ISSN 2385-1376
Testo massima
Il notaio che interpreta la volontà del cliente incapace di intendere e di volere incorre nel reato di falso ideologico.
L’assenza in capo al soggetto della capacità di intendere e di volere impedisce la formazione e la comunicazione di una libera ed autonoma volontà da parte dell’incapace, ciò riflettendosi sull’obbligo del notaio di accertare l’esatta volontà del cliente.
È questo il principio di diritto enunciato dalla Suprema Corte di Cassazione, quinta sezione penale, con la sentenza n. 4033 del 29/01/2014.
Nel caso di specie un notaio imputato del reato di cui all’art. 479 cp, veniva dichiarato colpevole e condannato in primo e in secondo grado per aver, in più occasioni, ricevuto procure in favore di un avvocato, mentendo sulle dichiarazioni del suo cliente incapace di intendere e di volere. Il giudice di appello, inoltre, aveva rideterminato la pena negando le attenuanti generiche per l’assenza di precedenti condanne.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione avverso tale decisione, deducendo come primo motivo il fatto che aver ricevuto tali procure in presenza di testimoni avrebbe dimostrato la sua buona fede.
La Corte ha dichiarato inammissibile tale motivo, sulla base del fatto che è necessaria, a norma l’art. 48 della legge notarile, la presenza obbligatoria di testimoni per la validità dell’atto quando la parte non sia in grado di sottoscrivere i documenti.
La difesa riteneva, inoltre, illogica la motivazione della Corte d’Appello nella parte in cui attribuiva maggiore attendibilità alla testimonianza di un soggetto privo di conoscenze mediche rispetto allo specialista.
Il Supremo Collegio ha rigettato anche tale motivo, ritenendo corretta la scelta dei giudici di merito di valorizzare la deposizione corrispondente ad un fatto esteriore palesemente percepibile, quale lo stato di incapacità del cliente nell’esprimersi.
Il professionista negava, oltretutto, la sussistenza del dolo consistente nell’interesse alla retribuzione per la conclusione dell’atto, motivo anche esso censurato dai Giudici di legittimità i quali hanno ribadito che per configurarsi dolo da falso ideologico è sufficiente la consapevolezza di dichiarare una cosa che non corrisponde al vero.
Con il rigetto di tutti i motivi di ricorso la Corte ha ritenuto, dunque, configurabile il reato di falso ideologico in atto pubblico per il notaio che menta sulla volontà del cliente in stato vegetativo.
Testo del provvedimento
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE
SENTENZA 4 DICEMBRE 2013 – 29 GENNAIO 2014, N. 4033
PRESIDENTE MARASCA RELATORE DEMARCHI ALBENGO
Ritenuto in fatto
1. Il notaio M.V. è imputato del reato di cui all’articolo 479 del codice penale perché, in più occasioni, nel ricevere la procura generale conferita da L.C. in favore dell’avvocato C.G. il 25 settembre 2000 e la procura speciale conferita in favore dello stesso avvocato C. il 24 ottobre 2001, attestava falsamente che il L. aveva dichiarato di non poter sottoscrivere i predetti atti, mentre nessuna dichiarazione era stata da costui effettuata.
2. Il tribunale di Pontremoli lo ha dichiarato colpevole del reato ascritto, previa concessione delle attenuanti generiche, e lo ha condannato alla pena di tre anni di reclusione, con risarcimento dei danni in favore della parte civile. La Corte d’appello di Genova, su impugnazione dell’imputato e del Procuratore generale, ha negato le attenuanti generiche, rideterminando la pena in anni tre e mesi sei di reclusione.
3. Contro la predetta sentenza propone ricorso per cassazione l’imputato per i seguenti motivi:
a. erronea applicazione dell’articolo 479 del codice penale e comunque contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
b. Mancanza e, comunque, contraddittorietà della motivazione in relazione alla sussistenza del nesso psichico.
e. Erronea applicazione degli articoli 62 bis, 81 capoverso e 133 del codice penale e, comunque, mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla quantificazione dell’aumento per la continuazione ed all’individuazione della pena base.
Con memoria inviata a mezzo fax il 21 novembre 2013, il difensore dell’imputato rileva che per il fatto del 25 settembre 2000 è ormai maturata la prescrizione, essendo passati 12 anni e mezzo dal rogito relativo alla prima procura generale.
Considerato in diritto
1. Il PRIMO MOTIVO di ricorso è articolato in plurime censure; in primo luogo si contesta la manifesta illogicità della motivazione perché essa non spiega la singolarità del comportamento del notaio che, pur potendo rogare gli atti in assenza di scomodi testimoni, decise autonomamente di formarli alla presenza di testimoni, considerando le difficoltà di sottoscrizione del L.. Questa censura è manifestamente infondata, dal momento che è l’articolo 48 della legge notarile a richiedere la presenza dei testimoni se una parte non può sottoscrivere (La capacita di leggere e scrivere richiesta dall’art.48 della legge notarile per una legittima rinunzia all’assistenza dei testimoni è soltanto quella che consente alle parti roganti di controllare la rispondenza dell’atto alle loro volontà e di sottoscriverlo; cfr. Sez. 1, Sentenza n. 203 del 23/01/1967, Rv. 325943); la condotta del notaio, che richiese la presenza dei testimoni, dunque, non fu scelta discrezionale indicativa di particolare cautela, bensì soluzione obbligata ai sensi della legge 89 del 1913, al fine di non redigere un atto nullo, con le note conseguenze anche di tipo disciplinare per il professionista. Del tutto pretestuosa, poi, la considerazione che il notaio avrebbe potuto fare ripetere la firma al L. finché non fosse stata sufficientemente chiara, dal momento che quest’ultimo non era, per giudizio concorde di tutte le parti processuali, assolutamente in grado di coordinarsi dal punto di vista motorio. Eloquente, in proposito, è la descrizione del simulacro di sottoscrizione rinvenuto dal giudice sulla bozza della prima procura (pagina 17 della sentenza di appello). Contraddittorie, poi, sono le considerazioni in ordine alla scelta dei testimoni, laddove a pagina sette si valorizzano le qualità professionali del medico e i rapporti di amicizia del L. con gli altri testimoni, mentre più avanti si afferma che i testimoni furono scelti da terzi (cfr. pag. 8 del ricorso; lo stesso teste R. confermò di essere stato chiamato dal fratello del delegante e non dal notaio: v. Pag. 38 dell’allegato al ricorso per cassazione).
2. In secondo luogo si lamenta la contraddittorietà della motivazione, perché “redatta secondo uno schema di mera giustapposizione di singoli segmenti probatori – valutati individualmente e secondo specifiche differenti regole di giudizio – che, nella composizione di un’unica motivazione, senza un coordinamento logico giuridico, risultano irrimediabilmente dissonanti”. Sotto taleprofilo si richiama, quale esempio, il giudizio di inattendibilità formulato dalla Corte in relazione alla deposizione del dottor R. , medico generico non specialista, con la ritenuta attendibilità del teste P. , privo di competenze mediche. La censura sulla motivazione concerne parecchi punti della sentenza.
3. A questo punto si deve rilevare che, come osservato dalla difesa, il termine prescrizionale per il fatto di reato più risalente, ossia quello commesso con la procura generale del 25 settembre 2000, è ormai prescritto. La fondatezza dei motivi di ricorso, peraltro, va esaminata ai fini delle statuizioni civili.
4. Sostiene la difesa che la Corte non abbia spiegato il motivo per cui il P. , pur avendo sottoscritto quale testimone l’atto di procura generale, l’avesse poi disconosciuto a più di due anni di distanza. Tale censura é infondata; sul punto c’è motivazione specifica, che lo stesso ricorso riporta a pagina 11, e si tratta di motivazione priva di evidenti vizi, anzi caratterizzata da una innegabile logicità. Va ricordato che il controllo di legittimità sulle sentenze è assai limitato e non può in alcun caso estendersi alla ricostruzione del fatto ed alle altre valutazioni di merito, a meno che si riscontri assenza di motivazione o illogicità o contraddittorietà della stessa. Quanto al primo profilo, si deve ricordare che non è necessario che il giudice di merito sviluppi nella motivazione la specifica ed esplicita confutazione della tesi difensiva disattesa, essendo sufficiente, per escludere la ricorrenza del vizio di motivazione, che la sentenza evidenzi una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione della deduzione difensiva implicitamente e senza lasciare spazio ad una valida alternativa (cfr. sez. 2, n. 24847 del 5 maggio 2009, Polimeni). In senso analogo, Sez. 6, n. 20092 del 04/05/2011, Schowick, secondo cui: “Il dovere di motivazione della sentenza è adempiuto, ad opera del giudice del merito, attraverso la valutazione globale delle deduzioni delle parti e delle risultanze processuali, non essendo necessaria l’analisi approfondita e l’esame dettagliato delle predette ed è sufficiente che si spieghino le ragioni che hanno determinato il convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata”; così anche Sez. 6, n. 1307 del 26/09/2002, Delvai: “La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua se il giudice abbia confutato gli argomenti che costituiscono l’ossatura dello schema difensivo dell’imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell’iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte”. Ed ancora Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso, Rv. 250900: “La sentenza di merito non è tenuta a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata”. Quanto al vizio vero e proprio della motivazione, si deve ribadire che l’illogicità o la contraddittorietà della motivazione, per essere rilevanti in cassazione, devono essere di tale evidenza da essere percepibili ictu oculi, senza necessità di particolari indagini, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza e restando ininfluenti le minime incongruenze. Ciò al fine di evitare che il giudizio di cassazione si trasformi in un terzo grado di merito, non essendo a questa Corte consentito di ingerirsi nelle valutazioni discrezionali riservate ai giudici di primo e secondo grado.
5. Sostiene la difesa che le dichiarazioni contraddittorie del P. , rispetto al suo ruolo di testimone dell’atto, siano prive di riscontri e si rileva la inattendibilità del teste, anche con riferimento alla sua esclusione quale parte civile del processo. Sotto il primo profilo, il fatto che il teste abbia reso dichiarazioni che contrastano in parte con il suo ruolo di testimone dell’atto vale a rafforzare, piuttosto che ad indebolire, la sua testimonianza, dal momento che con tale condotta egli si è esposto alla possibilità di azioni di responsabilità nei suoi confronti. Del tutto gratuite ed infondate sono le considerazioni circa l’assenza di riscontri alla sua deposizione, essendo sufficiente citare la perizia medica, che ha concluso per la assoluta incapacità di intendere e di volere del L. al momento degli atti. Quanto alla valutazione di attendibilità del teste, trattasi appunto di valutazione di merito che è riservata al giudice di appello e sulla quale questa Corte non può intervenire, essendoci motivazione adeguata alle pagine 22 e 23 del provvedimento impugnato; la esclusione del P. quale parte civile non comporta alcuna incapacità a testimoniare, né é motivo automatico di inattendibilità della sua deposizione, se solo si considera che la persona offesa costituita parte civile è teste a tutti gli effetti, per cui a maggior ragione può essere valutata positivamente la testimonianza di chi nel processo non ha alcun interesse patrimoniale, nemmeno indiretto, per essere stata esclusa la sua partecipazione. La esclusione della costituzione di parte civile, che è provvedimento giudiziale e non di parte, dovrebbe allora comportare una maggior serenità nell’esposizione dei fatti, venendo meno quel coinvolgimento diretto nel processo che potrebbe giustificare una non perfetta imparzialità.
6. La censura motivazionale più importante attiene alla valutazione comparativa di attendibilità dei testi R. e P. ; la difesa, premesso che il tribunale avrebbe riportato la deposizione del R. in termini lievemente travisati (così giustificando l’allegazione al presente ricorso della sua deposizione), lamenta la ritenuta inattendibilità di tale ultimo teste sulla considerazione (operata dalla Corte) che egli era medico non specialista e quindi non idoneo a valutare la capacità di intendere e volere del L. , mentre è stato ritenuto attendibile, in ordine alla valutazione sulla capacità del delegante nell’atto pubblico, l’altro testimone (P. ) che è privo di qualsiasi competenza medico-legale. In più, secondo la difesa, la Corte avrebbe dovuto tener conto non solo della intrinseca e qualificata maggior attendibilità del medico, ma anche del lungo periodo di osservazione e cura del paziente (pagina 16 del ricorso). Il Procuratore generale presso questa Corte, nella sua requisitoria, ha ritenuto trattarsi di valutazione di merito su prove contrapposte, non censurabile in cassazione. Oltre alle predette considerazioni, il Collegio ritiene che la censura sia infondata perché non è riscontrabile un’illogicità manifesta; premesso che il R. ha dichiarato di aver acquisito il paziente nel mese di agosto del 2000 (cfr. pag. 106 dell’allegato uno al ricorso) e che la procura generale è stata rogata il 25 settembre 2000, del tutto fuori luogo sono le osservazioni circa la profonda conoscenza dello stato clinico del paziente, che era stato acquisito solo un mese prima. Più seria, invece, è la censura relativa alla contraddittorietà della motivazione con riferimento alle qualità professionali dei testi. Effettivamente, pare di primo acchito non giustificabile la maggior attendibilità, in ordine alle valutazioni di capacità del L. , riconosciuta al teste P. , assolutamente privo di qualificazione in campo medico, rispetto al medico curante, al quale si deve riconoscere, salvo specifici elementi di segno contrario, una maggiore capacità di discernimento in ordine alle patologie, pur se di natura psichiatrica. In verità, peraltro, la illogicità del ragionamento operato dalla Corte è solo apparente, tenendo conto del fatto che mentre il teste P. riferisce una circostanza di fatto di comune valutazione (l’essere il L. in uno stato vegetativo, abulico, impossibilitato a rendere qualsiasi tipo di dichiarazione, quasi si trattasse di un elemento dell’arredamento e non di un soggetto che interviene coscientemente e volontariamente ad un atto), il R. invece si inserisce in un campo medico che non è il suo, lanciandosi in valutazioni attinenti alla sfera psichica del soggetto ed esprimendo valutazioni in ordine alle sue capacità cognitive, peraltro in termini molto dubitativi. In proposito, sebbene a questa Corte sia normalmente precluso l’esame degli atti istruttori, tuttavia la denuncia di un vizio di travisamento da parte della difesa e l’allegazione, a tal fine, dei verbali dell’esame dibattimentale, hanno consentito ed anzi imposto la disamina delle dichiarazioni rese dal R. . Ed allora, questo collegio, rilevata prima di tutto l’insussistenza di alcun travisamento da parte del giudice di secondo grado, osserva che il medico ha nel complesso espresso un giudizio piuttosto vago e dubitativo sulle capacità del L. (“capiva secondo me”; “difficile giudicare la qualità della sua attenzione, però mi sembrava abbastanza concentrato sulla cosa, insomma…”; “Non parlava…”; “Non ha parlato, no, no questo non ha mai parlato durante tutta la… “; “Il signor L. era come era sempre, ciò era con la sua espressione unica che aveva, seduto, guardava il notaio… Io spero che abbia capito”). Non si deve poi dimenticare che lo stesso teste ha dichiarato che il notaio non spiegò al L. il significato dell’atto per il quale richiedeva la firma (pagina 42 e 47 della trascrizione) e ha dichiarato altresì che quest’ultimo non era in grado di partecipare attivamente ad affari (pagina 45). Da quanto esposto, risulta evidente che la deposizione del R. esprime giudizi in ordine alla capacità psichica del soggetto, così entrando in un campo medico che non gli appartiene, ed in ogni caso formula tali giudizi in modo molto personale e dubitativo, arrivando persino a dichiarare che non gli fu spiegato l’oggetto dell’atto che si andava a compiere, formulando conclusivamente una speranza che il suo paziente abbia capito cosa stava facendo. Ed allora, la valutazione compiuta dal tribunale circa l’attendibilità dei due testimoni cessa di essere manifestamente illogica ed assume invece una sua coerenza laddove preferisce una deposizione che cade su un fatto esteriore, percepibile da tutti (lo stato vegetativo, abulico del soggetto e la sua incapacità ad articolare parola) rispetto ad una valutazione dell’elemento psichico che, peraltro, come tale sarebbe preclusa al teste per essere riservata a consulenti e periti. La Corte ha poi valorizzato, con giudizio di merito non sindacabile in questa sede, il fatto che il P. si sia esposto a possibili responsabilità, rendendo dichiarazioni in potenziale contrasto con il suo ruolo di testimone dell’atto, mentre il R. ha preferito mettersi al riparo da eventuali addebiti, confermando la correttezza del suo operato in sede di redazione della procura generale.
7. Infine, la difesa lamenta che un’illogica svalutazione delle prove contrarie abbia colpito anche le deposizioni dei testi L.G. e dell’avv. C. , ma questa censura è inammissibile per la sua genericità.
8. Conclusivamente, dunque, deve ritenersi che le censure relative alla procura generale del 25 settembre 2000, esaminate ai soli fini del rigetto del ricorso per quanto riguarda le statuizioni civili, siano infondate.
9. Con riferimento alla procura speciale del 24 ottobre 2001, la difesa contesta la motivazione della sentenza di appello osservando che la deposizione del teste R. si salda perfettamente con quella dei testi presenti alla suddetta procura speciale; tali testi, nell’esposizione difensiva, avrebbero confermato la deposizione del dottor R. , arricchendola di nuovi particolari, quali ad esempio il fatto che il L. li aveva riconosciuti, offrendo loro dei cioccolatini e facendoli accomodare. Tale affermazione difensiva è affetta, invero, da quel travisamento che il ricorso attribuisce ingiustamente alla Corte d’appello; ed invero, il teste Pinotti dice esattamente il contrario di quanto si riferisce a pagina 21 del ricorso, e cioè afferma che il L. non lo ha riconosciuto (pagina 24 della sentenza) ed entrambi i testi P. e Ca. riferiscono che il L. non ha mai fatto delle dichiarazioni circa la sua difficoltà o impossibilità a sottoscrivere ed addirittura la Ca. non ricorda nemmeno che sia stato letto il passo dell’atto relativo all’affermazione di non poter sottoscrivere (pagine 25 e 26 della sentenza).
10. La difesa contesta, poi, la illogicità della motivazione laddove la Corte ritiene che il L. possa aver attraversato un momento di temporanea lucidità allorché fu interrogato dal giudice istruttore nell’ambito della causa di interdizione promossa pochi mesi dopo la prima procura (l’esame dell’interdicendo da parte del giudice istruttore è del 15 gennaio 2001). La motivazione adottata dalla Corte, lungi dall’essere illogica o contraddittoria, è l’unica possibile nel dato contesto di fatto; occorre ricordare, infatti, che non è contestato, né contestabile, che il L. all’atto della redazione di entrambe le procure fosse incapace di articolare parola, mentre nel corso dell’esame da parte del giudice istruttore nel gennaio del 2001 (e cioè tra le due procure oggetto di giudizio) rispose in modo pertinente alle domande che gli venivano poste, sebbene con una certa lentezza. È evidente, dunque, che, salvo a voler tacciare di falso il verbale del tribunale di Massa, vi è stato un momentaneo regresso della malattia, ovvero una parentesi di lucidità del L. . Si tratta dell’unica spiegazione possibile e, comunque, non è compito della Corte ricercare la giustificazione medica rispetto a fatti storici che risultano accertati senza ombra di dubbio.
11. La difesa sostiene la erroneità delle conclusioni del giudice di appello laddove annovera nei possibili contenuti falsi dell’atto pubblico l’arbitraria interpretazione del notaio in ordine all’impossibilità di sottoscrizione, con ciò confondendo l’esistenza della capacità di intendere e di volere con la riconoscibilità nel soggetto di condizioni patologiche coinvolgenti la sfera psichica. Questa censura non risulta sufficientemente chiara ed in ogni caso la Corte ha ritenuto che il notaio abbia attribuito alla parte una dichiarazione che non è mai stata pronunciata, e non solo che abbia effettuato una erronea interpretazione della volontà di parte; ciò è più che sufficiente per integrare il falso ideologico contestato.
12. Sotto il profilo della violazione di legge, la difesa afferma che il notaio ha esclusivamente l’obbligo di verificare l’esistenza della capacità legale e di accertare l’esatta volontà delle parti con riferimento all’atto rogando, senza necessità di esaminare la capacità di intendere e di volere (il notaio avrebbe l’obbligo di prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto, ai sensi dell’articolo 27 della legge notarile). Tale affermazione è inesatta perché, dato e non concesso che il notaio debba esclusivamente indagare la volontà del cliente, traducendola in un linguaggio giuridico corretto ed idoneo al raggiungimento dello scopo prefissato, è evidente che qualora il soggetto si trovi nell’incapacità di intendere e di volere, nessuna volontà può essere formata e, nel caso di specie (in cui il L. era addirittura nella impossibilità di esternare i propri processi psichici), nemmeno comunicata all’esterno. È evidente, dunque, che l’assenza in capo al soggetto della capacità di intendere e di volere (elemento di fatto accertato dalla Corte d’appello di Genova e non più opinabile in questa sede, in quanto correttamente motivato) impediva la formazione e la comunicazione di una libera ed autonoma volontà da parte del L. , ciò riflettendosi sull’obbligo del notaio di accertare l’esatta volontà del cliente (obbligo, nella specie, inadempiuto). In ogni caso, si dimentica che al notaio non viene contestato di aver rogato un atto in stato di incapacità della parte, bensì di avere falsamente riportato in atti una dichiarazione – circa l’impossibilità di sottoscrivere – che non sarebbe mai stata formulata, nemmeno a gesti.
13. Con il SECONDO MOTIVO di ricorso, la difesa deduce mancanza e, comunque, contraddittorietà della motivazione in relazione alla sussistenza del nesso psichico, laddove la sentenza individua l’indicatore sintomatico del dolo nell’esistenza di un interesse di natura economica alla falsificazione, da rintracciarsi nel beneficio ricavato con la retribuzione per la redazione degli atti. L’argomento indicato dalla difesa è specioso; ed invero, la Corte affronta il problema dell’interesse all’atto in quanto oggetto di uno specifico motivo di appello (pagina 11 della sentenza), per cui risulta singolare che la difesa si lamenti di questo passaggio. Inoltre, la difesa sembra sovrapporre il dolo richiesto dalla norma, con le motivazioni che spingono il soggetto a realizzare la condotta antigiuridica. Il dolo del falso si esaurisce nella consapevolezza di dichiarare un fatto non corrispondente al vero, mentre diverso è l’aspetto della motivazione che spinge il soggetto all’azione; nel caso di specie l’esame sulla motivazione dell’azione può sì costituire uno degli elementi di indagine in ordine all’elemento soggettivo, ma non ne esaurisce certo l’ambito. In ogni caso, la motivazione della Corte d’appello è tutt’altro che illogica e corrisponde piuttosto ad una massima di esperienza; peraltro, si deve tener conto non solo dell’interesse patrimoniale diretto concernente il singolo atto, ma anche della opportunità di non perdere un cliente facoltoso. Si deve, poi, ricordare che nell’ambito della professione notarile l’aspetto patrimoniale non è ricollegato tanto alla qualità del singolo atto, essendo gli importi normalmente modesti in relazione al reddito medio professionale, quanto piuttosto alla quantità e dunque il non rifiutare un atto costituisce una motivazione che può giustificare, per professionisti privi della necessaria serietà, la violazione del propri doveri.
14. Con il TERZO MOTIVO di ricorso si deduce erronea applicazione degli articoli 62 bis, 81 capoverso e 133 del codice penale e, comunque, mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla quantificazione dell’aumento per la continuazione ed all’individuazione della pena base. Sotto tale profilo, osserva la difesa che l’attuale formulazione dell’articolo 62-bis del codice penale, laddove esclude che la concessione delle attenuanti generiche possa essere fondata solo sulla assenza di precedenti condanne, non può trovare applicazione con riguardo a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della modifica del 2008. In secondo luogo, l’argomento speso dalla Corte (“l’incensuratezza è davvero il minimo che si possa pretendere da un pubblico ufficiale”) fonderebbe una ingiustificata disparità di trattamento in punto di quantificazione della pena tra il pubblico ufficiale ed un altro imputato privo di tale qualità.
15. Or bene, i motivi relativi alla dosimetria della pena restano assorbiti dall’annullamento derivante dall’intervenuta prescrizione di uno dei due fatti di reato, posto che in sede di rinvio il giudice di appello dovrà procedere ad una nuova quantificazione del trattamento sanzionatorio. Venendo meno uno dei due reati in continuazione, perderanno del tutto interesse le questioni relative alla dedotta violazione dell’articolo 81 del codice penale, mentre con riferimento alle attenuanti generiche, prospettandosi nuovamente la loro applicabilità anche in sede di rinvio e ribadita la libertà decisionale, sul punto, del giudice di merito (che potrà, pertanto, concederle ove lo ritenga) è opportuno osservare, sotto un profilo di diritto, che sebbene non sia applicabile ai fatti in questione la disposizione dell’articolo 62 bis cod. pen. nella sua attuale formulazione, ciò non toglie che anche prima della modifica del 2008 le attenuanti generiche non potessero essere riconosciute esclusivamente sulla base della mancanza di precedenti penali (v. Sez. 4, n. 31440 del 25/06/2008, Olavarria Cruz, Rv. 241898: Nell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche il giudice non può tenere conto unicamente dell’incensuratezza dell’imputato, ma deve considerare anche gli altri indici desumibili dall’art. 133 cod. pen. (Principio affermato in relazione al testo dell’art. 62-bis cod. pen. vigente prima delle modifiche apportate dalla L. n. 125 del 2008).
16. In ogni caso, la differenza di valutazione dell’operato del pubblico ufficiale, rispetto al privato cittadino, non è affatto ingiustificata, essendo comprensibile che al primo sia richiesto maggior rigore morale e maggiore attenzione nel rispetto delle leggi, in virtù dei benefici che egli riceve dallo Stato (nel caso di specie attraverso l’abilitazione all’esercizio di attività notarile). Quanto alla asserita mancata idonea valutazione del comportamento processuale dell’imputato, trattasi di valutazione di merito che non può essere rimessa in discussione in questa sede di legittimità, avendo trovato compiuta motivazione, priva di evidenti vizi logici, alle pagine 40 e 41 della sentenza. La difesa afferma che il comportamento processuale non può mai assumere valenza negativa, a meno che sia ambiguo e reticente. L’affermazione non prova nulla; la concessione delle attenuanti generiche non è un diritto automatico dell’imputato (che si può escludere in caso di elementi negativi di valutazione), ma, al contrario, presuppone il riconoscimento, in positivo, di elementi di valutazione tali da giustificare la diminuzione della pena. Ne consegue che, anche a non ritenere sussistente un comportamento processuale negativo del M. , il mancato apprezzamento in positivo della sua condotta processuale costituisce valutazione di merito che giustifica la mancata concessione delle predette attenuanti e che non è sindacabile in questa sede di legittimità, essendo adeguatamente motivato.
17. Le altre questioni relative alla quantificazione della pena restano assorbite dall’intervenuto annullamento con rinvio per la rideterminazione del trattamento sanzionatorio.
18. In conclusione, va annullata la sentenza impugnata, ai soli effetti penali, in ordine al falso relativo alla procura generale del 25 settembre 2000, per essere il reato estinto per prescrizione; ne consegue il rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Genova per la sola rideterminazione del trattamento sanzionatorio per il reato commesso il 24 ottobre 2001. Il ricorso va rigettato nel resto, comportando ciò il passaggio in giudicato delle statuizioni civili e della pronuncia di condanna relativa alla procura speciale del 2001.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine al falso relativo alla procura generale del 25 settembre 2000 per essere il reato estinto per prescrizione.
Annulla la medesima sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Genova in ordine al trattamento sanzionatorio.
Rigetta nel resto il ricorso.
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