ISSN 2385-1376
Testo massima
Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.
Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sè sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perchè si proceda ad una liquidazione siffatta, purchè siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purchè il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Primo Pres. Rovello Rel. Rordorf, con la sentenza del 6.05.2015 n. 9100, resa nell’ambito di una azione di responsabilità proposta una curatela fallimentare.
Nella fattispecie all’esame della Corte, una curatela fallimentare aveva promosso azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore unico della società fallita, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni, sia perchè egli aveva consentito la distrazione di beni custoditi in locali della società, sia perchè non aveva tenuto i libri sociali, sia perchè non aveva predisposto i bilanci relativi agli esercizi relativi agli anni 1994 e 1995 nè presentato ai competenti uffici dell’erario le prescritte dichiarazioni fiscali riguardanti quei medesimi anni.
Il Tribunale aveva accolto la domanda e condannato il convenuto al risarcimento dei danni, nella misura pari alla differenza tra il passivo e l’attivo rilevati nell’ambito della procedura di fallimento.
La Corte d’Appello di Napoli rigettava il gravame proposto dal convenuto, reputando che fosse stato accertato l’inadempimento, da parte del predetto dei doveri inerenti alla carica amministrativa da lui ricoperta e che fosse corretta la liquidazione del danno operata dal tribunale, stante l’impossibilità di ricostruire l’effettiva situazione patrimoniale della società fallita a causa della mancanza delle scritture contabili, imputabile allo stesso amministratore.
Veniva proposto ricorso per Cassazione.
La prima sezione della Suprema Corte, alla quale il ricorso era stato inizialmente affidato, ha ravvisato un disallineamento nella giurisprudenza della Cassazione in merito alla questione se, nei giudizi di responsabilità promossi da una curatela fallimentare nei confronti di amministratori di società di capitali fallite, sia o meno corretto liquidare il danno utilizzando il criterio della differenza tra l’attivo ed il passivo accertati nell’ambito della procedura concorsuale, quando la mancanza di scritture contabili, addebitabile allo stesso amministratore, impedisca di ricostruire quale sia stato l’effettivo andamento dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento.
Con ordinanza del 3.06.2014, il ricorso è stato perciò rimesso al Primo Presidente che lo ha asegnato alle Sezioni Unite.
Con il provvedimento in esame, la Suprema Corte, posta la questione dei limiti entro cui sia possibile utilizzare il criterio del dato costituito dalla differenza tra il passivo e l’attivo fallimentare, ai fini dell’accertamento e liquidazione del danno nelle azioni di responsabilità, muove il suo esame svolgendo un excursus delle pronunce di questa Corte in argomento.
La Corte prende le mosse dalle pronunce del 1977 che avevano affermato la possibilità che il danno risarcibile venga identificato nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.
Tale criterio differenziale era stato, poi, criticato non solo dalla dottrina, che ne aveva sottolineato l’inadeguatezza a dar conto del rapporto di causalità che deve susssistere tra il comportamento illegittimo addebitato agli organi sociali ed il danno risarcibile, ma da una sentenza del 1997, confermata da altra prununcia del 2000.
Tale ultimo orientamento aveva precisato come, in simili casi, il danno può essere identificato nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale della società solo qualora il dissesto economico ed il conseguente fallimento si siano verificati per fatto imputabile agli amministratori, liquidatori o sindaci convenuti in giudizio; e che quindi non basta a configurare la responsabilità di costoro che vi sia stato un disavanzo fallimentare, ma occorre dimostrare la specifica violazione dei doveri loro imposti dalla legge, in quanto la prova della violazione di tali obblighi non giustifica la condanna al risarcimento del danno se non si dimostri, da parte del curatore, che quelle violazioni hanno cagionato un pregiudizio alla società.
Questi principi sono stati confermati anche dalla giurisprudenza successiva, che ha insistito nell’affermare che il danno in questione non può essere commisurato alla differenza tra passivo ed attivo accertati in sede concorsuale: sia in quanto lo sbilancio patrimoniale della società insolvente potrebbe avere cause molteplici, non tutte riconducibili alla condotta illegittima degli organi sociali, sia in quanto questo criterio si pone in contrasto con il principio civilistico che impone di accertare l’esistenza del nesso di causalità tra la condotta illegittima ed il danno, con l’ulteriore precisazione, tuttavia, che il suaccennato criterio differenziale può costituire un parametro di riferimento per la liquidazione del danno in via equitativa, qualora sia stata accertata l’impossibilità di ricostruire i dati con l’analiticità necessaria per individuare le conseguenze dannose riconducibili al comportamento degli organi sociali; ma, in tal caso, il giudice del merito deve indicare le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli riconducibili alla condotta dei convenuti, nonchè, soprattutto qualora tale condotta non sia temporalmente vicina all’apertura della procedura concorsuale, la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, facendo riferimento alle circostanze del caso concreto.
Viene, poi, riportato l’orientamento introdotto da due sentenze intervenute nel corso dell’anno 2011, le quali, nel quadro giurisprudenziale descritto, pur muovendo anch’esse dalla premessa secondo cui nell’azione di responsabilità promossa dal curatore fallimentare contro gli ex amministratori e sindaci della società fallita compete all’attore dare la prova dell’esistenza del danno, del suo ammontare e del fatto che esso sia stato causato dal comportamento illecito dei convenuti, hanno reputato che si verifichi un’inversione dell’onere della prova quando l’assoluta mancanza o l’irregolare tenuta delle scritture contabili rendano impossibile al curatore fornire la dimostrazione del predetto nesso di causalità; in questo caso – si è aggiunto – la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, risulterebbe di per sè idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale (Cass. n. 5876 del 2011 e n. 7606 del 2011).
Così ricapitolati gli sviluppi della giurisprudenza in argomento, la Suprema Corte a Sezione Unite precisa in primis come la questione non possa essere affrontata in termini generici, quasi che gli illeciti eventualmente ascrivibili all’amministratore di società, idonei a generare l’obbligo di risarcire il danno, si traducano sempre in un’unica e ben determinata tipologia di comportamenti, rispetto alla quale si possa affermare o negare l’utilizzabilità del criterio d’individuazione e liquidazione del danno consistente nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.
Viene sottolineato, infatti, come essendo i doveri imposti dalla legge, dall’atto costitutivo e dello statuto agli amministratori di società assai variegati, ne discende che anche le conseguenze dannose – per la società e per i suoi creditori – che possano eventualmente scaturire dalla violazione dei suddetti doveri, dovendo essere in rapporto di causalità con quelle violazioni, non sono suscettibili di una considerazione unitaria, ma appaiono destinate a variare a seconda di quale sia stato l’obbligo di volta in volta violato dall’amministratore.
Dovendosi allora, individuare il danno, il nesso di causalità che deve sussistere tra il danno medesimo e la condotta illegittima ascritta all’amministratore, della liquidazione del quantum debeatur e degli oneri di prova che gravano in proposito sulle parti del processo, ad avvso della corte si deve prima ben chiarire quale è il comportamento che si imputa all’amministratore di aver tenuto e quale violazione, tra i molteplici doveri gravanti sul medesimo amministratore, quel comportamento ha integrato.
La Corte a questo punto riporta il principio espresso dalla sentenza n. 13533 del 2001, secondo cui il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, ed allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’adempimento, nonchè quello enunciato dalla sentenza n. 577 del 2008: cioè che “l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento dei danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno”, sicchè “l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento per così dire qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno”. Naturalmente sull’attore grava l’onere di allegare, e poi di provare, gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, che sono perciò al tempo stesso elementi costitutivi della domanda risarcitoria: danno e nesso di causalità.
Precisato, poi, che i suaccennati principi sono stati elaborati con riguardo alla figura della responsabilità contrattuale, per cui l’applicazione degli stessi non desta problemi non solo quando si discuta dell’azione sociale di responsabilità proposta nei confronti degli amministratori di società, giacchè ne è pacifica la natura contrattuale, ma anche all’azione di responsabilità spettante ai creditori sociali, sia che si voglia assegnare anche ad essa natura contrattuale sia che la si voglia invece qualificare come aquiliana, considerato che in ogni caso compete al creditore l’onere di allegare l’altrui comportamento non conforme al contratto o alla legge e tali oneri a maggior ragione gravano su chi agisce per far valere un’altrui responsabilità extracontrattuale, dovendo costui in aggiunta non solo allegare ma anche provare il comportamento del convenuto in violazione del dovere del neminem laedere, si procede a verificare quali siano gli inadempimenti “qualificati” in cui può incorrere l’amministratore della società.
Secondo la Corte lo potrebbero essere, in ipotesi, soltanto quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza (ma, se avessero soltanto aggravato il dissesto, unicamente tale aggravamento potrebbe essere ricollegato a quelle violazioni).
Qualora, viceversa, una tale ampiezza di effetti dell’inadempimento allegato non sia neppure teoricamente concepibile, la pretesa d’individuare il danno risarcibile nella differenza tra passivo ed attivo patrimoniale, accertati in sede fallimentare, risulta fatalmente priva di ogni base logica: non fosse altro perchè l’attività d’impresa è intrinsecamente connotata dal rischio di possibili perdite, il cui verificarsi non può quindi mai esser considerato per sè solo un sintomo significativo della violazione dei doveri gravanti sull’amministratore, neppure quando a costui venga addebitato di esser venuto meno al suo dovere di diligenza nella gestione, appunto in quanto non basta la gestione diligente dell’impresa a garantirne i risultati positivi. Nè potrebbe ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato nella procedura fallimentare – in quanto tale e nella sua interezza – sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale: per l’ovvia considerazione che anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto nè imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la sua portata, nè, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, giacchè questa ovviamente non comporta l’immediata ed automatica cessazione di ogni genere di costo legato all’esistenza stessa della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate proprio dalla cessazione dell’attività d’impresa.
La Corte afferma, dunque, che se non pare predicabile che, in difetto di specifiche ragioni che lo giustifichino, il deficit patrimoniale fatto registrare dalla società in fallimento venga automaticamente posto a carico dell’amministratore come conseguenza della violazione da parte sua del generale obbligo di diligenza nella gestione dell’impresa sociale, tanto meno una simile conclusione sarebbe giustificabile quando l’inadempimento addebitato al medesimo amministratore si riferisca alla violazione di doveri specifici, cui corrispondono comportamenti potenzialmente idonei a determinare, a carico del patrimonio sociale, soltanto effetti altrettanto specifici e ben delimitati.
Tale è la situazione che la Corte ha riscontrato nella fattispecie in esame, in cui gli inadempimenti ascritti all’amministratore della società fallita si riferiscono unicamente alla distrazione di alcuni beni mobili custoditi in un magazzino della società, alla mancata redazione di due bilanci d’esercizio e delle dichiarazioni fiscali concernenti i medesimi esercizi ed, infine, all’omessa tenuta della contabilità sociale.
Viene anche precisato che per quanto possa essere ovvio che la distrazione di alcuni beni mobili di proprietà sociale sia suscettibile di riflettersi negativamente sul patrimonio della società, è altrettanto evidente che la relativa perdita è commisurata al valore di quei beni, o al vantaggio che da essi l’impresa avrebbe potuto ricavare, ma nulla autorizza a pensare che tale perdita s’identifichi con la differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.
Del pari, neppure la mancata redazione di due bilanci e di dichiarazioni fiscali possono ambire, sul piano logico, a porsi come causa potenziale dell’intero deficit patrimoniale emerso nell’ambito della procedura concorsuale, potendosi soltanto presumere che le omissioni fiscali abbiano provocato un aggravamento del passivo per l’onere degli interessi e delle sanzioni conseguenti.
Circa, poi, il mancato rinvenimento delle scritture contabili dell’impresa, che sarebbe stato il punto nevralgico del contrasto giurisprudenza di cui all’ordinanza di rimessione, la Corte non pone in dubbio la circostanza che il mancato rinvenimento di tali scritture da parte del curatore del fallimento possa giustificare l’allegazione dell’inadempimento di quel dovere da parte dell’amministratore convenuto nell’azione di responsabilità.
Ciò che viene, invece, messo in discussione è il pregiudizio potenzialmente ricollegabile a tale specifica violazione, in termini di danno emergente o di lucro cessante a carico del patrimonio sociale.
Si richiama, a questo punto, l’affermazione di Cass. 5876/11 e 7606/11, citt., secondo cui l’omessa tenuta della contabilità integra la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, ed è vero che tale violazione risulta di per sè (almeno potenzialmente) idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio sociale. Non può tuttavia farsene in alcun modo derivare la conseguenza che quel pregiudizio si identifichi nella differenza tra il passivo e l’attivo accertati in sede fallimentare.
Si rileva come una simile conseguenza non possa fars discendere nemmeno dalla considerazione che la mancanza (o l’irregolarità) delle scritture contabili impedirebbe al curatore che agisce in responsabilità contro l’amministratore della società fallita di ricostruire, e perciò di provare con sufficiente precisione, il danno sofferto dal patrimonio della medesima società (e dai suoi creditori), onde si giustificherebbe che l’onere della prova del danno e del nesso di causalità venga spostato a carico dell’amministratore convenuto, giacchè è proprio l’illegittimo comportamento di costui ad impedire all’attore di assolvere quell’onere.
Tali ipotesi presupporrebbero infatti pur sempre che l’attore abbia allegato un inadempimento del convenuto almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno di cui pretende il risarcimento. Solo a tale condizione si potrebbe, secondo la Corte, ipotizzare il suo esonero dalla dimostrazione del nesso di causalità che (soprattutto in senso giuridico) deve esistere tra l’inadempimento ed il danno, se la prova dipenda da fatti o circostanze di cui egli non è in grado di disporre e che sono invece nella disponibilità del convenuto. Ma, ad avviso della Corte, la mancanza o l’irregolarità della contabilità sociale non sono legate da alcun potenziale nesso eziologico con il danno costituito dal deficit patrimoniale accertato in sede fallimentare.
Ed allora la Corte giunge a concludere che il fatto che l’amministratore sia venuto meno ai suoi doveri di corretta redazione e di conservazione della contabilità non giustifica che venga posto a suo carico l’onere di provare la non dipendenza di quel deficit patrimoniale dall’inadempimento, da parte sua, di ulteriori ma non meglio specificati obblighi.
La Corte precisa, infine, che neanche si potrebbe obiettare che il mancato rinvenimento della contabilità potrebbe impedire al curatore la stessa individuazione di altri eventuali inadempimenti ascrivibili all’amministratore, potenzialmente idonei a porsi come causa del deficit patrimoniale fatto registrare dalla società fallita. A parte il rilievo che è davvero assai improbabile che la mancanza delle scritture sociali basti ad impedire al curatore di ricostruire, attraverso altre fonti, le principali vicende della società fallita, e quindi almeno di ipotizzare ed allegare in causa l’esistenza di eventuali comportamenti illegittimi addebitabili agli organi sociali che siano potenzialmente in grado di avere un’incidenza negativa sul patrimonio della società, appare evidente che l’eventuale impossibilità di stabilire ciò di cui gli organi della società fallita potrebbero essersi resi responsabili non giustificherebbe comunque la proposizione alla cieca di un’azione di responsabilità, e tanto meno il conseguente addebito agli amministratori di un deficit patrimoniale che nulla in tal caso consentirebbe di porre in rapporto di causa ad effetto con comportamenti dell’amministratore impossibili persino da individuare.
Postulare che l’amministratore debba rispondere dello sbilancio patrimoniale della società sol perchè non ha correttamente adempiuto l’obbligo di conservazione delle scritture contabili ed ha reso perciò più arduo il compito ricostruttivo del curatore fallimentare equivale, in tale situazione, ad attribuire al risarcimento del danno così identificato una funzione palesemente sanzionatoria.
Viene salvaguardata, tuttavia, la possibilità per il curatore che, in mancanza delle scritture contabili non possa operare una quantificazione ed una prova precisa del danno di volta in volta riconducibile ad un ben determinato inadempimento imputabile all’amministratore della società fallita, di invocare a proprio vantaggio la disposizione dell’art. 1226 c.c., e perciò chiedere al giudice di provvedere alla liquidazione del danno in via equitativa.
Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte, posto che l’impugnata sentenza aveva individuato il danno da risarcire nella differenza tra il passivo e l’attivo patrimoniale accertati in sede fallimentare sul mero presupposto della mancata tenuta delle scritture contabili da parte dell’amministratore della società fallita, ha cassato la stessa, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, disponendo doversi attenere al seguente principio di diritto:
“Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.
Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sè sola non giustifica che il danno da risarcire sta individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perchè si proceda ad una liquidazione siffatta, purchè siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purchè il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto”.
Testo del provvedimento
SEGNALA UN PROVVEDIMENTO
COME TRASMETTERE UN PROVVEDIMENTONEWSLETTER - ISCRIZIONE GRATUITA ALLA MAILING LIST
ISCRIVITI ALLA MAILING LIST© Riproduzione riservata
NOTE OBBLIGATORIE per la citazione o riproduzione degli articoli e dei documenti pubblicati in Ex Parte Creditoris.
È consentito il solo link dal proprio sito alla pagina della rivista che contiene l'articolo di interesse.
È vietato che l'intero articolo, se non in sua parte (non superiore al decimo), sia copiato in altro sito; anche in caso di pubblicazione di un estratto parziale è sempre obbligatoria l'indicazione della fonte e l'inserimento di un link diretto alla pagina della rivista che contiene l'articolo.
Per la citazione in Libri, Riviste, Tesi di laurea, e ogni diversa pubblicazione, online o cartacea, di articoli (o estratti di articoli) pubblicati in questa rivista è obbligatoria l'indicazione della fonte, nel modo che segue:
Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 497/2015