Testo massima
Deve essere riconosciuta la giurisdizione del giudice italiano in ordine alla decisione sull’istanza di fallimento di una società di capitali costituita in Italia che abbia trasferito la propria sede legale presso un diverso Stato membro dell’Unione europea, allorquando nella nuova sede statutaria non venga esercitata alcuna attività economica, né sia stata trasferito il centro dell’attività amministrativa, direttiva e organizzativa dell’impresa.
Lo hanno deciso le Sezioni Unite della Cassazione che sono state chiamate a decidere sulla sussistenza o meno della giurisdizione del giudice italiano in ordine alla dichiarazione di fallimento di una società di capitali che aveva trasferito la propria sede legale in uno Stato membro dell’Unione europea.
Per poter dare una risposta all’interrogativo, la Suprema Corte di Cassazione richiama il reg. CE/1346/2000 relativo alle procedure di insolvenza, nonché l’autorevole giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea maturata in materia.
L’art. 3 reg. CE/1346/2000 dispone che sono competenti ad aprire la procedura di insolvenza i giudici dello Stato membro nel cui territorio è situato il centro degli interessi principali del debitore. Con riferimento alle società e alle persone giuridiche, la norma prevede una presunzione, in quanto si presume che il centro degli interessi principali sia, fino a prova contraria, il luogo in cui si trova la sede legale.
Secondo quanto affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, il centro degli interessi principali di una società debitrice deve però essere individuato privilengiando il luogo dell’amministrazione principale della società che può essere determinato sulla base di elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi. Se gli organi amministrativi e di controllo di una società si trovano presso la sua sede statutaria e in questo luogo vengono prese le decisioni relative alla gestione in maniera riconoscibile dai terzi, la presunzione dettata dall’art. 3 reg. CE/1346/2000 del collegamento tra centro degli interessi principali e sede legale non può essere superata. Nel caso però in cui il luogo dell’amministrazione della società non si trovi presso la sua sede legale, la riferita presunzione può essere superata, qualora i valori sociali e l’attività di gestione sono concentrati presso uno Stato membro diverso rispetto a quello in cui la società ha formalmente la propria sede legale. Ciò può tuttavia avvenire solamente quando una valutazione complessiva di tutti gli elementi consenta di stabilire, in modo riconoscibile ai terzi, che il centro effettivo di direzione, gestione e controllo della società è situato presso un altro Stato membro dell’Unione Europea (Corte di giustizia dell’Unione Europea 20 ottobre 2011, n. 369/09; Corte di giustizia dell’Unione europea 15 dicembre 2011, n. 191/10; Corte di giustizia dell’Unione europea 2 maggio 2006, n. 341/04).
Sulla base di tali premesse, la Suprema Corte di Cassazione ha dunque ritenuto che sussista la giurisdizione del giudice italiano con riferimento all’istanza di fallimento presentata nei confronti di una società di capitali, costituita in Italia, che dopo il manifestarsi della crisi d’impresa ha trasferito la propria sede legale all’estero quando si verificano determinate condizioni.
Ciò può avvenire difatti quando i soci, gli amministratori o i soggetti che hanno maggiormente operato nell’interesse e per la società sono persone aventi la cittadinanza italiana e sono scevri da collegamenti significativi con lo Stato straniero;
Un ulteriore elemento che fa propendere per il riconoscimento della giuridiszione del giudice italiano può essere rappresentata anche dalla difficoltà di notificare l’istanza di fallimento presso la sede legale.
Sono questi tutti elementi che hanno consentito ai giudici di legittimità di ritenere che il trasferimento della società era preordinato allo scopo di sottrarre la compagine sociale al rischio di una prossima quanto probabile dichiarazione di fallimento.
Per la Suprema Corte di Cassazione infatti la presunzione di coincidenza del centro di interessi principali con il luogo della sede legale prevista dall’art. 3 reg. CE/1346/2000 deve ritenersi superata laddove nella nuova sede della società né venga concretamente esercitata alcuna attività economica né sia stata spostato il centro dell’attività amministrativa, direttiva e organizzativa dell’impresa.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11797/2011 proposto da:
ALFA S.R.L. IN LIQUIDAZIONE;
– RICORRENTE –
contro
BETA S.P.A.,;
– CONTRORICORRENTE –
e contro
FALLIMENTO ALFA S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, PROCURATORE GENERALE DELLA
REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI TRIESTE;
– INTIMATI –
avverso la sentenza n. 134/2011 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,
depositata il 16/03/2011;
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Udine del 6 dicembre
2010, la società ALFA s.r.l., in liquidazione, propose reclamo.
Eccepì
anzitutto il difetto di giurisdizione del giudice italiano, avendo essa
trasferito già da alcuni anni in (OMISSIS) la propria sede; sostenne che,
essendo stata cancellata da oltre un anno dal registro delle imprese italiano,
la L. Fall., art.10 avrebbe comunque precluso la dichiarazione di fallimento;
negò, infine, che ricorressero le condizioni poste dalla L. Fall., art.1, per
la propria assoggettabilità alla procedura concorsuale.
Con sentenza depositata in cancelleria il 16 marzo 2011 la Corte
d’appello di Trieste rigettò il reclamo.
Quanto alla giurisdizione, la corte territoriale osservò che il
trasferimento della sede della società all’estero appariva fittizio, giacchè,
in occasione del tentativo di notifica del ricorso per fallimento, l’asserita
sede francese era risultata inesistente, nè alcun dato era stato fornito dalla
reclamante che denotasse una qualche attività in (OMISSIS) della società, il
cui legale rappresentante risiedeva in Italia, dove si trovavano anche i pochi
beni residui della ALFA SRL, e qui la medesima società risultava tuttora
intestataria di una partita Iva.
Neppure l’intervenuta cancellazione dal
registro delle imprese italiano fu ritenuta ostativa alla dichiarazione di
fallimento, a norma del citato L. Fall., art.10, trattandosi di cancellazione
dovuta non già alla cessazione dell’attività bensì all’asserito trasferimento
della sede all’estero.
Almeno due dei tre parametri dimensionali indicati dal
pure citato art.1 della stessa legge fallimentare, quelli concernenti
l’ammontare dei debiti e l’entità dell’attivo, risultavano infine – a giudizio
della corte d’appello – superati, onde apparivano pienamente sussistenti le
condizioni per addivenire alla dichiarazione di fallimento.
Per la cassazione di tale sentenza la ALFA SRL ha
proposto ricorso, prospettando cinque motivi di doglianza, col primo dei quali
è tornata ad eccepire il difetto di giurisdizione del giudice italiano, onde il
ricorso è stato portato all’esame delle sezioni unite.
La BETA s.p.a., ad istanza della quale è stato dichiarato il
fallimento, ha resistito con controricorso.
Nessuna difesa ha spiegato il curatore fallimentare.
La ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il PRIMO motivo di ricorso investe il tema della giurisdizione,
poichè la società ricorrente assume che, avendo trasferito sin dall’anno 2005
la propria sede in (OMISSIS) ed avendo dato di ciò regolare pubblicità nel registro
delle imprese, solo al giudice francese compete dichiarane l’eventuale
fallimento. L’impugnata sentenza della corte d’appello di Trieste avrebbe
perciò violato l’art. 3 del regolamento CE/1346/2000, che, nell’attribuire la
competenza giurisdizionale per l’apertura di una procedura d’insolvenza al
tribunale dello Stato membro nel cui territorio si trova il centro principale
degli interessi dell’impresa debitrice, pone espressamente una presunzione di
corrispondenza di tale centro d’interessi con la sede legale della società,
quale indicata nel registro delle imprese.
2. La doglianza non è fondata.
La Corte di giustizia dell’Unione Europea, pur ribadendo che, nel caso
di trasferimento della sede statutaria di una società debitrice prima della
proposizione di una domanda di apertura di una procedura d’insolvenza, si
presume che il centro degli interessi principali di tale società si trovi
presso la nuova sede statutaria della medesima, ha con chiarezza indicato che,
per individuare il centro degli interessi principali di una società debitrice,
l’art.3, n. 1, seconda frase, del citato regolamento n.1346/2000 dev’essere
interpretato nel senso che tale centro degli interessi – da intendere con
riferimento al diritto dell’Unione – s’individua privilegiando il luogo
dell’amministrazione principale della società, come determinabile sulla base di
elementi oggettivi e riconoscibili dai terzi.
Pertanto, qualora gli organi
direttivi e di controllo di una società si trovino presso la sua sede
statutaria ed in quel luogo le decisioni di gestione di tale società siano
assunte in maniera riconoscibile dai terzi, la presunzione introdotta dalla
menzionata disposizione del regolamento non è superabile; ma, viceversa,
laddove il luogo dell’amministrazione principale della società non si trovi
presso la sua sede statutaria, la presenza di valori sociali nonchè l’esistenza
di attività di gestione degli stessi in uno stato membro diverso da quello
della sede statutaria di tale società possono essere considerate elementi sufficienti
a superare detta presunzione, a condizione che una valutazione globale di tutti
gli elementi rilevanti consenta di stabilire che, sempre in maniera
riconoscibile dai terzi, il centro effettivo di direzione e di controllo della
società stessa, nonchè della gestione dei suoi interessi, è situato in tale
altro stato membro (così Corte giustizia Unione Europea 20 ottobre 2011, n.
396/09; la necessità che in simili casi si faccia luogo ad una valutazione
globale dell’insieme degli elementi pertinenti al fine di accertare, in un modo
riconoscibile dai terzi, dove è situato il centro effettivo di direzione e di
controllo della società è stata poi confermata anche da Corte giustizia Unione
Europea 15 dicembre 2011, n. 191/10).
In questa logica l’esistenza di una
situazione reale, diversa da quella che si ritiene corrispondere alla
collocazione ufficiale della sede statutaria, può anche consistere nel fatto
che la società non svolge alcuna attività sul territorio dello stato membro in
cui è formalmente collocata la sua sede sociale (si veda, in argomento, Corte
giustizia Comunità Europee 2 maggio 2006, n. 341/04).
La dovuta trasposizione di siffatti principi nella giurisprudenza
nazionale ha già condotto in passato questa corte ad affermare che spetta al
giudice italiano la giurisdizione con riguardo all’istanza di fallimento
presentata nei confronti di società di capitali, già costituita in Italia che,
dopo il manifestarsi della crisi dell’impresa, abbia trasferito all’estero la
sede legale, nel caso in cui i soci, chi impersona l’organo amministrativo
ovvero chi ha maggiormente operato per la società, siano cittadini italiani
senza collegamenti significativi con lo stato straniero: circostanze che,
unitamente alla difficoltà di notificare l’istanza di fallimento nel luogo
indicato come sede legale, lasciavano chiaramente intendere come la delibera di
trasferimento fosse preordinata allo scopo di sottrarre la società dal rischio
di una prossima probabile dichiarazione di fallimento (Cass., sez. un., 20
luglio 2011, n. 15880; ed in termini sostanzialmente analoghi, con riferimento
ad un fittizio trasferimento della sede sociale in uno stato extracomunitario,
Cass., sez. un., 3 ottobre 2011, n. 20144). La presunzione di coincidenza del
centro degli interessi principali con il luogo della sede statutaria, stabilita
dall’art. 3, par. 1, del citato regolamento n. 1346/2000 del 29 maggio 2000,
deve infatti considerarsi vinta allorchè nella nuova sede non sia
effettivamente esercitata attività economica, nè sia stato spostato presso di
essa il centro dell’attività direttiva, amministrativa e organizzativa
dell’impresa (Cass., sez. un., 18 maggio 2009, n. 11398).
Da tale orientamento non v’è motivo di discostarsi, nè la corte
d’appello di Trieste se ne è discostata nel caso in esame, avendo fondato
l’affermazione della propria giurisdizione sull’accertamento di una situazione
di fatto in concreto diversa da quella risultante dalle indicazioni ufficiali
desumibili dal registro delle imprese ed essendo pervenuta a tale conclusione
all’esito di una valutazione globale dei dati di cui disponeva.
Valutazione
correttamente motivata, che ha preso le mosse dalla constatazione
dell’impossibilità di reperire la società nella sede ufficiale di (OMISSIS),
ove era stata inutilmente tentata la notifica del ricorso per fallimento, e che
si è congruamente sviluppata attraverso il rilievo della residenza in Italia
del legale rappresentante della medesima società, dello svolgimento sempre in
Italia delle pur sporadiche operazioni liquidatorie del patrimonio sociale e
della presenza qui dell’unico bene mobile ad essa sicuramente ancora
riferibile; con l’aggiunta del fatto che in Italia la medesima società ha
conservato la propria partita Iva.
A tali rilievi la corte distrettuale ha poi fatto seguire anche la
considerazione che l’eventuale esistenza di attività sociali svolte in
(OMISSIS) avrebbe potuto essere agevolmente dimostrata da parte della
reclamante, la quale invece nessun concreto elemento aveva allegato in tal
senso.
La ricorrente nega, in punto di fatto, che sia vero che la propria
partita Iva è rimasta attiva in Italia; ma, a parte il rilievo che trattasi di
una circostanza di per sè sola non dotata di importanza decisiva, in rapporto
alle altre considerazioni sopra riferite, va evidentemente escluso che una
simile contestazione possa trovare spazio in questa sede, giacchè
l’accertamento dei fatti non è compito del giudice di legittimità.
La medesima ricorrente obietta anche che, imputandole di non aver
fornito elementi idonei a confermare lo svolgimento di una qualche attività
sociale sul suolo francese, la corte d’appello avrebbe finito per violare la
presunzione di corrispondenza tra sede effettiva e sede legale della società,
alla luce della quale non era quest’ultima a dover fornire la prova che le è
stato rimproverato di non aver dato.
Ora, se è vero che non gravava certo sulla società l’onere di
dimostrare che il centro effettivo dei propri interessi corrisponda con
l’ubicazione della sede legale, è vero altresì che il capoverso dell’art.116
cpc – della cui applicazione nella presente materia non vi sarebbe ragione
di dubitare – consente sempre al giudice di desumere argomenti di prova dal
contegno delle parti nel processo.
Ed è innegabile che, in un quadro di
risultanze istruttorie già significativamente caratterizzato dall’accettata
irreperibilità all’estero della società presso la sede sociale, al momento
della notifica del ricorso, dal fatto che il legale rappresentante aveva
conservato la propria residenza in Italia e dalla individuazione unicamente in
Italia di beni ed attività ancora riferibili alla società, la mancanza da parte
dello stesso legale rappresentante di una qualsiasi indicazione – che avrebbe
pur dovuto essere agevole fornire – da cui desumere un qualche effettivo
collegamento dell’attività e dell’amministrazione della società col territorio
francese assume la valenza di un comportamento significativo, dal quale il
giudice legittimamente ha tratto argomento di prova.
3. Col SECONDO e TERZO motivo, che possono essere esaminati
congiuntamente, la società ricorrente sposta l’attenzione sugli effetti della
sua avvenuta cancellazione dal registro delle imprese per dedurne che, dopo un
anno da tale evenienza, non avrebbe comunque più potuto essere dichiarato il fallimento,
giusto quanto dispone la L. Fall., art.10, e che non si giustificherebbe
l’affermazione della corte d’appello che ha ritenuto tale disposizione
inapplicabile nel caso in cui la cancellazione dal registro consegua al
trasferimento della sede sociale all’estero.
4. Nemmeno sotto tale profilo il ricorso appare fondato.
La citata disposizione della L. Fall., art.10, che non consente la
dichiarazione di fallimento dell’imprenditore quando sia trascorso oltre un
anno dalla sua cancellazione dal registro delle imprese, ove si tratti di una
società di capitali va letta in combinazione con quanto stabilisce l’art.2495
cc (come novellato dal D.Lgs. n. 6 del 2003); norma, quest’ultima, che
contempla la cancellazione della società dal registro all’esito del
procedimento di liquidazione della stessa ed alla cancellazione ricollega
espressamente l’effetto estintivo dell’ente.
Ciò che il legislatore ha voluto
evitare, dunque, è che si possa addivenire alla dichiarazione di fallimento di
una società che abbia cessato di esistere da oltre un anno, nella medesima
logica per la quale il successivo art.11 della cit. legge permette che sia
dichiarato il fallimento di un imprenditore individuale entro l’anno dalla sua
morte.
Il presupposto perchè possa essere invocato il suddetto termine annuale,
con riguardo ad una società di capitali cancellata dal registro, risiede quindi
nella necessaria corrispondenza che il legislatore ha stabilito tra la
cancellazione e la cessazione dell’attività sociale, come del resto è reso ben
evidente anche dalla rubrica dello stesso citato art.10, che fa riferimento al
“fallimento dell’imprenditore che ha
cessato l’esercizio dell’impresa“.
Da questo discende che, nel caso in cui la cancellazione di una società
dal registro delle imprese italiano sia avvenuta non a compimento del
procedimento di liquidazione dell’ente, o per il verificarsi di altra
situazione che implichi la cessazione dell’esercizio dell’impresa e da cui la
legge faccia discendere l’effetto necessario della cancellazione, bensì come
conseguenza del trasferimento all’estero della sede della medesima società, e
quindi sull’assunto che questa continui invece a svolgere la propria attività
imprenditoriale, sia pure in altro stato, non v’è luogo per l’applicazione del
citato art.10.
Il trasferimento della sede all’estero, almeno nei casi – ed è
il caso della (OMISSIS) – in cui la legge applicabile nella nuova sede concordi
sul punto con i principi desumibili dalla legge italiana, non fa infatti venir
meno la continuità giuridica della società trasferita (cfr. Cass., sez. un., 23
gennaio 2004, n.1244, e Cass. 28 settembre 2005, n. 18944) e non ne comporta
quindi in alcun modo la cessazione dell’attività, com’è reso ben evidente anche
dal disposto dell’art. 2437 c.c., comma 1, lett. c), e art.2473 cc, comma 1.
Correttamente, pertanto, la corte d’appello ha escluso che, nella
fattispecie in esame, la cancellazione da oltre un anno della società ALFA SRL dal registro delle imprese di Udine, motivata non
dalla cessazione dell’attività bensì dall’asserito trasferimento della sede
sociale in (OMISSIS), potesse impedire la dichiarazione di fallimento di detta
società.
Non giova obiettare che, come dianzi detto, tale trasferimento di sede
all’estero è stato ritenuto fittizio dalla medesima corte d’appello: perchè, ai
fini che rilevano per l’applicazione del citato art.10, quel che conta è solo
che la cancellazione non sia stata operata sul presupposto della cessazione
dell’attività ma su un presupposto contrario.
Il che vale altresì a privare di
ogni rilievo le considerazioni della ricorrente circa l’obbligo di
cancellazione d’ufficio dal registro di una società che non abbia depositato
per tre anni i propri bilanci (art.2490 cc, u.c.), in quanto tale obbligo ovviamente
presuppone che il mancato deposito si riferisca a bilanci di una società che
dichiari di aver sede in Italia e sia perciò appunto iscritta nel registro
delle imprese italiano; nè si vede qual rilievo abbia, nella presente vicenda,
l’eventualità che la mancanza delle condizioni di legge per eseguire la
cancellazione, conseguente al dichiarato (ma fittizio) trasferimento della sede
all’estero, potesse dar luogo d’ufficio ad un successivo provvedimento di segno
contrario, a norma dell’art.2191 cc, e che un tale provvedimento non vi sia
stato.
5. Manifestamente infondato è anche il QUARTO motivo del ricorso, nel
quale si lamenta che il tribunale, prima, e la corte d’appello, poi, non
abbiano svolto indagini d’ufficio per accertare la presenza o meno nel caso di
specie dei limiti soggettivi di fallibilità stabiliti dalla L. Fall., art. 1.
Posto che il comma 2 della citata disposizione (nel testo modificato
dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n.169) grava il debitore dell’onere di provare
di essere esente dal fallimento dando dimostrazione del mancato superamento
congiunto dei parametri dimensionali ivi previsti (Cass. 31 maggio 2012, n.8769, Cass. 15 novembre 2010, n.23052, e Cass. 28 maggio 2010, n.13086), che
la stessa ricorrente neppure allega di avere sollecitato l’esercizio dei poteri
d’indagine officiosa del giudice su circostanze specificamente indicate in sede
di merito, nè di aver adempiuto all’onere di deposito posto a suo carico dal
successivo art. 15, comma 4 (sulla cui necessità si veda ancora Cass. n.8769/12, cit.); e posto che, viceversa, nell’impugnata sentenza si da atto
dell’esame ad opera della corte d’appello del fascicolo d’ufficio della
procedura fallimentare e di come da esso sia stato possibile individuare il
superamento di due dei tre parametri dimensionali solo la cui contemporanea
sussistenza avrebbe potuto impedire il fallimento, la doglianza appare priva di
sostanziale contenuto.
6. Inammissibile è, infine, il QUINTO motivo di ricorso: sia laddove
pretenderebbe un riesame – in sede di legittimità non consentito – dei dati di
fatto dai quali si vorrebbe desumere il mancato superamento delle soglie di
fallibilità alle quali sopra s’è accennato, senza peraltro confrontarsi con i
rilievi al riguardo contenuti nell’impugnata sentenza; sia laddove la
ricorrente intende riproporre la questione dell’asserita mancata rituale
convocazione nel corso della procedura prefallimentare, assumendo che la
relativa eccezione sarebbe stata genericamente rigettata.
A quest’ultimo
proposito è sufficiente osservare che la medesima ricorrente omette, a propria
volta, dedurre alcun elemento specifico in grado di superare l’osservazione
della corte d’appello circa il rispetto delle formalità di notifica dell’avviso
di convocazione a suo tempo inviato al legale rappresentante della società,
nella sua personale residenza, dopo che la notifica presso la sede sociale era
risultata impossibile.
7. Il rigetto del ricorso comporta la condanna della società ricorrente
al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in
dispositivo, non essendo fondata l’eccezione d’inammissibilità del
controricorso per indeterminatezza del suo contenuto, sollevata dalla
ricorrente nella memoria depositata a norma dell’art. 378 c.p.c., potendosi ben
intendere dal tenore di detto controricorso le ragioni della resistenza della
società BETA SPA all’impugnazione proposta dalla ALFA SRL
PQM
La corte rigetta il ricorso, dichiara la giurisdizione del giudice
italiano e condanna la società ricorrente al pagamento in favore della
controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro
5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre agli accessori di
legge.
Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2013
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