L’estinzione della società, con il conseguente fenomeno successorio dei rapporti obbligatori in capo ai soci, si realizza anche in caso di cancellazione obbligatoria dal registro delle imprese a seguito di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo. Restano però esclusi da tale fenomeno quei rapporti il cui mancato recupero giudiziale consenta di ritenere che la società vi abbia rinunciato a favore di una più rapida conclusione del procedimento liquidatorio.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Pres. Genovese – Rel. Iofrida, con l’ordinanza n. 13921 del 22.05.2019.
La Corte d’Appello di Firenze si è pronunciata riguardo ad un giudizio promosso da una società, nel frattempo fallita e cancellata dal Registro delle Imprese, nei confronti di un’altra società per l’inadempimento di un contratto di licenza. Il giudizio è stato riassunto, a seguito di interruzione, dall’ex amministratore e dai due soci della società attrice. In primo grado, il Giudice ha respinto la loro domanda; in secondo grado, la Corte d’Appello ha dichiarato inammissibile il gravame, per difetto di legittimazione sostanziale e processuale degli stessi.
Per tale motivo, l’ex amministratore e i soci della società cancellata hanno proposto ricorso per cassazione, nei confronti della società resistente con controricorso. Il ricorso è stato respinto.
La questione verte intorno alla legittimazione processuale delle parti, in seguito all’estinzione della società. La Suprema Corte, con un arresto giurisprudenziale del 2013 (sent. 6070/13, 6071/13 e 6072/13) ha precisato che, qualora una società venga cancellata dal Registro delle Imprese, viene a determinarsi un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori facenti capo all’ente non si estinguono ma si trasferiscono ai soci, i quali, quanto ai debiti sociali, ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda del regime giuridico dei debiti sociali cui erano soggetti. Laddove l’evento estintivo si verifichi nel corso del giudizio di merito, i soci-successori subentrano nella legittimazione processuale, facente capo all’ente, la cui estinzione è equiparabile alla morte della persona fisica, ai sensi dell’art. 110 c.p.c.
Nel caso in esame, la cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, ha privato della legittimazione ad causam, ai fini della proposizione o della prosecuzione del giudizio, la società stessa, ma anche l’ex rappresentante della società di capitali ed il liquidatore.
Bisogna poi determinare la natura dell’estinzione della società, che produce conseguenze diverse in ordine alla legittimazione processuale. La Corte ha infatti chiarito che, in ipotesi di cancellazione volontaria della società, si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, ma non anche le mere pretese ancorchè azionate o azionabili in giudizio, proprio perché emerge una volontà abdicativa della società.
Nella fattispecie, la società è stata cancellata d’ufficio, su richiesta del Curatore del fallimento, per mancanza dell’attivo. Nel caso di ripartizione dell’attivo, infatti, la chiusura del fallimento non è impedita dalla pendenza di giudizi ed il curatore: solo in quell’ipotesi, spiega la Cassazione, può mantenere la legittimazione processuale anche nei successivi stati e gradi del giudizio, fino alla definitiva conclusione della lite.
Per questo motivo i soci della società, fallita ed estinta, ai fini della necessaria verifica della loro legittimazione ad agire, non avendo preso parte in precedenza al giudizio instaurato dalla società, per poterlo riassumere in qualità di successori della stessa, avrebbero dovuto allegare di avere, anteriormente alla chiusura della procedura, portato a conoscenza del curatore del fallimento il fatto che un credito fosse sub iudice. Solo in tale ipotesi si poteva legittimamente ritenere che il credito fosse stato consapevolmente rinunciato dal curatore della società fallita, non avendo costui coltivato la res litigiosa, e, una volta cancellata la società, si fosse trasferito ai soci quali successori ex lege della società.
Per tali ragioni, la Suprema Corte ribadisce il principio secondo il quale, ai sensi della L. Fall., art. 118, n. 4, a seguito di chiusura del fallimento per insufficienza dell’attivo, si determina l’estinzione della società ed un fenomeno di tipo successorio, in forza del quale i rapporti obbligatori (ed i conseguenti crediti) facenti capo all’ente, ma che non siano stati realizzati dal curatore fallimentare, si trasferiscono ai soci in regime di contitolarità o comunione indivisa, salvo che il mancato espletamento del recupero giudiziale consenta di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento liquidatorio. Ove il credito litigioso pendente non sia stato portato, o dai soci o dagli amministratori o dai liquidatori, a conoscenza del curatore del fallimento, il quale non lo abbia perciò incluso tra le voci dell’attivo da realizzare, si deve legittimamente ritenere che esso ab origine sia stato tacitamente rinunciato dalla società e quindi non possa formare oggetto di recupero giudiziale in forza della legittimazione successoria dei soci a seguito della estinzione della società fallita.
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