ISSN 2385-1376
Testo massima
Il PRINCIPIO
L’accertamento del credito nei confronti del fallimento è devoluto alla competenza esclusiva del giudice delegato, ai sensi degli artt. 52 e 93 della legge fallimentare.
L’adozione di un rito diverso produce un vizio rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio e determina l’improponibilità della domanda.
In caso di violazione di tale principio, tuttavia, il curatore fallimentare ha onere di eccepire tempestivamente l’improcedibilità della azione al fine evitare la formazione del giudicato implicito sulla proponibilità dell’azione per acquiescenza.
Non si può azzerare in sede di giudizio di cassazione una questione di procedibilità dell’azione ove la stessa avrebbe potuto certamente essere proposta nell’atto di appello.
IL FATTO
Un conduttore di un immobile conveniva in giudizio una società ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ, al fine di ottenere la condanna all’esecuzione di lavori di ripristino del manto di copertura dell’immobile dal quale derivavano infiltrazioni d’acqua, chiedendo la conferma del provvedimento di urgenza.
Il giudizio veniva interrotto a seguito della declaratoria di fallimento della società convenuta e successivamente riassunto, con costituzione della curatela, che non eccepiva l’inammissibilità dell’azione per violazione degli artt. 52 e 93 della legge fallimentare.
Il Tribunale, con sentenza non definitiva, riconosceva la fondatezza della domanda, confermava il provvedimento cautelare e disponeva la prosecuzione del giudizio per la quantificazione del danno.
Avverso tale pronuncia proponeva appello la curatela del fallimento, senza eccepire l’inammissibilità dell’azione per violazione degli artt.52 e 93 legge fallimentare e la Corte d’appello di Messina, con sentenza del 17 ottobre 2006, rigettava l’impugnazione, confermava la sentenza di primo grado e condannava l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.
Il curatore del fallimento proponeva ricorso per cassazione sul presupposto che l’improcedibilità della domanda nei confronti di un soggetto può essere eccepita in ogni grado e stato del giudizio e quindi anche per la prima volta innanzi il giudice di legittimità.
LA DECISIONE
La Corte di Cassazione, sezione terza, con sentenza n. 1115 del 21/01/2014 ha rigettato il ricorso con una chiara e coerente motivazione ove ha precisato che seppure è vero che l’accertamento del credito nei confronti del fallimento è devoluto alla competenza esclusiva del giudice delegato, ai sensi degli artt. 52 e 93 della legge fallimentare, tuttavia tale rilevabilità va coordinata (giustamente) con il sistema delle impugnazioni e con la disciplina del giudicato, in forza del principio di conversione della invalidazione nella impugnazione
Tanto in considerazione che, ove la nullità che derivi da tale vizio procedimentale non sia dedotta come mezzo di gravame avverso la sentenza che ne è affetta, resta superata dall’intervenuto giudicato, con conseguente preclusione di siffatta rilevabilità e della deducibilità ai fini dei successivi gravami». In questo caso, infatti, si forma il giudicato implicito sulla proponibilità dell’azione, perché la parte della decisione non impugnata e che sia indipendente da quelle investite dai motivi del gravame passa in giudicato, per acquiescenza.
Nel giudizio di appello, la curatela (appellante) non aveva mai posto la questione relativa alla improcedibilità della domanda, contraddicendo la stessa esclusivamente nel merito.
Il silenzio della curatela fallimentare in ordine a detto profilo preliminare in rito ha determinato la formazione del giudicato implicito per acquiescenza, in considerazione del fatto che la declaratoria di fallimento non aveva costituito una novità intervenuta nel giudizio di appello, bensì una realtà processuale presente e dichiarata già in primo grado.
La decisione assunta risulta in armonia con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, non potendo ritenersi conforme con l’obiettivo della celerità il consentire alla parte totalmente inerte sul punto – in questo caso la curatela del fallimento – di far azzerare il processo in sede di giudizio di cassazione quando la questione avrebbe potuto certamente essere proposta nell’atto di appello.
In conclusione, l’inerzia e il silenzio della curatela su questioni procedurali relative alla proponibilità di una azione possono comportare la formazione del giudicato implicito, con possibile danno per i creditori, in quanto potrebbero trovarsi a partecipare al concorso fallimentare anche soggetti i cui crediti non siano stati verificati dal giudice delegato secondo il rito dell’accertamento dello stato passivo.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE CIVILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 31042-2007 proposto da:
R. R., in qualità di CURATORE DEL FALLIMENTO;
– RICORRENTI
Contro
A. F., (OMISSIS) S.R.L.;
– INTIMATI-
avverso la sentenza n. 407/2006 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 17/10/2006 R.G.N. 1073/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/11/2013 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;
udito l’Avvocato xxx;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
A. F. e la S.R.L. (OMISSIS) convenivano in giudizio, davanti Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, la S.A.S. (OMISSIS) e – premettendo di essere conduttori di un immobile della società convenuta e di aver già ottenuto dal Pretore un provvedimento ai sensi dell’art. 700 cod. proc. civ. che condannava la società S.A.S. (OMISSIS) all’esecuzione di lavori di ripristino del manto di copertura dell’immobile dal quale derivavano infiltrazioni d’acqua chiedevano la conferma del provvedimento di urgenza.
Il giudizio veniva interrotto a seguito della declaratoria di fallimento della società convenuta e successivamente riassunto, con costituzione della curatela.
Il Tribunale, con sentenza non definitiva del 30 aprile 2003, riconosceva la fondatezza della domanda, confermava il provvedimento cautelare e disponeva la prosecuzione del giudizio per la quantificazione del danno.
Avverso tale pronuncia proponeva appello la curatela del fallimento e la Corte d’appello di Messina, con sentenza del 17 ottobre 2006, rigettava l’impugnazione, confermava la sentenza di primo grado e condannava l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.
Contro la sentenza della Corte d’appello di Messina propone ricorso il curatore del fallimento della S.A.S. A. (OMISSIS), con atto affidato a due motivi ed accompagnato da memoria.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Col PRIMO MOTIVO di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione degli artt. 24, 52 e 93 della legge fallimentare.
Rileva il ricorrente che le domande oggetto del giudizio avrebbero dovuto essere dichiarate improcedibili e/o inammissibili dalla Corte di merito, anche in difetto di eccezione di parte.
L’azione proposta, infatti, è da qualificare come azione di condanna, in quanto tendente all’accertamento di un inadempimento contrattuale oltre che al risarcimento del danno.
Ne consegue che, a seguito della sopravvenuta dichiarazione di fallimento del debitore, tale azione doveva svolgersi seguendo le regole della verifica dello stato passivo, come stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza 10 dicembre 2004, n. 23077. In altre parole, chi intende recuperare un credito nei confronti di un soggetto fallito non può agire con un ordinario giudizio di cognizione, dovendo seguire le regole dell’insinuazione al passivo fallimentare.
La domanda proposta in sede ordinaria, perciò, doveva essere ritenuta inammissibile o improcedibile, e tale vizio può essere rilevato anche d’ufficio in ogni stato e grado del processo, non sussistendo la preclusione di cui all’art. 38,quarto comma, cod. proc. civ. in tema di rilievo dell’incompetenza.
Col SECONDO MOTIVO di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., rilevando che la curatela del fallimento non poteva essere condannata al pagamento delle spese di giudizio. In ogni caso, la cassazione della sentenza «non può che travolgere anche la condanna alle spese» pronunciata dalla Corte d’appello.
I due motivi, da trattare congiuntamente anche perché il secondo non è neppure un vero e proprio motivo autonomo di ricorso, sono privi di fondamento.
La questione che la curatela del fallimento della S.A.S. (OMISSIS) pone all’esame del Collegio ha natura esclusivamente procedurale.
Ora, è in effetti esatto il rilievo per cui la giurisprudenza di questa Corte, sulla base della citata sentenza delle Sezioni Unite n. 23077 del 2004, ha più volte affermato che la domanda diretta a far valere un credito nei confronti del fallimento è soggetta al rito dell’accertamento del passivo in sede endofallimentare; per cui tale domanda, ove proposta con il rito ordinario, deve essere dichiarata inammissibile o improcedibile, a meno che il danneggiato non dichiari che la richiesta di condanna nei confronti del fallimento deve intendersi eseguibile solo nell’ipotesi di ritorno in bonis (così, fra le altre, le sentenze 24 novembre 2011, n. 24847, e 26 giugno 2012, n. 10640).
Alcune pronunce, addirittura, sul rilievo per cui il rispetto della specifica procedura endofallimentare è posta a tutela della par condicio creditorum, sono giunte ad affermare che detta improcedibilità è rilevabile d’ufficio anche nel giudizio di cassazione (così la sentenza 13 agosto 2008, n. 21565, traendo detto principio dal precedente di cui alla sentenza 15 maggio 2001, n. 6659, peraltro relativa all’ipotesi diversa dell’amministrazione straordinaria; nonché, da ultimo, la recentissima sentenza 30 agosto 2013, n. 19975, sia pure con le precisazione che di seguito si diranno).
È opinione di questo Collegio che, accanto alla giurisprudenza ora richiamata, rispetto alla quale l’odierna pronuncia intende comunque porsi in linea di continuità, vada però anche richiamato il precedente di cui alla sentenza 19 aprile 2002, n. 5725. In quella pronuncia la Corte, in un certo senso anticipando il dictum successivo delle Sezioni Unite, dopo aver osservato che l’accertamento del credito nei confronti del fallimento è devoluto alla competenza esclusiva del giudice delegato, ai sensi degli artt. 52 e 93 della legge fallimentare, precisa che l’adozione di un rito diverso «produce un vizio rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado e determina l’improponibilità della domanda». Tuttavia prosegue la sentenza – tale rilevabilità «va coordinata con il sistema delle impugnazioni e con la disciplina del giudicato, in forza del principio di conversione della invalidazione nella impugnazione, al punto che la nullità che derivi da tale vizio procedimentale, ove non sia dedotta come mezzo di gravame avverso la sentenza che ne è affetta, resta superata dall’intervenuto giudicato, con conseguente preclusione di siffatta rilevabilità e della deducibilità ai fini dei successivi gravami». In questo caso, infatti, si forma il giudicato implicito sulla proponibilità dell’azione, perché «la parte della decisione non impugnata e che sia indipendente da quelle investite dai motivi del gravame passa in giudicato, per acquiescenza».
Alla luce di questo precedente, al quale il Collegio ritiene di dover prestare piena adesione, va valutata l’odierna fattispecie.
Nel caso in esame, il processo è stato interrotto già in primo grado a causa della dichiarazione di fallimento, e poi riassunto nei confronti della curatela. Nel giudizio di appello, però, la curatela (appellante) non ha mai posto la questione procedurale che viene oggi presentata, per la prima volta, in sede di giudizio di cassazione.
Come si legge nell’impugnata sentenza – e come sostanzialmente conferma anche l’odierno ricorrente – i due motivi di appello proposti davanti alla Corte messinese riguardavano esclusivamente il merito della causa, senza investire alcun profilo procedurale.
Opinione della Corte, perciò, che il silenzio della curatela fallimentare in ordine a detto profilo preliminare in rito abbia determinato la formazione del giudicato implicito per acquiescenza, in considerazione del fatto che la declaratoria di fallimento non ha costituito una novità intervenuta nel giudizio di appello, bensì era una realtà processuale presente e dichiarata già in primo grado.
A ben guardare, del resto, l’orientamento che oggi si accoglie non è in contrasto neppure con la recentissima sentenza n. 19975 del 2013, sopra citata, pronunciata da questa stessa Sezione. In quel caso, infatti, il fallimento, benché pronunciato nel corso del giudizio di primo grado, non era stato dichiarato in quella fase; sicché questa Corte ha affermato, in modo del tutto condivisibile, che l’impossibilità di proseguire una domanda «in origine dispiegata nei confronti di un soggetto poi fallito, il cui fallimento non sia stato dichiarato nel corso del giudizio di primo grado, integra, siccome vicenda ingressum litis impediens, questione legittimamente proponibile dalla curatela in sede di appello e senza alcuna preclusione, non potendo formarsi giudicato, nemmeno implicito, su di un fatto o di una questione che non sono stati in alcun modo affrontati, né presupposti, né presi comunque in considerazione dalla sentenza appellata».
Il che, com’è agevole comprendere, non corrisponde a quanto si è verificato nel giudizio odierno.
È appena il caso di rilevare, infine, che la tesi oggi recepita appare maggiormente in armonia con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, non potendo ritenersi conforme con l’obiettivo della celerità il consentire alla parte totalmente inerte sul punto – in questo caso la curatela del fallimento – di far azzerare il processo in sede di giudizio di cassazione quando la questione avrebbe potuto certamente essere proposta nell’atto di appello.
In conclusione, il ricorso è rigettato.
Non occorre provvedere sulle spese, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza
Sezione Civile, 1’8 novembre 2013.
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Numero Protocolo Interno : 63/2014