ISSN 2385-1376
Testo massima
In merito alla domanda risarcitoria per il danno derivante dalla irragionevole durata della procedura fallimentare, la durata delle procedure fallimentari può essere stimata in anni cinque per le procedure di media difficoltà. Tale termine tuttavia, è elevabile fino a sette anni nel caso in cui il procedimento si presenti notevolmente complesso, e questa, è un’ipotesi ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare, ovvero dalla proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e dunque a loro volta aventi una durata condizionata dalla complessità del caso, oppure dalla pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti.
Questo il principio affermato dalla Cassazione Civile, Sezione Sesta, Pres. – Rel. Petitti, con la sentenza del 19 maggio 2015, n. 10233.
Nel caso di specie, i creditori intervenuti in Fallimento depositavano ricorso alla Corte d’Appello, chiedendo la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento del danno non patrimoniale derivante dalla irragionevole durata della procedura fallimentare, iniziata da oltre venti anni e non ancora conclusasi.
La Corte di merito, stimata come ragionevole una durata di nove anni in considerazione della complessità della procedura, riteneva che fosse indennizzabile un ritardo di anni quattordici, tenuto conto che l’inizio del procedimento doveva essere individuato nella data di insinuazione al passivo. Su questi presupposti e tenendo conto del criterio interpretativo desumibile dalle disposizioni modificative di cui al D.L. n. 83 del 2012, liquidava un indennizzo pari al valore del credito da ciascuno azionato nella procedura fallimentare.
Avverso tale decisione, proponevano ricorso i creditori, dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia determinato la durata ragionevole della procedura fallimentare presupposta in nove anni, in contrasto con le indicazioni della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la detta durata può essere al massimo di sette anni.
La Corte di Cassazione, nel disporre l’accoglimento del ricorso, ha richiamato la sentenza della Corte di Cassazione n. 8468/2012 che individua la ragionevole durata delle procedure fallimentari di media complessità in cinque anni, elevabile ad un massimo di sette, nel caso di notevole complessità della procedura; ipotesi, questa, ravvisabile in presenza di un numero elevato di creditori, di una particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi ecc.), della proliferazione di giudizi connessi alla procedura, ma autonomi e quindi a loro volta di durata condizionata dalla complessità del caso, oppure della pluralità delle procedure concorsuali interdipendenti.
Con riferimento ai criteri di liquidazione, la Suprema Corte, esclusa l’applicabilità dell’art. 2 bis, L. n. 89 del 2001, introdotto dal D.L. n. 83/2012 alla controversia in esame, ed atteso che tale normativa è applicabile solo ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione, ha ulteriormente cassato la decisione impugnata, che aveva “attuato una liquidazione che assume come vincolante e come limite massimo il valore del credito ammesso al passivo”, ed ha aderito al principio della Suprema Corte secondo cui al giudice sia consentito di scendere al di sotto della soglia minima ma non anche di parificare la liquidazione al valore della causa in cui si è verificata la violazione.
Testo del provvedimento
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