazioni di competenza, esprimendo il voto negativo.?
IL COMMENTO
La Corte ha riaffermato nuovamente che la volontà dei creditori nelle procedure di concordato è sovrana e che non vi è alcuna rilevanza della meritevolezza del debitore per l’accesso alla soluzione concordataria.
Anche di fronte a condotte eccentriche da parte dell’imprenditore, ove espressamente dichiarate ed esplicitate nella proposta di concordato, resta nelle mani dei creditore la volontà SUPREMA di accettare la proposta facendo prevalere il giudizio positivo con una valutazioni di carattere puramente economico, per cui il creditore sarà libero di decidere se affidare la liquidazione ad una esecuzione singolare o collettiva in sede fallimentare, atteso che il Tribunale è privo del potere di valutare d’ufficio il merito della proposta.
LA SENTENZA
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
CASA ROSSA SPA in persona del legale rappresentante pro tempore,
RICORRENTE
contro
CASA ROSSA SPA FALLITA, in persona dei curatori pro tempore
CONTRORICORRENTE
e contro
CREDITORE GRIGIO e CREDITORE GIALLO
CONTRORICORRENTI
e contro
ALTRI CREDITORI OMESSI ;
INTIMATI
per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Cagliari n. 11/09 VG depositata il 30 settembre 2009;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del 9 aprile 2008 il Tribunale di Cagliari ha ammesso alla procedura di concordato preventivo la società CASA ROSSA SPA.
In esito alla segnalazione del 16 giugno 2008 dei COMMISSARI GIUDIZIALI secondo la quale la società avrebbe compiuto, prima dell’ammissione alla procedura, atti di frode e sarebbero venute a mancare le condizioni per l’ammissibilità del concordato, il Tribunale, dopo alcune udienze svoltesi anche alla presenza di creditori, alcuni dei quali hanno insistito per l’accoglimento delle loro istanze di fallimento, e alla presentazione da parte della debitrice di atti di integrazione e modificazione dell’originaria proposta, con separati provvedimenti entrambi datati 13 marzo 2009 HA REVOCATO L’AMMISSIONE AL CONCORDATO E DICHIARATO IL FALLIMENTO DELLA SOCIETÀ.
Oltre ad un reclamo contro il decreto di revoca dell’ammissione, dichiarato inammissibile dal giudice del gravame, la fallita ha proposto reclamo avverso la sentenza di fallimento che è stato respinto dalla Corte d’appello.
Contro tale decisione la CASA ROSSA SPA ricorre per cassazione affidandosi a DIECI MOTIVI con i quali, in sintesi, si deduce, sotto il profilo della violazione di legge e del difetto di motivazione, l’erroneità della decisione che ha confermato quella del tribunale a sua volta censurabile:
per essere stata dichiarato il fallimento senza previa specifica convocazione della debitrice;
per essere stato ritenuto ammissibile un giudizio di valutazione da parte del tribunale sulla fattibilità del piano di concordato anche sulla base dell’erroneo presupposto che le percentuali indicate nella proposta di cessio bonorum fossero vincolanti;
per la ritenuta natura di atti di frode di pattuizioni contrattuali afferenti ai beni ceduti benché queste fossero esplicitate nella proposta;
per omessa valutazione delle proposta integrative o alternative a quella ritenuta inammissibile; per la ritenuta mancanza della relazione sul valore dei beni oggetto di garanzia;
per la ritenuta inidoneità di una transazione stipulata nelle more del procedimento ad eliminare il danno conseguente ai presunti atti di frode.
Resistono con controricorso la curatela fallimentare nonché CREDITORE GRIGIO e CREDITORE GIALLO.
Le parti costituite hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Deve preliminarmente essere rilevata l’infondatezza dell’eccezione proposta dal PM e relativa all’improcedibilità del ricorso per la mancata produzione della copia autentica della sentenza impugnata corredata dalla relata di notifica.
Risulta invero dagli atti di causa, cui la Corte può accedere in considerazione dell’oggetto dell’eccezione, che la copia autentica della sentenza è stata ritualmente depositata, così come risulta depositata la copia autentica della comunicazione del dispositivo della decisione corredata dalla relata della notifica intervenuta in data 21 ottobre 2009.
Poiché “La previsione – di cui all’art.369 cpc, comma 2, n. 2, – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al comma 1 della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve… (omissis)…. (Cassazione civile, sez. 3′, 11/05/2010, n. 11376) la circostanza che sia stata depositata la copia autentica della notifica del dispositivo della sentenza, che ovviamente non può che aver preceduto la notifica di quest’ultima (se avvenuta), è sufficiente a provare la tempestività del ricorso essendo stato questo proposto nel termine di trenta giorni decorrente dalla notifica indicata.
Con il PRIMO MOTIVO di ricorso si deduce la violazione della Legge Fallimentare, artt.15 e 173, addebitandosi alla Corte d’appello di aver escluso la violazione del diritto di difesa della debitrice pur avendo omesso il Tribunale di convocarla in camera di consiglio per interloquire specificatamente in ordine alle istanze di fallimento.
Il motivo non è fondato in quanto, come risulta dalla parte narrativa dell’impugnata decisione, alla prima udienza (3 luglio 2008) tenutasi nell’ambito del procedimento apertosi per la revoca dell’ammissione al concordato comparvero anche i creditori che avevano già presentato ricorso Legge Fallimentare, ex art.6, “e tra loro numerosi avanzarono istanza per la dichiarazione di fallimento“ di cui fu dato atto a verbale; seguirono poi altre udienze e scambi di memorie fino a quando, in data 13 marzo 2009, il Tribunale revocò con decreto l’ammissione al concordato e, con sentenza in pari data, dichiarò il fallimento.
Anche prescindendo (ma la circostanza sarebbe già di per sè decisiva) da quanto risulta dalla motivazione della sentenza di fallimento, riportata dalla ricorrente, secondo cui “dell’apertura d’ufficio del procedimento per la revoca dell’ammissione della CASA ROSSA SPA dal concordato e per l’eventuale successiva dichiarazione di fallimento è stata data comunicazione alla società, ai commissari giudiziali, al Pubblico Ministero ed ai creditori ed è stata disposta la comparizione delle parti e dei creditori in camera di consiglio davanti al Tribunale“, non vi è dubbio che la formale conoscenza da parte della debitrice nell’ambito del procedimento di cui alla Legge fallimentare, art.173, dell’esistenza di un’iniziativa per la dichiarazione di fallimento sia sufficiente ad integrare la “indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento” richiesta dalla Legge Fallimentare, art.15, comma 4, quale monito in ordine al possibile esito della procedura e invito ad esercitare, volendo, il diritto di difesa dal momento che dal tenore dell’art.173, comma 2, emerge chiaramente che a conclusione del procedimento di revoca dell’ammissione e se ne sussistono i presupposto processuali e sostanziali viene emessa la sentenza di fallimento senza ulteriori adempimenti procedurali.
Non è dunque corretta la tesi difensiva secondo la quale la presenza di iniziative per la dichiarazione di fallimento comporta che debba farsi luogo a procedimenti distinti ma è vero invece che l’accertamento del tribunale e correlativamente l’ambito della difesa del debitore attengono ad una fattispecie più complessa nella quale uno dei presupposti per la dichiarazione di fallimento è la revocabilità dell’ammissione al concordato.
Di ciò convincono non solo la lettera della norma, che non a caso prevede che “all’esito del procedimento“, che quindi è unico, il tribunale provvede alla revoca dell’ammissione e alla dichiarazione di fallimento, ma la stessa struttura del medesimo che è quella disciplinata dall’art.15 e quindi non frazionabile in autonomi sub procedimenti di cui oltretutto non si avverte la necessità, stante la complementarietà delle questioni trattate e la piena possibilità di difendersi contestualmente su tutte una volta conosciuta l’intervenuta iniziativa.
Come esposto in narrativa, la dichiarazione di fallimento della ricorrente è strettamente connessa alla contestuale revoca dell’ammissione al concordato preventivo in precedenza accordata, essendo stata emessa nell’ambito del procedimento disciplinato dalla Legge Fallimentare, art.173, comma 2.
Peraltro, e a parte le esaminate doglianze attinenti a pretesi vizi procedurali della fase prefallimentare, i motivi del ricorso attengono non già alla insussistenza dei presupposti di cui all’art.5 e quindi dei presupposti tipici della dichiarazione di fallimento, ma all’insussistenza di quelli per la revoca dell’ammissione al concordato preventivo.
Non vi è dubbio che l’allegazione di motivi di contestazione del decreto di revoca dell’ammissione possano trovare ingresso nel procedimento di reclamo avverso la sentenza di fallimento emessa in esito al procedimento di cui alla Legge Fallimentare, art.173, anche se tale norma non ripropone il disposto dell’art.162, comma 3, che, con riferimento all’impugnazione della sentenza che dichiara il fallimento in esito alla ritenuta inammissibilità della proposta di concordato, prevede che “Contro la sentenza che dichiara il fallimento è proponibile reclamo a norma dell’art.18. Con il reclamo possono farsi valere anche motivi attinenti all’ammissibilità della proposta di concordato“.
Si tratta invero di due situazioni processuali assolutamente identiche per gli aspetti che qui interessano e non avrebbe alcuna logica trattare separatamente la questione sostanzialmente pregiudiziale relativa alla legittimità della revoca dell’ammissione nell’ambito di un autonomo procedimento di impugnazione che peraltro non viene espressamente previsto.
In tale ottica deve dunque essere valutato il SECONDO MOTIVO di ricorso con il quale si deduce innanzitutto violazione di legge (Legge Fallimentare artt.160, 161, 162 e 173) per avere la Corte d’appello ritenuto in consonanza con il Tribunale che al giudice spetti un giudizio sulla fattibilità del piano in quanto, come si legge nella premessa della motivazione “Le norme dettate in materia di concordato preventivo con la riforma del 2005 e successive modifiche lasciano intendere come sia demandato all’autorità giudiziaria un generale potere di controllo, non solo formale, ma anche sostanziale, sulla fattibilità del concordato, dovendosi escludere un ruolo dell’autorità giudiziaria di tipo per ed. notarile, limitato cioè al semplice esame della sussistenza dei presupposti formali“.
Il motivo è fondato.
La Corte d’appello, sulla base della richiamata dichiarazione di principio che non trova riscontro nella nuova legge fallimentare che ha ridisegnato i ruoli degli organi preposti alle procedure concorsuali attribuendo al giudice il controllo della regolarità formale e sostanziale del procedimento finalizzato, per quanto qui interessa, a consentire ai creditori di prendere le loro decisioni con la responsabilità che deriva dall’essere i primi interessati al buon esito della procedura, confermando la decisione del tribunale ne ha avallato il duplice errore commesso.
Il primo errore è quello di ritenere che quando, come nella fattispecie, il concordato proposto assuma la forma della cessione dei beni, la percentuale di soddisfacimento indicata nella proposta sia vincolante e costituisca l’oggetto dell’obbligazione del proponente.
A parte l’impredicabilità, in linea generale, di un onere di indicare in ogni caso la percentuale di soddisfacimento dei creditori a fronte di una pressoché infinita gamma di possibili articolazioni della proposta di concordato e quindi delle possibilità di soluzioni che, anche coinvolgendo i creditori nella gestione dell’impresa attraverso l’attribuzione di quote di capitale, non consentono un’immediata quantificazione del risultato utile, e limitando il discorso all’ipotesi di cessione dei beni è noto come la stessa consista nell’attribuzione ai creditori del potere di disporre, attraverso gli organi della procedura, dei beni dell’imprenditore e di rivalersi sul ricavato.
Nessuna specifica disposizione prevede espressamente l’onere di indicare la percentuale di soddisfacimento che, in esito alla liquidazione, i creditori otterranno ma si può convenire con l’opinione secondo la quale tale indicazione, come quella relativa ai presumibili tempi della liquidazione, siano necessarie al fine della determinatezza e piena intellegibilità della proposta di concordato.
Ciò non significa, tuttavia, che in difetto di esplicita assunzione di un’obbligazione in tal senso, detta percentuale costituisca oggetto dell’obbligazione che il proponente si assume in quanto ciò equivarrebbe a ritenere sempre necessario che il concordato assuma quantomeno la forma del concordato misto nel quale la cessione dei beni è accompagnata dall’impegno a garantire ai creditori una percentuale minima di soddisfacimento.
In realtà, oggetto dell’obbligazione può ben essere, e tale è in difetto di diversa ed inequivoca assunzione di responsabilità, unicamente l’impegno a mettere a disposizione dei creditori i beni dell’imprenditore liberi da vincoli ignoti che ne impediscano la liquidazione o ne alterino apprezzabilmente il valore, assumendo l’indicazione della percentuale unicamente una funzione chiarificatrice del presumibile risultato del completamento del piano di concordato. In altri termini, il proponente, ovviamente sulla base di dati concretamente apprezzabili, indica ai creditori la prospettiva che ritiene plausibile e questi, approvando la proposta, condividono la valutazione e quindi accettano il rischio di un diverso esito della liquidazione comparandone la complessiva convenienza con riferimento alle alternative praticabili (esecuzione singolare o collettiva in sede fallimentare).
Sulla base dell’erroneo convincimento che il proponente avesse fatto oggetto dell’impegno che chiedeva di assumere il pagamento di determinate percentuali la Corte di appello ha avallato l’ulteriore errore in cui è incorso il tribunale consistente nell’assunto a mente del quale al giudice sarebbe consentita una valutazione della fattibilità del piano di concordato e quindi un giudizio di inammissibilità della proposta (nella specie in sede di procedimento Legge Fallimentare, ex art.173, per intervenuto accertamento dell’insussistenza delle condizioni prescritte per l’ammissibilità del concordato).
Sul punto è già intervenuta la Corte che, con sentenza n.21860 del 25/10/2010, ha affermato il principio secondo cui “In tema di concordato preventivo, nel regime conseguente all’entrata in vigore del D.Lgs. n.169 dei 2007, che è caratterizzato da una prevalente natura contrattuale, e dal decisivo rilievo della volontà dei creditori e del loro consenso informato, il controllo del tribunale nella fase di ammissibilità della proposta, ai sensi della Legge Fallimentare, artt.162 e 163, ha per oggetto solo la completezza e la regolarità della documentazione allegata alla domanda, senza che possa essere svolta una valutazione relativa all’adeguatezza sotto il profilo del merito; ne consegue che, quanto all’attestazione del professionista circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, il giudice si deve limitare al riscontro di quegli elementi necessari a far sì che detta relazione – inquadrabile nel tipo effettivo richiesto dai legislatore, dunque aggiornata e con la motivazione delle verifiche effettuate, della metodologia e dei criteri seguiti – possa corrispondere alla funzione, che le è propria, di fornire elementi di valutazione per i creditori, dovendo il giudice astenersi da un’indagine di merito, in quanto riservata, da un lato, alla fase successiva ed ai compiti del commissario giudiziale e, dall’altro, ai poteri di cui è investito lo stesso tribunale, nella fase dell’omologazione, in presenza di un’opposizione, alle condizioni di cui alla Legge Fallimentare, art.180, (Principio affermato dalla S.C. in sede di cassazione, con rinvio, del decreto con cui il tribunale aveva “rigettato” la domanda di ammissione alla procedura di concordato, in realtà pronunciandone l’inammissibilità, con valutazioni sul merito della fattibilità del piano concordatario e con modalità decisorie, dalle quali è conseguita l’ammissibilità del ricorso ex art.111 Costituzione)”.
Tale principio, che il Collegio pienamente condivide, è applicabile non solo alla fase di valutazione dell’ammissibilità del concordato ma anche in sede di riesame della proposta Legge Fallimentare, ex art.173.
E’ vero che, a differenza di quanto avviene in occasione dell’esame di ammissibilità della proposta, il tribunale avrebbe il conforto dell’apporto conoscitivo e valutativo de commissario giudiziale, ma questo in realtà non è destinato al giudice ma alla platea dei creditori che possono così comparare la proposta e le valutazione dell’esperto attestatore con la relazione redatta da un organo investito di una pubblica funzione; resta sempre, infatti, insuperabile il rilievo secondo cui IL TRIBUNALE È PRIVO DEL POTERE DI VALUTARE D’UFFICIO IL MERITO DELLA PROPOSTA, in quanto tale potere appartiene solo ai creditori così che solo in caso di dissidio tra i medesimi in ordine alla fattibilità, denunciabile attraverso l’opposizione all’omologazione, il tribunale, preposto per sua natura alla soluzione dei conflitti, può intervenire risolvendo il contrasto con una valutazione di merito in esito ad un giudizio, quale è quello di omologazione, in cui le parti contrapposte possono esercitare appieno il loro diritto di difesa del tutto inattuabile, invece e almeno per quanto concerne i creditori, nella fase in esame.
Tali considerazioni comportano che non possa assumere rilievo la considerazione della Corte di merito secondo la quale, come avrebbe accertato il tribunale, “i creditori chirografari non avrebbero ricevuto alcunchè“.
A parte la considerazione che tale affermazione è contestata nel motivo di ricorso in esame che riporta una diversa lettura della sentenza di primo grado, ciò che rileva è che dovendosi logicamente escludere che la stessa proposta non prevedesse alcun pagamento in favore dei chirografari, in quanto se così fosse l’inammissibilità sarebbe stata rilevata e pronunciata immediatamente in sede di esame della proposta stessa in quanto difforme dal modello legale, il giudizio della Corte d’appello è frutto evidentemente di una diversa valutazione dell’esito della liquidazione dei beni e quindi ancora una volta di una valutazione in concreto e di merito della fattibilità della proposta di concordato in modo difforme dal proponente, operazione, questa, che si è già rilevato non essere consentita al giudice prima del giudizio di omologazione e in assenza di esplicita richiesta di un creditore.
Con il TERZO MOTIVO di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione della Legge Fallimentare, art.173, per avere la Corte di merito RITENUTO INTEGRARE UN COMPORTAMENTO IN FRODE DEI CREDITORI e quindi tale da comportare la revoca dell’ammissione del concordato L’AVVENUTA STIPULAZIONE, anteriormente alla presentazione della proposta di concordato, DI ATTI DI DISPOSIZIONE DEL PATRIMONIO IDONEI A PREGIUDICARE LE ASPETTATIVE DI SODDISFACIMENTO DEI CREDITORI: in particolare tali atti, come risulta dalla motivazione della decisione impugnata, consistevano “in una serie di contratti stipulati dalla proprietà concordataria con tale società BIANCO SRL e con altre entità societarie a questa collegate che avevano di fatto depauperato il patrimonio della Società“, contratti che, per la loro durata, avrebbero scoraggiato l’acquisto degli immobili oggetto della cessione ai creditori.
La censura, che attiene al nucleo fondamentale della controversia sottoposta alla Corte, è fondata.
A parte la considerazione che la valutazione secondo cui gli immobili oggetto della cessione dei beni non sarebbero stati facilmente vendibili a causa dei contratti di godimento che li concernevano appartiene al novero delle valutazioni attinenti alla fattibilità del piano, come tali non consentite nella fase anteriore all’omologazione, ciò che rileva è l’errore di diritto compiuto dal giudice del merito nell’individuare nella descritta attività del debitore proponente un’ipotesi di atto in frode ai creditori nell’accezione propria della Legge Fallimentare, art.173, come tale idoneo ad integrare un caso di revoca dell’ammissione.
E’ innanzitutto necessaria una premessa in fatto: l’esistenza dei contratti in questione e il loro contenuto NON SONO STATI NASCOSTI AI CREDITORI e accertati solo in seguito alle indagini del commissario giudiziale ma sono stati CHIARAMENTE ESPOSTI NELLA DOMANDA DI CONCORDATO.
Tale circostanza è pacifica come risulta anche dal tenore del controricorso e dalla motivazione della sentenza del tribunale nello stesso testualmente riportata dalla quale emerge che ciò che è stato occultato ai creditori secondo il giudice del merito (e della rilevanza di tale elemento si dirà infra) non è l’esistenza dei contratti ma la circostanza che gli stessi hanno causato un depauperamento del patrimonio della debitrice e sarebbero stati posti in essere da amministratori che, in considerazione delle condizioni della società, avrebbero dovuto astenersi dal compiere atti di un tale rilievo.
Il problema che allora si pone e che non è ancora stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità (se non in una risalente pronuncia non invocabile in considerazione del mutato panorama legislativo) attiene alla portata del concetto di frode ai creditori applicabile al disposto della Legge Fallimentare, art.173, dovendosi accertare, in sintesi, se tale concetto ricomprenda qualunque comportamento volontario idoneo a pregiudicare le aspettative di soddisfacimento del ceto creditorio oppure se tale sia solo la condotta volta ad occultare situazioni di fatto idonee ad influire sul giudizio dei creditori stessi e quindi tali che, se conosciute, avrebbero presumibilmente comportato una diversa (ovviamente negativa) valutazione della proposta.
Poiché il primo canone ermeneutico è quello individuato dall’art.12 preleggi, è opportuno prendere le mosse dalla lettera della norma a mente della quale “Il commissario giudiziale, se accerta che il debitore ha occultato o dissimulato parte dell’attivo, dolosamente omesso di denunciare uno o più crediti, esposto passività insussistenti o commesso altri atti di frode, deve riferirne immediatamente al tribunale, il quale apre d’ufficio il procedimento per la revoca dell’ammissione al concordato…” (Legge Fallimentare, art.173, comma 1).
La prima osservazione che deve essere fatta in base alla formulazione della norma è che L’ATTO DI FRODE, per avere rilievo ai fini della revoca dell’ammissione, deve essere “accertato” dal commissario giudiziale e quindi dallo stesso “scoperto” essendo prima ignorato dagli organi della procedura o dai creditori, non potendosi certo attribuire al termine “accerta” il significato di “trova la conferma di quanto già enunciato nella domanda” in ordine a determinati eventi.
D’altra parte, la circostanza che l’evento “accertato” per essere tale dovesse essere prima ignoto è logicamente desumibile dalla considerazione che se la norma si volesse riferire alla segnalazione di eventi già noti al momento dell’ammissione alla procedura la segnalazione degli stessi da parte del commissario costituirebbe una sollecitazione al tribunale a riprendere in considerazione e a diversamente valutare fatti già ritenuti non ostativi all’ammissione e quindi, in sostanza, l’esercizio di un potere di sollecitazione di una pronuncia giurisdizionale modificativa di una precedente che costituirebbe una straordinaria deviazione dalle funzioni proprie dell’organo che sono unicamente consultive.
Già solo, dunque, alla luce di tali considerazioni la pronuncia della Corte che ha dato rilievo a fatti già noti al momento dell’ammissione non sarebbe condivisibile.
Ma vi è di più.
Il legislatore enuncia espressamente alcuni dei possibili comportamenti rilevanti (occultamento o dissimulazione di parte dell’attivo, dolosa omissione dell’esistenza di crediti, esposizione di passività inesistenti) e con una evidente disposizione di chiusura integra tale elencazione, indicativa e non tassativa, con il richiamo ad “altri atti di frode“.
Non pare contestabile, stante l’utilizzo dell’aggettivo “altri“, che abbia inteso creare un collegamento con la precedente elencazione nel senso che i comportamenti espressamente indicati sono atti di frode e che nella stessa categoria rientrano quegli altri comportamenti che hanno le stesse caratteristiche distintive. E allora non può non rilevarsi che gli atti elencati non sono accomunati, ad esempio, dall’attitudine a creare un danno al patrimonio, posto che tale attitudine non ha l’esposizione di passività inesistenti, mentre invece un minimo comune denominatore è dato dalla loro attitudine ad ingannare i creditori sulla reali prospettive di soddisfacimento in caso di liquidazione, sottacendo l’esistenza di parte dell’attivo o aumentando artatamente il passivo in modo da far apparire la proposta maggiormente conveniente rispetto alla liquidazione fallimentare. In altri termini, si tratta di comportamenti volti a pregiudicare la possibilità che i creditori possano compiere le valutazioni di competenza avendo presente l’effettiva consistenza e la reale situazione giuridica degli elementi attivi e passivi del patrimonio dell’impresa. Ma se tale è la connotazione unificante degli atti espressamente individuati dal legislatore come fraudolenti la stessa connotazione debbono avere gli altri indefiniti comportamenti dell’imprenditore per poter essere qualificati atti di frode.
Se questa è l’interpretazione che si ricava dalla lettera della legge, allo stesso risultato interpretativo deve giungersi in base a considerazioni di carattere sistematico.
Si è già osservato come al tribunale non competa nella fase preparatoria della votazione sulla proposta da parte dei creditori alcuna valutazione in ordine alla fattibilità della stessa. Si deve aggiungere che, pacificamente, non gli compete più, alla luce della riforma e salvo che in sede di omologazione e dietro esplicita richiesta nel concordato per classi (art.180, comma 4), un giudizio di convenienza sulla proposta stessa.
Compete invece al giudice, oltre al controllo della regolarità del procedimento, di garantire che ai creditori vengano forniti tutti gli elementi necessari per una corretta valutazione della proposta e che questa venga effettuata con modalità tali da rispecchiare l’effettiva volontà dei creditori. E’ conferma della prima esigenza l’esame della proposta e del piano sotto il profilo della chiarezza e completezza e della relazione dell’esperto attestatore sotto quello dell’affidabilità della verificazione dei dati e della logicità, completezza e congruità della motivazione del giudizio di fattibilità (Cass. Sentenza n.21860 del 25/10/2010, citata) mentre esprime l’esigenza di garantire una corretta manifestazione del voto l’esame d’ufficio che deve compiere il tribunale nel casi di concordato con classi della rispondenza dei criteri di formazione delle stesse al canone legale (controllo, questo, espressamente previsto dall’art.125, comma 3, in tema di concordato fallimentare ma implicitamente imposto al tribunale dall’art.162, comma 2, che richiede il controllo di rispondenza della proposta anche al disposto dell’art.160 che, a sua volta, detta il criterio per la formazione delle classi).
Se tale è dunque il ruolo del tribunale nella fase prodromica al voto dei creditori e prescindendo da ogni considerazione in ordine al rilievo e alla natura delle altre condotte illegittime individuate nell’art.173, u.c., che nella fattispecie non assumono rilevanza in quanto collocate nel corso di procedura pare evidente che in tanto i comportamenti del debitore anteriori alla presentazione della domanda di concordato possono essere valutati ai fini della revoca dell’ammissione al concordato in quanto abbiano una valenza decettiva ed quindi siano tali da pregiudicare un consenso informato, ipotesi questa che deve escludersi in relazione a condotte, come quella in esame, chiaramente individuate e rese note agli interessati al concordato. Deve aggiungersi, per completezza, che l’acclarato ruolo di garanzia comporta la possibilità di intervento anche dopo la manifestazione di voto in quanto la scoperta degli atti di frode impone l’interruzione di un procedimento in cui il momento essenziale del giudizio dei creditori sulla proposta è viziato dalla accettata falsa rappresentazione della realtà sul quale il giudizio stesso è fondato.
A conferma di quanto argomentato in ordine all’interpretazione evolutiva del concetto di frode da applicarsi alla norma in esame alla luce dell’attuale struttura del concordato preventivo non è inutile osservare che se si attribuisse al medesimo il generico significato di atti pregiudizievoli per i creditori dovrebbero ricomprendersi nello stesso anche tutti gli atti revocabili che l’art.203, comma 2, definisce per l’appunto “atti compiuti in frode dei creditori” con la conseguenza che nessun concordato proposto in presenza dell’insolvenza sarebbe, di fatto, ammissibile.
Può in conclusione osservarsi che nessun intervento sul patrimonio del debitore è di per sè qualificabile come atto di frode ma solo l’attività del proponente il concordato volta ad occultarlo in modo da poter alterare la percezione dei creditori circa la reale situazione del debitore influenzando il loro giudizio, ogni diversa interpretazione attribuendo alla disposizione in esame una connotazione di incomprensibile ed incongruo fossile normativo del tutto incompatibile con la nuova disciplina in quanto reintrodurrebbe, in sostanza, il requisito, apertamente ripudiato dal legislatore, della meritevolezza da valutarsi da parte del tribunale.
Nè vale l’obbiezione secondo la quale così argomentando si legittimano manovre in danno dei creditori volte ad alterare la consistenza patrimoniale prima della proposta di concordato.
L’argomento coglie un aspetto di possibile criticità della disciplina ma non sposta i termini del problema e la sua soluzione anche se merita una puntualizzazione.
L’esclusione di una qualsiasi rilevanza della meritevolezza del debitore per l’accesso alla soluzione concordataria e quindi per l’esclusione della soggezione al fallimento è un chiaro indice che per quanto concerne la sfera dei rapporti patrimoniali il legislatore ha fatto una scelta assolutamente netta che è quella di far prevalere l’interesse dei creditori alla soluzione della crisi dell’impresa per loro più conveniente in una certa situazione data, indipendentemente, salvo i limiti indicati, dal grado di eccentricità della condotta del debitore dal modello di correttezza imprenditoriale: non rileva attraverso quali operazioni l’impresa si trovi in una certa situazione patrimoniale ma ciò che conta è il giudizio che i creditori danno del loro interesse a fronte di una situazione di fatto e della valutazione di convenienza che gli stessi compiono della soluzione proposta rispetto all’alternativa fallimentare con ciò che questa comporta in relazione alla possibilità di revoca (nella specie pacificamente insussistente) o di annullamento degli atti in ipotesi maggiormente dannosi.
Questo non significa che determinate condotte non trovino una sanzione. A parte infatti la possibilità che siano gli stessi creditori a rigettare la proposta facendo prevalere il giudizio negativo sul comportamento del debitore rispetto a valutazioni di carattere puramente economico, se determinate condotte costituiscono reato possono e debbono essere perseguite nella sede appropriata (Legge Fallimentare, art.236) ma tale piano deve essere tenuto distinto da quello concorsuale dove il giudizio sulla meritevolezza può essere un elemento di valutazione da parte dei creditori ma non un criterio per l’ammissione o l’omologazione del concordato.
C’è tuttavia un LIMITE IMPLICITO che è quello, più volte e anche di recente, richiamato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. prima, sentenza n.3274/10 ed altre ivi citate), DELL’ABUSO DEL DIRITTO che nella specie si declina nell’abuso dello strumento concordatario in violazione del principio di buona fede laddove emerga la prova che DETERMINATI COMPORTAMENTI DEPAUPERATIVI del patrimonio siano stati posti in essere con la prospettiva e la finalità di avvalersi dello strumento del concordato, ponendo i creditori di fronte ad una situazione di pregiudicate o insussistenti garanzie patrimoniali in modo da indurli ad accettare una proposta comunque migliore della prospettiva liquidatoria.
E’ indubbio che in presenza di una tale condotta (del cui accertamento, nella fattispecie, non vi è sicura traccia) il concordato non sia ammissibile in quanto rappresenterebbe il risultato utile della preordinata attività contraria al richiamato principio immanente nell’ordinamento.
L’accoglimento degli esaminati motivi rende privo di interesse l’esame di quelli ulteriori nonché dell’eccezione relativa alla tardiva produzione documentale da parte della ricorrente.
L’impugnata decisione deve dunque essere cassata e la causa rinviata, anche per le spese, alla stessa Corte d’appello che riesaminerà la controversia alla luce dei principi enunciati.
PQM
la Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo e il terzo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Cagliari in diversa composizione.
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