La società di fatto “holding” esiste come impresa commerciale per il solo fatto di essere stata costituita tra i soci per l’effettivo esercizio dell’attività di direzione e coordinamento di altre società ed è, pertanto, autonomamente fallibile, a prescindere dalla sua esteriorizzazione mediante la spendita del nome, ove sia insolvente per i debiti assunti, ivi comprese le obbligazioni risarcitorie derivanti dall’abuso sanzionato dall’art. 2497 c.c., nonché al danno così arrecato all’integrità patrimoniale delle società eterodirette e, di riflesso, ai loro creditori.
Questo il principio sancito dalla Corte di Cassazione, sez. prima civile, Pres.Nappi – Rel.Terrusi, con sentenza n. 15346 del 25/07/2016.
Nel caso di specie, il Tribunale di Torre Annunziata dichiarava il fallimento di una società di fatto oltre che quello dei soci in proprio.
La decisione veniva assunta all’esito del ricorso avanzato dal curatore di una società per azioni, il quale aveva prospettato l’esistenza della società di fatto tra i componenti di due generazioni familiari per l’esercizio di funzioni di etero direzione di società del gruppo, tra cui la fallita.
La dichiarazione di fallimento, gravata da distinti reclami, veniva confermata dalla Corte d’Appello di Napoli.
La Corte, in particolare, riteneva provate, sulla base delle risultanze istruttorie del procedimento penale nel frattempo parallelamente instaurato, l’unitarietà di origine e l’etero direzione della società in considerazione dell’esistenza di un centro direttivo unitario e sovraordinato costituito dai componenti delle tre famiglie.
L’unitarietà operativa e funzionale era stata conservata anche nella fase della crisi della società, la quale, prima del fallimento, aveva proposto domanda di ammissione alla procedura di concordato con previsione di un importante intervento finanziario da parte di tutti i soggetti coinvolti, a definitiva conferma dell’identità dello scopo economico complessivamente perseguito e dell’etero direzione assunta.
La Corte d’Appello osservava infine che, nella logica dell’art. 2497 c.c., il riferimento alla spendita del nome o all’esteriorizzazione dell’agire non dovesse esser più considerato un elemento indefettibile della holding societaria.
Avverso tale sentenza proponevano ricorso per Cassazione i soci della holding di fatto, formulando plurimi motivi di impugnazione tra i quali la violazione o falsa applicazione degli artt. 2082, 2195, 2247 e 2497 c.c., nonché degli artt. 1 e 147 della Legge fallimentare, avendo la Corte di Appello di Napoli stabilito che per la sussistenza di una società di fatto, svolgente attività di holding e suscettibile di fallimento, non sarebbe necessaria la spendita del nome della società medesima.
La Corte di Cassazione ha affermato, in primo luogo, che è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, che in ipotesi di holding di tipo personale, cioè di persona fisica, che sia a capo di più società di capitali in veste di titolare di quote o partecipazioni azionarie, e che svolga professionalmente, con stabile organizzazione, l’indirizzo, il controllo e il coordinamento delle società medesime, la configurabilità di un’autonoma impresa, come tale assoggettabile a fallimento, postula che la suddetta attività, sia essa di sola gestione del gruppo, ovvero di natura ausiliaria o finanziaria, si esplichi in atti, anche negoziali, posti in essere in nome proprio, quindi fonte di responsabilità diretta, e presenti altresì obiettiva attitudine a perseguire utili risultati economici, per il gruppo o le sue componenti, causalmente ricollegabili all’attività medesima.
La ratio di tale principio risiede nella circostanza che, al fine della dichiarazione di fallimento di una qualunque società, l’accertamento dello stato d’insolvenza deve essere effettuato con esclusivo riferimento alla situazione economica della società medesima, a prescindere dal fatto che si tratti di società inserita in un gruppo, e quindi in una pluralità di società collegate o controllate da un’unica società-madre (“holding”).
Invero, nonostante tale collegamento o controllo, ciascuna delle società (madre o figlie) conserva distinta la propria soggettività giuridica, rispondendo, con il proprio patrimonio, soltanto dei propri debiti.
Ne deriva che il problema della spendita del nome si pone al fine di stabilire la fallibilità della società di fatto holding in ragione della sua responsabilità imprenditoriale per le obbligazioni assunte, non anche l’esistenza della società medesima; la quale esiste, come impresa commerciale, per il sol fatto di esser stata costituita tra i soci col fine della direzione unitaria delle società commerciali figlie, vale a dire per l’effettivo esercizio dell’attività di direzione e controllo esplicitamente considerata dagli art. 2497 c.c. e ss.
Per la Corte, in tutti i casi in cui la società di fatto risponde ai canoni della cd. società occulta non ha senso porsi il problema della spendita del nome ai fini del riconoscimento della sua esistenza e operatività, questo poiché propria di quella fattispecie è la concordata volontà dei soci che ogni rapporto con i terzi venga posto in essere per conto della società ma non in suo nome.
Dunque, fermo l’attuale esplicito riconoscimento di fallibilità di siffatto tipo sociale ex art. 147, comma 5, Legge fallimentare, è pacifico che in casi del genere, gli atti di impresa, se esistenti in termini oggettivi, sono sempre posti in essere “per conto” di un soggetto diverso da quello che appare, e se ricorrono gli altri elementi previsti dall’art. 2247 c.c. l’esistenza della società di fatto (occulta) non può essere messa in dubbio.
Nel caso di specie la Corte d’Appello di Napoli ha accertato che era stata costituita tra i componenti dei nuclei familiari una società di fatto holding, avente a oggetto l’attività di eterodirezione delle società facenti parte del cd. gruppo.
In base a tale accertamento, la natura organizzata e commerciale dell’attività posta in essere dalla società di fatto costituiva il riflesso, con scopo illecito, dell’organizzazione dei mezzi delle società commerciali dirette e coordinate, secondo un modello di impresa che non necessitava d’altro che dell’elaborazione delle direttive e delle istruzioni da impartire alle società figlie, esattamente nel senso dell’abuso indicato dall’art. 2497 c.c.
Nell’ottica di tale norma l’attività di direzione e coordinamento, ha specificato la Cassazione, consiste nell’esercizio effettivo di un’ingerenza qualificata nella gestione di una o più società, espressione di una posizione di potere tale da incidere stabilmente nelle scelte gestorie e operative dei singoli organi amministrativi e tuttavia concretizzata in comportamenti estranei alla sfera della corretta gestione societaria e imprenditoriale, animati dal perseguimento di interessi propri o di terzi.
Per la Corte, dunque, l’eccepita mancanza del requisito della spendita del nome della società di fatto non poteva interessare, non solo perché la società era occulta, ma anche perché non venivano in rilievo le obbligazioni volontariamente assunte.
In buona sostanza, hanno chiarito i Giudici, la holding fallisce per obbligazioni proprie, ex art. 2741 c.c., non mai per obbligazioni delle società figlie, pur dirette e coordinate; e quindi fallisce se ha assunto direttamente obbligazioni in proprio.
Il problema dell’agire in proprio riguarda l’ambito della responsabilità patrimoniale della holding, individuale o collettiva, giacché l’insolvenza, ovvero l’impossibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, deve essere valutata con riguardo alle sole obbligazioni proprie.
La Cassazione ha chiarito, in definitiva, che chi esercita l’attività di direzione e coordinamento in modo illecito, approfittando e abusando dei poteri di direzione, ed eludendo per fini propri i principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale (art. 2497, comma 1, c.c.), risponde non di obbligazioni derivanti da un agire negoziale, in questo senso contratte direttamente (e per le quali potrebbe in astratto valere un problema di spendita del nome), ma di obbligazioni risarcitorie.
Trattandosi di responsabilità di tipo esclusivamente risarcitorio (extracontrattuale) per danni arrecati dall’attività di direzione abusiva ai socie e ai creditori delle società dirette e coordinate non si pone, e non può porsi, un problema di esteriorizzazione, non essendosi dinanzi a obbligazioni “volontarie”.
L’obbligazione risarcitoria ex art. 2497 c.c. trova fonte nell’illecito costituito dall’agire nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione di doveri e principi di corretta gestione delle società eterodirette, ove da ciò sia derivato un danno patrimoniale alle società figlie e di riflesso al ceto creditorio di queste società.
Per cui, secondo i Giudici, ferma la peculiarità della società occulta, la società di fatto holding risponde delle obbligazioni volontariamente assunte in nome proprio ma risponde anche delle obbligazioni risarcitorie derivanti dall’aver esercitato l’attività direttiva in modo estraneo alla fisiologica corretta gestione societaria e imprenditoriale; e in tal secondo caso l’obbligazione risarcitoria sorge nei confronti dei creditori delle società figlie per il sol fatto che l’agire illecito abbia causato il danno all’integrità patrimoniale della società diretta e coordinata, tale da renderne il patrimonio sociale insufficiente a soddisfare le pretese dei creditori.
Sulla base dei suddetti principi, la Corte di Corte di Cassazione ha respinto i ricorsi e condannato i ricorrenti alle spese di processuali.
Per altri precedenti in materia si veda:
IN TALE IPOTESI SI CONFIGURA NULLITÀ, SANABILE SE RAGGIUNTO LO SCOPO DI PORTARE L’ATTO A CONOSCENZA DEL DESTINATARIO
Sentenza | Cassazione civile, sez. prima, Pres. Nappi – Rel. Lamorgese | 31.08.2016 | n.17444
NON RILEVA IL TRASFERIMENTO DELLA SEDE LEGALE NELL’ANNO ANTERIORE AL DEPOSITO DEL RICORSO EX ART. 161, C.6 L.F.
Decreto | Tribunale di Pisa, Pres. Laganà – Rel. Zucconi | 20.07.2016 |
LA PARTECIPAZIONE ALL’UDIENZA CAMERALE CON UNA FATTIVA DIFESA SANA OGNI IRREGOLARITÀ
Sentenza | Cassazione civile, sez. sesta. Pres. Dogliotti – Rel. Ragonesi | 19.07.2016 | n.14814
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