In materia di fallimento, è legittima la notifica a mezzo della posta elettronica certificata compiuta direttamente dall’avvocato del creditore del suo ricorso e del decreto di fissazione d’udienza, senza alcuna necessità di provvedimento giudiziale di tipo autorizzatorio verso la forma prescelta, (anche per il periodo antecedente l’entrata in vigore della L. n. 183/2011), purchè l’avvocato sia abilitato all’attività notificatoria con autorizzazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati.
L’efficacia della notifica telematica – da intendersi perfezionata nel momento in cui viene emessa dal gestore di posta elettronica del destinatario la ricevuta di avvenuta consegna (RAC), integrante prova dell’avvenuta consegna del messaggio nella sua casella – non può essere contrastata ove non si pongano in evidenza difetti di funzionamento del congegno utilizzato ovvero della sequenza adottata, nella vicenda in nessun modo rappresentati dal ricorrente.
Nel caso di estinzione di una società per intervenuta cancellazione dal registro delle imprese, ex art. 2495 c.c., il legislatore attraverso la L. Fall., art. 10, ha riconosciuto per mera fictio l’esistenza del soggetto collettivo, ai soli fini dell’istruttoria prefallimentare e delle successive impugnazioni, dovendosi quindi ritenere che la società estinta sia comunque parte del giudizio avente per oggetto l’impugnazione della sentenza dichiarativa del suo fallimento.
E come tale, la società estinta ben può ricevere la notifica degli atti che la riguardano alla sede sociale ovvero all’indirizzo, parimenti emergente dalle risultanze del registro delle imprese, corrispondente alla relativa pec.
Questi i principi espressi dalla Corte di Cassazione, sez. prima, Pres. Nappi – Rel. Ferro, con la sentenza n. 17767 dell’08.09.2016.
Nel caso di specie, il socio ed amministratore unico di una società dichiarata fallita impugnava la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Genova, di rigetto del reclamo proposto avverso la sentenza dichiarativa del fallimento della predetta società.
Secondo il Giudice di seconde cure, l’avvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese non impediva che quest’ultima fosse validamente raggiunta dalla notifica ancora presso la sua sede sociale.
Innanzi al Giudice di legittimità, il ricorrente lamentava la violazione del diritto di difesa, ai sensi della L. Fall., art. 15, in relazione all’art. 24 Cost. ed art. 111 Cost., commi 1 e 2, avendo erroneamente considerato la Corte di Appello valida la notifica dell’istanza di fallimento e del decreto di fissazione d’udienza per come eseguita dall’avvocato dell’istante a mezzo p.e.c., all’indirizzo telematico della società cancellata.
La Suprema Corte, in proposito, osservava che nel caso di estinzione di una società per intervenuta cancellazione dal registro delle imprese, ex art. 2495 c.c., la L. Fall., art. 10 riconosce per mera fictio l’esistenza del soggetto collettivo, ai soli fini dell’istruttoria prefallimentare e delle successive impugnazioni.
In altri termini, la società estinta resta parte del giudizio avente per oggetto l’impugnazione della sentenza dichiarativa del suo fallimento e, come tale, ben può ricevere la notifica degli atti che la riguardano alla sede sociale ovvero all’indirizzo, parimenti emergente dalle risultanze del registro delle imprese, corrispondente alla relativa pec.
In ordine, peraltro, alla contestazione sollevata da parte ricorrente in merito al dedotto difetto di legittimazione, dell’avvocato del creditore, allo svolgimento dell’attività notificatoria, in via diretta, a mezzo p.e.c., rilevava la Corte che l’art. 3bis, della L. n. 53 del 1994, consente per l’appunto anche agli avvocati, muniti di regolare autorizzazione del Consiglio dell’Ordine di appartenenza, di effettuare le notificazioni, sia ricorrendo all’ausilio degli uffici postali, sia a mezzo p.e.c., sostituendosi agli ufficiali giudiziari.
Per quanto suesposto, rilevata la regolarità della notifica e, conseguentemente, il pieno rispetto del principio del contraddittorio, gli ermellini rigettavano il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di lite.
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