ISSN 2385-1376
Testo massima
Ai fini dell’equa riparazione il termine da prendere come parametro per considerare come irragionevole la durata di una procedura fallimentare va computato a partire dalla presentazione della domanda di insinuazione al passivo e la sua durata oscilla, a seconda della complessità del procedimento, tra i 5 ed i 7 anni. La somma riconosciuta a titolo di indennizzo può essere inferiore alla soglia di 750 per i primi tre anni e 1.000 per gli anni successivi, così come previsto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, potendo difatti scendere sino a 500 e 600 senza con ciò violare i principi dettati in materia dalla giurisprudenza comunitaria.
Sono questi i principi sanciti dalla Suprema Corte di Cassazione nella sentenza n. 21849 del 15 ottobre 2014 in materia di equa riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del processo con riferimento alla procedura fallimentare.
La questione ha ad oggetto la richiesta di condanna del Ministero della Giustizia alla liquidazione di un indennizzo a titolo di risarcitorio del danno non patrimoniale derivato dalla irragionevole durata della procedura riguardante il fallimento di una società di capitali. La procedura concorsuale era iniziata con la dichiarazione di fallimento della società nell’ottobre del 1993 e non era stata ancora conclusa alla data di presentazione della domanda risarcitoria depositata nel novembre 2011. La Corte di Appello di Potenza aveva stimato come ragionevole una durata di 6 anni avendo peraltro erroneamente applicato al caso di specie le disposizioni modificative della Legge 24 marzo 2001 n. 89 (c.d. “Legge Pinto”), così come introdotte dal Decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 (c.d. “Decreto crescita”).
Gli istanti hanno proposto ricorso per cassazione contestando non solo la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2 della Legge 24 marzo 2001, n. 89 così come modificato dal Decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 , ma anche le modalità e la misura con cui era stata determinata la somma da liquidarsi a titolo di indennizzo.
Si ricorda che l’art. 2 della Legge 24 marzo 2001, n. 89 riconosce il diritto ad una equa riparazione a coloro che hanno subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (c.d. “CEDU”) sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del processo, la cui violazione si configura ex lege nel termine di 6 anni per quanto concerne la procedura concorsuale.
Nell’esaminare la questione, la Cassazione ha tuttavia innanzitutto escluso che la controversia in oggetto potesse ritenersi soggetta, ratione temporis, all’applicazione dell’art. 2 della Legge 24 marzo 2001, n. 89 così come modificato dal Decreto legge 22 giugno 2012, n. 83.
L’art. 55, comma 2, del Decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 prevede infatti che le modifiche apportate all’art. 2 della Legge 24 marzo 2001, n. 89 trovino applicazione per i ricorsi depositati a far data dal trentesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione avvenuta in data 11 settembre 2012.
La domanda di risarcimento del danno proposta dai ricorrenti era stata invece depositata in data 11 novembre 2011, prima quindi dell’entrata in vigore delle modifiche apportate all’art. 2 della Legge 24 marzo 2001, n. 89.
Pur ritenendo non applicabili al caso di specie le modifiche apportare dal Decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, la Cassazione ha ritenuto che il criterio liquidativo scelto dalla Corte di Appello era in linea con le soglie individuate dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria.
La Cassazione ha infatti evidenziato che il giudice nazionale deve in linea di principio uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo secondo cui la quantificazione del danno non patrimoniale deve essere di regola non inferiore a 750,00 per ogni anno di ritardo in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole e non inferiore a 1.000 per gli anni successivi.
Per contro deve tuttavia essere riconosciuta al giudice nazionale la possibilità di discostarsi, in misura ragionevole, da tali parametri tenuto conto delle caratteristiche del singolo caso concreto qualora ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve però dar conto in motivazione.
La Cassazione ha pertanto ritenuto non censurabile la decisione assunta dalla Corte di Appello nella parte in cui si è discostata dagli ordinari criteri di liquidazione dell’indennizzo avendo adottato quello di 500 per i primi tre anni di ritardo e quello di 600 per i successivi senza con ciò tenere un comportamento contrario ai criteri elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
I giudici di legittimità hanno infine ribadito il principio già espresso in proprie precedenti pronunce in forza del quale la durata ragionevole delle procedure fallimentare, da calcolarsi a partire dalla data di deposito della domanda di insinuazione al passivo, deve essere stimata in 5 anni per quelle di media complessità e in 7 anni allorquando il procedimento è caratterizzato da notevole complessità (per un approfondimento si rinvia anche a Cassazione civile, sezione sesta, 28 maggio 2012, n. 8468).
Testo del provvedimento
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