ISSN 2385-1376
Testo massima
La Corte di cassazione civile, sezione tributaria, con sentenza n. 15741 del 19/09/2012 si è pronunciata in materia di onere della prova che incombe sul fisco per escludere la detraibilità dell’imposta, analizzando le differenze che intercorrono fra l’ipotesi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e quella delle c.d. “frodi carosello”
La Corte di Cassazione ha cosi affermato che, per la fattispecie di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti ove la fornitura risulta acquisita effettivamente dal contribuente, ma fornita da soggetto diverso dal fatturante – il fisco, per escludere la detraibilità, ha solo l’onere di provare che la cessione non è stata effettivamente operata dal fatturante, precisando tale prova può essere fornita anche mediante presunzioni essendo principio di carattere generale che la prova dei fatti può essere data anche a mezzo presunzioni.
Unica eccezione alla non detraibilità in questi casi potrebbe essere che l’acquirente non sapesse che il fornitore effettivo non era il fatturante ma un altro, in tale ipotesi l’onere di provarla grava sul contribuente che fa valere la detrazione.
Viceversa nell’ipotesi più articolata delle cd. frodi carosello fondate, com’è noto, sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (“buffers”) – il fisco ha l’onere di provare – anche mediante presunzioni – gli elementi di fatto che concretizzano la frode e la partecipazione ad essa o la consapevolezza di essa da parte del contribuente.
Ciò in quanto il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale.
Invero, precisa la Corte, nel caso di frode carosello il passaggio intermedio non corrisponde a una effettiva intermediazione commerciale ma alla finalità di far apparire acquirente e quindi cessionario un evasore per potersi successivamente avvantaggiare del non pagamento dell’Iva da parte sua.
Anche nelle cd. frodi carosello l’unica eccezione alla non detraibilità si ha nel caso in cui l’acquirente non sappia che il fornitore effettivo non era il fatturante, in tale ipotesi l’onere della prova ricade sul contribuente che fa valere la detrazione.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 26871-2009 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE;
ricorrente
contro
BIANCO SPA ;
controricorrente
avverso la sentenza n. 85/2009 della COMM.TRIB.REG. di FIRENZE, depositata il 24/07/2009;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con avviso di accertamento notificato il 27 dicembre 2005, l’Agenzia delle entrate rettificò la dichiarazione IVA del 2000 della s.p.a. Bianco ritenendo illegittima la detrazione di lire 10 miliardi circa in quanto collegata ad operazioni soggettivamente inesistenti e fatturate alla Bianco da società “cartiere” costituite al solo fine di frodare l’IVA interponendosi fittiziamente tra i reali fornitori esteri e le società acquirenti nazionali.
Le commissioni tributarie di primo e secondo grado hanno accolto il ricorso della società contribuente. La Commissione tributaria regionale di Firenze ha affermato che essendo la pretesa tributaria basata sulla prospettazioni di una interposizione fittizia, l’ufficio avrebbe dovuto dare la prova del patto tra reale cedente, reale cessionario e soggetto fittiziamente interposto, mentre se l’interposizione era reale nessuna responsabilità poteva essere ascritta al cessionario per il mancato assolvimento dell’iva da parte delle ditte tornitrici interposte. La Commissione tributaria regionale di Firenze ha aggiunto tra l’altro che l’ufficio non aveva dato prova sufficiente della frode e che il fatto di intrattenere rapporti con un tornitore che sia abituale evasore non era sufficiente a far ritenere accertato il coinvolgimento in una frode fiscale; nè era indizio sufficiente a tal fine il pagamento con assegni circolari, dato anche che i prezzi pagati non erano inferiori a quelli correnti sul mercato; l’archiviazione del procedimento penale non era ostativa ma l’accertamento fiscale, pur ampiamente motivato (nella sentenza impugnata si riferisce che l’ufficio aveva dedotto la natura di società cartiera della pretesa cedente, e che i controlli della Guardia di finanza avevano riguardato le modalità di acquisizione ed evasione degli ordini, l’assenza di strutture commerciali, l’assenza di elementi sui trasferimenti della merce e sulla regolazione dei pagamenti) era privo di riscontri obiettivi.
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso basato su due motivi di censura alla sentenza impugnata. La s.p.a. Bianco ha depositato controricorso.
2. Con il primo motivo di ricorso si deduce da parte dell’Agenzia delle entrate la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, e dell’art. 54, comma 2, dell’art. 2729 c.c. nonchè dei principi indicati nella sentenza della Corte di giustizia nella cause riunite C-354/03, C-355/03 e C-484/03 nonchè nella sentenza resa nella causa 439/04. Con il secondo motivo si denunzia vizio di motivazione.
I due motivi possono essere trattati congiuntamente anche perchè con entrambi viene in realtà fatta valere l’insufficienza della motivazione della sentenza impugnata.
Quanto al primo motivo deve osservarsi che al ricorso non si applica l’art. 366 bis c.p.c. posto che la sentenza impugnata è stata depositata il 24 luglio 2009. Ciononostante, il motivo si conclude con un quesito di diritto dalla cui formulazione pare doversi comprendere che secondo l’agenzia nell’ipotesi di cessioni operate da società interposte che omettono di versare l’IVA, il diritto del cessionario alla detrazione dell’IVA che egli assuma di aver pagato a tali cedenti è escluso nel caso che il cessionario sappia o debba sapere di partecipare con il proprio acquisto ad un’operazione che si iscrive in una frode e non è invece necessario a tal fine il suo coinvolgimento nella frode fiscale.
Il quesito è formulato in modo opinabile: non è agevole comprendere quale sia il significato della distinzione in esso accennata. Nella parte illustrativa del motivo si legge che la sentenza impugnata “pretende applicare alla fattispecie, che concretizza di fatto un ipotesi di c.d. frode carosello, i principi nazionali in tema di presunzioni, anzichè quelli (meno gravosi per l’erario) stabiliti dalla Corte di giustizia” (nelle due sentenze richiamate nella rubrica del motivo).
Nonostante l’imprecisa formulazione, peraltro, il motivo prospetta una censura fondata alla ratio decidendi della sentenza impugnata, secondo la quale l’Agenzia delle entrate avrebbe dovuto dare la prova dell’accordo simulatorio tra i tre soggetti dell’interposizione fittizia eventualmente ipotizzata mentre, nel caso di interposizione reale nessuna doglianza poteva essere avanzata dall’erario. Si tratta di un’impostazione erronea, che non tiene conto dell’elaborazione della giurisprudenza tributaria in materia di elusione, la quale è basata non sulla simulazione ma sull’abuso di strumenti giuridici formali e cioè sul ricorso ad essi in assenza della concreta sostanza economica ad essi corrispondente al fine di utilizzarne gli effetti per eludere l’imposizione. Nel caso della frode carosello il passaggio intermedio non corrisponde ad una effettiva intermediazione commerciale ma alla finalità di far apparire acquirente e quindi cessionario un evasore per potersi successivamente avvantaggiare del non pagamento dell’IVA da parte sua.
In verità per affrontare la questione occorre individuare e distinguere adeguatamente i termini della questione.
Deve essere premesso che l’ipotesi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti è concettualmente diversa da quella delle c.d. frodi carosello e tale diversità si riflette sull’oggetto e sull’onere della prova. Le due ipotesi si verificano spesso congiuntamente nella pratica ma, ai fini della trattazione giuridica delle stesse appare opportuno tenerne presente la distinzione.
La fatturazione per operazione soggettivamente inesistente si ha quando la fornitura è stata acquisita effettivamente dal contribuente, ma essa è stata fornita da soggetto diverso dal fatturante. L’Iva che il cessionario assume di aver pagato al cedente per l’operazione soggettivamente inesistente (e cioè per la cessione non effettuata da quel preteso cedente) non è detraibile in quanto pagata ad un soggetto che non era legittimato alla rivalsa nè era assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta. Unica eccezione alla non detraibilità in questi casi potrebbe essere che l’acquirente non sapesse che il fornitore effettivo non era il fatturante ma un altro. Ipotesi non impossibile ma meramente di scuola e l’onere di provarla grava ovviamente sul contribuente che fa valere la detrazione. Al di fuori di tale caso, nell’ipotesi di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti il fisco, per escludere la detraibilità, ha solo l’onere di provare – e può farlo anche mediante presunzioni essendo principio di carattere generale che la prova dei fatti può essere data anche mediante presunzioni – che la cessione non è stata effettivamente operata dal fatturante.
Diverso è il caso in cui il fatturante è, quanto meno formalmente, il fornitore effettivo ma l’operazione si iscrive – per quanto riguarda quel trasferimento o per quanto riguarda i passaggi precedenti – in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l’acquirente era o partecipe o consapevole e che contempla l’avvalimento in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell’IVA da parte di un cedente. Anche in questa ipotesi l’iva che figura pagata al cedente in via di rivalsa non è detraibile dato che ad essa – con la consapevolezza o la partecipazione del cessionario – non solo non corrisponde un versamento all’erario ma non corrisponde un’attività economica effettiva ed il trasferimento all’intermediario formale ha il solo scopo abusivo di avvantaggiarsi della detrazione. In tale ipotesi è peraltro il fisco ad avere l’onere di provare – anche mediante presunzioni – gli elementi di fatto che concretizzano la frode e la partecipazione ad essa o la consapevolezza di essa da parte del contribuente. Sul tema va richiamata la sentenza di questa Corte n. 867 del 20 ottobre 1010 secondo cui “nelle cd. “frodi carosello” – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (“buffers”) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno presumere la piena conoscenza della frode e consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari”. Nella motivazione di tale pronunzia è ribadito che “è imperativo il richiamo all’art. 17 della Direttiva CEE n. 388/77, del 17 maggio 1977, ove si afferma il principio d’indetraibilità dell’IVA assolta in corrispondenza di comportamenti abusivi, volti cioè a conseguire il solo risultato del beneficio fiscale, senza una reale e autonoma ragione economica giustificatrice della catena di cessioni successive. Nello stesso senso, CGE C-419/02 del 21.2.2006 e Cass. n. 10352/2006, in quanto, secondo un principio generale non scritto (ora anche positivamente fissato nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 21 bis), vigente nell’ordinamento, il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo di strumenti giuridici privi di ragioni economicamente apprezzabili e diretti unicamente a conseguire tali indebiti vantaggi (S.U. n. 30057/2008).
Cosi chiariti i termini giuridici della questione, sulla base della giurisprudenza di questa Corte e di quella comunitaria, risulta pienamente fondata anche la denunzia di vizio di motivazione.
La sentenza impugnata, è del tutto carente non solo nell’esame dei numerosi elementi di fatto addotti dall’ufficio erariale a dimostrazione della frode ascrivibile (nei sensi già detti) alla società contribuente ma è carente anche nella specificazione degli elementi di fatto che essa assume non essere stati sufficientemente provati. Il ricorso riporta testualmente i passaggi significativi dell’atto di appello dell’ufficio e dal raffronto tra tali passaggi e la motivazione della sentenza impugnata si evidenzia in modo palese l’omessa considerazione da parte della Commissione tributaria regionale di Firenze elementi di fatto specifici che erano stati dedotti nell’impugnazione – pur se accompagnati da dosi massicce di affabulazione – e che si affermava essere stati accertati dalla Guardia di finanza della quale erano stati prodotti i verbali di indagine e le relazioni: il carattere fittizio delle società fornitrici dimostrato dalla mancanza di una propria struttura commerciale e di una effettiva organizzazione aziendale; la natura di meri prestanome dei loro rappresentanti; le modalità anomale dei rapporti di acquisto intrattenuti con esse dalla contribuente con particolare riferimento ai trasferimenti delle merci e ai pagamenti;
il contesto in cui le transazioni in oggetto si collocavano caratterizzato da un sistematico ricorso all’evasione fiscale; le specifiche risultanze dell’indagine penale. La sentenza impugnata non solo omettere di prendere in considerazione tali elementi al fine di verificarne la prova e la significatività, ma si limita ad una esame frazionato di alcuni di essi. L’esame della prova indiziaria, invece, non può essere effettuato prendendo in considerazione ciascun indizio come elemento probatorio a sè stante, isolandolo dagli altri. La prova indiziaria richiede invece la presa in considerazione dell’insieme degli indizi. Ciascun elemento della serie può ben essere compatibile con una verità diversa, ma è la serie nel suo complesso ad essere eventualmente univocamente dimostrativa. Se tutti gli elementi menzionati nel ricorso o buona parte di essi (l’insistenza dell’organizzazione aziendale e commerciale della cartiera, la qualità di prestanome dei suoi rappresentanti, la mancanza di idonea documentazione sui trasferimenti delle merce, il pagamento mediante assegni circolari, l’inesistenza della cartiera come contribuente IVA ecc.) fossero provati, sarebbe arduo per qualunque persona ragionevole ipotizzare l’estraneità e la non consapevolezza della frode da parte della s.p.a. Bianco. E l’onere della prova grava su chi intenda provare la verità dell’inverosimile.
L’esame di tale profilo probatorio è mancato e comunque è mancata un’adeguata e specifica motivazione in ordine ad esso.
Il ricorso deve quindi essere accolto e la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Commissione tributaria regionale di Firenze che provvederà anche in ordine alle spese di tutti i gradi del giudizio.
P.Q.M.
– accoglie il ricorso e quindi cassa la sentenza impugnata;
– rinvia la causa ad altra sezione della Commissione tributaria regionale di Firenze, anche per la pronunzia sulle spese dell’intero giudizio.
SEGNALA UN PROVVEDIMENTO
COME TRASMETTERE UN PROVVEDIMENTONEWSLETTER - ISCRIZIONE GRATUITA ALLA MAILING LIST
ISCRIVITI ALLA MAILING LIST© Riproduzione riservata
NOTE OBBLIGATORIE per la citazione o riproduzione degli articoli e dei documenti pubblicati in Ex Parte Creditoris.
È consentito il solo link dal proprio sito alla pagina della rivista che contiene l'articolo di interesse.
È vietato che l'intero articolo, se non in sua parte (non superiore al decimo), sia copiato in altro sito; anche in caso di pubblicazione di un estratto parziale è sempre obbligatoria l'indicazione della fonte e l'inserimento di un link diretto alla pagina della rivista che contiene l'articolo.
Per la citazione in Libri, Riviste, Tesi di laurea, e ogni diversa pubblicazione, online o cartacea, di articoli (o estratti di articoli) pubblicati in questa rivista è obbligatoria l'indicazione della fonte, nel modo che segue:
Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 85/2012