La nullità della fideiussione omnibus conforme allo schema ABI in vigore dal 2001, per supposta violazione della normativa anticoncorrenziale dell’intesa rilevata “a monte” dalla Banca d’Italia con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, per quanto rilevabile d’ufficio, in sede di legittimità non può, del pari, essere accertata sulla base di una “nuda” eccezione, sollevata per la prima volta con il ricorso per Cassazione, rimandando la deduzione a contestazioni, in fatto, mai effettuate dalle parti convenute nell’azione revocatoria, a fronte della quale l’intimato sarebbe costretto a subire il vulnus di maturate preclusioni processuali.
Questo il principio espresso dalla Corte di Cassazione, III sez. civ., Pres. Spirito – Rel. Fiecconi, con l’ordinanza n. 4175 del 19 febbraio 2020.
La questione è nota ai lettori di questa Rivista, concernendo il dibattito sulla validità dei contratti di garanzia redatti sullo schema di fideiussione diffuso ABI tra il 2001 ed il 2002, apertosi a seguito della nota ordinanza di legittimità del 12 dicembre 2017, n. 29810.
La pronuncia oggi in commento aggiunge un’importante chiave di lettura “processuale”.
La vicenda giudiziaria vede coinvolti due fideiussori che hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, la quale, rigettando il loro l’appello, aveva confermato l’accoglimento dell’azione revocatoria, svolta nei loro confronti, ai sensi dell’art. 2901 c.c., dalla Banca creditrice, per sentir dichiarare l’inefficacia dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, in cui erano confluiti i beni immobiliari degli stessi ricorrenti. Con il ricorso, i fideiussori hanno dedotto – per la prima volta in sede di giudizio di legittimità – che la garanzia da loro prestata fosse nulla in quanto conforme allo schema predisposto dall’ABI, in tema di clausole da apporre alle fideiussioni, nel 2001 e dichiarato illegittimo (rectius, rilevato come potenzialmente anticoncorrenziale nella misura in cui avesse trovato applicazione “uniforme”) dalla Banca d’Italia con il Provvedimento 55 del 2 maggio 2005, in quanto risultante da un’intesa restrittiva della concorrenza .
Nell’esaminare il motivo di ricorso, la Suprema Corte ha richiamato il proprio orientamento di cui all’ordinanza n. 29810 del 12/12/2017, confermando che l’accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dalla L. n. 287 del 1990, art. 2, con stipulazione di contratti o negozi che costituiscano l’applicazione di quelle intese illecite concluse “a monte” (nella specie: relative alle norme bancarie uniformi ABI in materia di contratti di fideiussione, in quanto contenenti clausole contrarie a norme imperative), comprende anche i contratti stipulati anteriormente all’accertamento dell’intesa illecita da parte dell’Autorità indipendente, preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato, a condizione che quell’intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo, considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della concorrenza.
Il Collegio di legittimità ha poi riesaminato la ratio delle possibile incidenza sui rapporti “a valle”, secondo la giurisprudenza tradizionalmente sviluppatasi in tema di intese anticoncorrenziali tra operatori del settore assicurativo: la legge “antitrust” 10 ottobre 1990, n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosiddetto contratto “a valle” costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti. Pertanto, siccome la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiusto ex art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione “a monte”, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli imprenditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nullità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui alla L. n. 287 del 1990, art. 33, azione la cui cognizione è rimessa da quest’ultima norma alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d’appello (oggi Sezione Specializzata del Tribunale in materia di Impresa, n.d.r. – cfr. Cass. Civ. SS.UU., sent. n. 2207 del 04/02/2005).
Ciò premesso, il focus della decisione oggi in commento riguarda piuttosto il tema del rilievo officioso della nullità ed, in particolare, la possibilità di dedurre per la prima volta in sede di ricorso per cassazione la supposta invalidità anticoncorrenziale.
Sul punto, la Suprema Corte, in primis, ha richiamato la disciplina processuale applicabile in sede di appello: in tema di rilievo dell’eccezione di nullità contrattuale, la domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta, per la prima volta, in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, c.p.c., salva la possibilità per il giudice del gravame (obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell’art. 101, secondo comma, c.p.c.) di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall’appellante, giusta il secondo comma del citato art. 345 (Cass. Sez. Un., Sent. n.26242 del 12/12/2014).
In altri termini, la rilevabilità officiosa costituisce il proprium anche delle nullità speciali, incluse quelle denominate “di protezione virtuale”: il potere del giudice di rilevarle tout court deve reputarsi essenziale al fine del perseguimento di interessi pur sempre generali, sottesi alla tutela di una data classe di contraenti (quali, per esempio, i consumatori, i risparmiatori o gli investitori); interessi che possono finanche coincidere con valori costituzionalmente rilevanti (su tutti, il corretto funzionamento del mercato, ex art. 41 Cost., e l’uguaglianza, non solo formale, tra contraenti in posizione asimmetrica), con l’unico limite di riservare il rilievo officioso delle nullità di protezione al solo interesse del contraente debole (unico legittimato a proporre l’azione di nullità), in da evitare che la controparte possa (ove vi abbia un qualche interesse), sollecitare i poteri officiosi del giudice per un interesse suo proprio, ultroneo e destinato a rimanere estraneo dall’ambito tutelare cui è preposta la normativa.
Attestata la possibilità di rilevare d’ufficio la nullità negoziale anche nel giudizio di legittimità, la Cassazione ne ha individuato al contempo i limiti.
Innanzitutto, va tenuto riguardo agli “effetti derivati” della nullità di un’intesa anticoncorrenziale di tipo orizzontale tra vari operatori economici di un determinato settore, rilevando se gli effetti distorsivi si siano effettivamente trasferiti sui negozi stipulati “a valle” dell’intesa illecita; avendo la Corte avuto già modo di chiarire a riguardo che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’impresa (ex multis Cass. Sez. VI – III, Ord. n.9116 del 2014).
Su questo punto, però, il Supremo Collegio ha confermato che dalla declaratoria di nullità di una intesa tra imprese per lesione della libera concorrenza, emessa dalla Autorità Antitrust ai sensi della L. n. 287 del 1990, art. 2, non discende automaticamente la nullità di tutti i contratti posti in essere dalle imprese aderenti all’intesa (cfr. Cass. n. 9384 del 11/06/2003; in tema Cass. n. 3640 del 13/02/2009; Cass., sez. 3. n. 13486 del 20/06/2011; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 9116 del 2014).
Infatti, vero è che i provvedimenti (lato sensu) accertativi della nullità dell’intesa a monte hanno una attitudine privilegiata a costituire prova della nullità a valle, ma ciò non toglie che nel singolo caso di specie l’incidenza della anticoncorrenzialità sui rapporti che ne rappresentano lo sbocco costituisce pur sempre il “thema probandum” sotto il profilo processuale, almeno nella misura in cui, dedotta la nullità da parte del cliente, l’impresa (nell’ispecie la Banca) abbia la possibilità di fornire la prova contraria.
D’altronde, forse la “pietra angolare” di siffatte costruzioni giudiziali va individuata nella prova del nesso causale tra l’illecito concorrenziale “a monte” ed il danno prospettato “a valle”.
E, sul punto, la Cassazione dimostra di tenere ben in considerazione le esigenze difensive di entrambe le parti ed, in particolare, la circostanza che la possibilità di dedurre in grado di legittimità la nullità anticoncorrenziale sconta, per la parte che la “subisce”, l’impossibilità di avvalersi delle chiavi probatorie atte a smantellare l’avversa prospettazione, per effetto del maturarsi delle preclusioni istruttorie.
Da ultimo, poi, il Collegio ha rilevato – richiamando un proprio precedente arresto del 4 aprile 2019 – come le nullità “a valle” delle fideiussioni omnibus in questione debbano essere valutate alla stregua degli artt. 1418 cc e seguenti e che possa trovare applicazione l’art. 1419 cc, laddove l’assetto degli interessi in gioco non venga pregiudicato da una pronuncia di nullità parziale, limitata alle clausole rivenienti dalla intesa illecita, posto che, in linea generale, solo la banca potrebbe dolersi della loro espunzione.
Detto altrimenti, la nullità dei contratti a valle ben potrebbe essere solo “parziale”, laddove il complessivo assetto di interessi non risulti del tutto privo di una giustificazione causale per effetto dell’espunzione delle clausole “contestate”.
Tale possibile effetto limitato della nullità dell’intesa “a valle”, ovviamente, comporta un ulteriore vaglio degli interessi in gioco da parte del giudice.
Pertanto, anche in ragione della necessità di vagliare – con il ricorso agli ordinari strumenti istruttori – il complessivo assetto di interessi definito dalle parti in ciascuna singola vicenda negoziale, la Cassazione è giunta ad affermare l’obiettiva impossibilità di “accertare” la nullità anticoncorrenziale dedotta solo in sede di legittimità.
In altri termini, altro è configurare l’ammissibilità teorica del rilievo anche officioso, altra è la constatazione degli elementi giuridici e fattuali “necessari” per pronunciare la nullità d’ufficio, non più “assumibili” per effetto delle maturate preclusioni processuali.
Per ulteriori approfondimenti si rinvia ai seguenti contributi pubblicati in Rivista:
FIDEIUSSIONE ANTITRUST: LA PARTE CHE CHIEDE LA NULLITÀ DEVE ASSOLVERE AL PROPRIO ONERE PROBATORIO
Il garante deve produrre provvedimento Banca d’Italia e indicare clausole in contrasto con normativa antitrust
Sentenza | Tribunale di Catania, Giudice Vera Marletta | 29.01.2020 | n.384
FIDEIUSSIONI “ABI-2002” E PROFILI ANTITRUST: INCONFIGURABILE OGNI IPOTESI DI NULLITÀ “STRUTTURALE” O “DERIVATA”
Il contraente che non ha preso parte alla supposta intesa stipula il contratto per soddisfare un proprio interesse
Sentenza | Corte d’Appello di Napoli, Pres. Forgillo – Rel. Criscuolo Gaito | 13.01.2020 | n.98
FIDEIUSSIONI – ANTISTRUST: POSSIBILE NULLITÀ PARZIALE OVE CONFORMI AL MODELLO ABI
La sanzione è relativa alle singole clausole, l’illiceità non è idonea a determinare l’integrale nullità dei contratti
Sentenza | Tribunale di Ancona, Giudice Maria Teresa Danieli | 12.11.2019 | n.1914
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