ISSN 2385-1376
Testo massima
La mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., l’estinzione non solo di quel giudizio ma dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso, eccettuate quelle già coperte dal giudicato, in quanto non impugnate.
E’ questo il principio di diritto statuito dalla Cassazione civile, sezione terza, con sentenza n.1680 pronunziata in data 07/02/2012, in materia di mancata riassunzione del giudizio di rinvio.
Nel caso di specie, la sentenza trae origine dall’opposizione proposta da un Comune avverso l’atto di precetto con il quale gli era stato intimato il pagamento di un’ingente somma di denaro, a titolo di indennità di espropriazione, sulla base di una sentenza della Corte di Appello di Roma.
In particolare, il Comune deduceva che, avverso tale sentenza della Corte di Appello, era stato proposto ricorso per cassazione da parte del titolare dell’impresa che era stata autorizzata dal Comune all’occupazione d’urgenza dell’area successivamente espropriata, e che la Suprema Corte aveva cassato la decisione dei giudici di appello rinviando ad altra sezione, innanzi la quale il giudizio di rinvio era stato tardivamente riassunto.
Il Comune eccepiva altresì che, essendo passata in giudicato la sentenza della Corte di Appello con cui era stato dichiarato estinto il giudizio, non esisteva più il titolo esecutivo in forza del quale era stato notificato il precetto.
Ebbene, la Suprema Corte, chiamata a pronunziarsi sul caso de quo, ha ritenuto corretta la decisione dei giudici di merito che avevano rigettato l’opposizione a precetto, e, considerata la formazione del giudicato relativamente alla condanna di pagamento del Comune, ha applicato il combinato disposto di cui all’art.393 cpc e art. 310 cpc, comma 2, per il quale la mancata riassunzione del giudizio determina l’estinzione dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso, eccettuate quelle coperte dal giudicato, in quanto non impugnate.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 13098-2009 proposto da:
COMUNE (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore
– ricorrente –
contro
V.A.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 233/2009 del TRIBUNALE di CIVITAVECCHIA, depositata il 17/02/2009, R.G.N. 1880/2006;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. POLICASTRO Aldo che ha concluso per il rigetto del 1 e 2 motivo;
inammissibilità 3 e 4 motivo in subordine rigetto; rigetto del 5 motivo; inammissibilità 6 e 7 motivo.
Svolgimento del processo
Il Comune propose opposizione all’esecuzione avverso l’atto di precetto notificato in data 19 maggio 2006 ad istanza di V.A. sulla base della sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 1817 del 1992, notificata il 23 dicembre 2005, con la quale era stato intimato il pagamento della somma di lire 130.883.000, a titolo di indennità di espropriazione, oltre interessi e spese legali liquidate con la sentenza e successive (in particolare, le spese per la registrazione della sentenza). Dedusse l’opponente che il credito si era prescritto, essendo stato notificato il 6 maggio 1993 l’ultimo atto interruttivo della prescrizione.
Dedusse altresì che avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma era stato proposto ricorso da parte di Q.U. e che la Corte Suprema, con sentenza n. 1985 del 1996, aveva cassato la decisione e rinviato ad altra sezione della stessa Corte d’Appello, dinanzi alla quale il giudizio di rinvio era stato tardivamente riassunto – che la Corte d’Appello, con sentenza n. 810 del 2002, aveva dichiarato estinto il giudizio introdotto con l’atto di citazione notificato in data 28 aprile 1984 ed aveva dichiarato inammissibile l’autonoma domanda di opposizione all’indennità di esproprio proposta dal V. nella fase di rinvio; che, essendo passata in giudicato tale ultima sentenza, non esisteva più il titolo esecutivo in forza del quale il V. aveva notificato il precetto. Aggiunse, con riferimento a questo motivo di opposizione, che il V. aveva adito nuovamente la Corte d’Appello di Roma che, con sentenza n. 3422 del 2005, aveva dichiarato inammissibili le domande sul presupposto dell’esistenza di un precedente giudicato, riferibile alla sentenza n. 1817 del 1992, che non era stata appellata dal Comune di Civitavecchia ed era passata in giudicato “nella parte in cui ha affermato l’obbligo del Comune al versamento della somma da essa determinata ed ha respinto la domanda del V. nei confronti dell’impresa Quartullo”; che tuttavia tale ultima sentenza era da ritenersi errata e contraria alla sentenza n. 810 del 2002 e quindi il Comune stava predisponendo un ricorso per cassazione avverso la medesima.
Dedusse, ancora, l’opponente che, a seguito della sentenza n. 810 del 2002 della Corte d’Appello di Roma, che aveva statuito tra l’altro che le spese della precedente fase di merito e di quella di legittimità rimanevano a carico delle parti che le avevano anticipate, ai sensi dell’art. 310 c.p.c., u.c., il Comune di Civitavecchia aveva ottenuto il decreto ingiuntivo n. 48 del 2003 con il quale era stato ingiunto al V. di pagare la somma di Euro 10.145,10, dovuta a titolo di restituzione delle spese legali corrisposte dal Comune in forza della sentenza n. 1817 del 1992, oltre che della metà delle spese di registrazione anticipate dal Comune; che il V. non aveva opposto il decreto ex art. 645 cod. proc. civ. ed aveva provveduto al pagamento di quanto intimatogli.
Dedusse infine l’opponente che era errato il calcolo degli interessi, dei quali era stato intimato il pagamento con il precetto (nella misura del 5% annuo dal 18 luglio 1983 al 29 aprile 1984 e del 10% annuo dal 30 aprile 1984 fino all’effettivo deposito del capitale presso la Cassa Depositi e Prestiti) e che per gli stessi era maturata la prescrizione quinquennale.
Si costituì in giudizio il V. e contestò le avverse deduzioni, producendo, in particolare, un atto di diffida, inviato con lettera raccomandata del 30/31 ottobre 1995, da intendersi come atto interruttivo della prescrizione, al fine di resistere al primo motivo di opposizione. Il Tribunale di Civitavecchia, con sentenza pubblicata il 17 febbraio 2009, ha rigettato l’opposizione ed ha condannato l’opponente al pagamento delle spese di lite. Avverso la sentenza il Comune di Civitavecchia propone ricorso straordinario per cassazione a mezzo di nove motivi (erroneamente indicati come otto, essendo ripetuta due volte la numerazione relativa al 4^), illustrati da memoria. L’intimato V. si difende con controricorso, pure illustrato da memoria.
Motivi della decisione
Il presente ricorso per cassazione è soggetto, quanto alla formulazione dei motivi, al regime dell’art. 366 bis c.p.c. (inserito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, ed abrogato dalla L. 18 giugno 2008, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), applicabile in considerazione della data di pubblicazione della sentenza impugnata (17 febbraio 2009).
1.- Il secondo motivo del ricorso, con il quale si denuncia il vizio di violazione di legge; erronea e falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è inammissibile per difettosa formulazione del quesito di diritto.
Infatti, il quesito è formulato in termini tali (“se incorra in errore di diritto per violazione dell’art. 2948 c.c. il giudice di merito che, anzichè applicare il termine breve di prescrizione alle somme maturate a titolo di interessi, pur se liquidati in sentenza, applichi invece il termine ordinario di prescrizione di dieci anni”) da esprimere astrattamente la questione di diritto sottoposta all’esame della Corte (che, peraltro, è posta dando per scontato un principio opposto a quello astrattamente applicabile, fissato dall’art. 2953 cod. civ.). Il quesito di diritto non consente a questa Corte l’individuazione dell’errore di diritto denunciato dal ricorrente con riguardo alla fattispecie concreta nè l’enunciazione di una regula iuris applicabile anche in casi ulteriori rispetto a quello da decidere con la presente sentenza, poichè di tale caso e delle questioni che esso pone non è fornita alcuna valida sintesi logico-giuridica (cfr. Cass. S.U. n. 26020 del 30 ottobre 2008).
2.- Le ragioni di inammissibilità di cui sopra valgono anche con riferimento a tutti i successivi motivi di ricorso – esclusi quelli indicati sub 4^ alla pag. 12 e sub 5^ alla pag. 14 (su cui si tornerà) – con i quali si denunciano i vizi e si svolgono i quesiti di diritto di cui appresso:
– motivo sub 3^ a pag. 9: violazione di legge; erronea e falsa applicazione dell’art. 324 c.p.c. anche in riferimento all’art. 474 c.p.c. – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, cui corrisponde il seguente quesito di diritto: “se, nel contrasto tra due giudicati, debba prevalere il più recente rispetto al più vecchio, per cui erra il Giudice che per risolvere tale questione di diritto ometta di prendere in esame i giudicati più recenti”;
– motivo sub 4^ a pag. 13: violazione di legge; erronea e falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, cui corrisponde il seguente quesito di diritto: “se incorra in errore di diritto il giudice di merito che, in violazione dell’art. 295 c.p.c., non sospenda il giudizio in attesa dell’esito dei ricorsi che potrebbero comportare la declaratoria di inesistenza del titolo azionato con il precetto opposto”;
– motivo sub 6^ a pag. 16: violazione di legge; erronea e falsa applicazione dell’art. 480 c.p.c. in riferimento agli artt. 91 e ss. c.p.c. nonchè dell’art. 1263 c.c. – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, cui corrisponde il seguente quesito di diritto: “dica la Corte, visto che le spese sono richieste indebitamente trattandosi di un’obbligazione definita nel 2003, che gli interessi non sono dovuti nella misura richiesta per errata interpretazione della sentenza, se il Giudice viola l’art. 480 c.p.c. non riconoscendo la annullabilità dell’atto di precetto che contenga l’intimazione di pagamento di somme non dovute”;
– motivo sub 7^ a pag. 18: violazione di legge; erronea e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. per omessa valutazione delle prove documentali fornite – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, cui corrisponde il seguente quesito di diritto: “dica la Corte se il giudice viola l’art. 116 c.p.c. non svolgendo il compito di valutare le prove secondo un prudente apprezzamento, avuto riguardo alle molteplici violazioni di legge sopra evidenziate, in particolare in materia (di) prescrizione, di contrasto tra giudicati e di sospensione del giudizio”;
– motivo sub 8^ a pag. 19: violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, cui corrisponde il seguente quesito di diritto (che pone, peraltro, una questione già astrattamente inammissibile in quanto relativa al sindacato della Corte sul mancato esercizio del potere discrezionale del giudice di compensare le spese: cfr. Cass. n. 406/08): “se, vista la particolarità della fattispecie, incorra in errore di diritto il giudice di merito che, in violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, ometta di apprezzare la sussistenza di giusti motivi per compensare interamente le spese”. 3.- Parimenti inammissibile, per la violazione della diversa norma dell’art. 366 c.p.c., n. 6, quindi per difetto di autosufficienza, è il primo motivo di ricorso. Con tale motivo si denuncia violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 2943 cod. civ., in riferimento all’art. 1219 cod. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere il giudice di merito erroneamente qualificato come atto interruttivo della prescrizione la “lettera raccomandata che il V. inviò al Comune e da questo ricevuta in data 31.10.1995“, malgrado si trattasse, secondo il ricorrente, di una generica richiesta di pagamento dell’indennità di espropriazione e malgrado vi si facesse riferimento alla sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 1817/92 “al solo scopo di individuare il procedimento di esproprio e non per rivendicare il diritto al pagamento delle somme liquidate per sorte ed interessi nella sentenza medesima“, secondo quanto si legge in ricorso.
Al fine di rispettare il disposto di legge su richiamato il ricorrente avrebbe dovuto riprodurre il contenuto della lettera raccomandata del 30/31 ottobre 1995, integralmente o, quanto meno, per estratto contenente le parti significative al fine di consentire a questa Corte il sindacato richiesto sull’operato del giudice di merito.
3.1.- Quanto all’assunto del ricorrente secondo cui tra la missiva dell’ottobre 1995 e la notificazione della sentenza del 23 dicembre 2005 non vi sarebbero stati altri atti interruttivi della prescrizione, esso è smentito dall’indicazione contenuta alla pag. 2 dell’atto di citazione in primo grado di una “richiesta di ottemperanza alla predetta sentenza pervenuta in data 10 ottobre 2005”, secondo quanto testualmente riportato nel controricorso (che così riproduce il testo dell’atto processuale). L’ulteriore assunto del Comune secondo cui detta richiesta, così come altri atti eventualmente intervenuti nelle more, non sarebbero stati idonei ad interrompere la prescrizione incorre nel difetto di autosufficienza già rilevato al precedente punto 3: sarebbe stato onere del ricorrente smentire la qualificazione di “richiesta di ottemperanza” attribuita alla missiva della controparte con il proprio atto di citazione ed tale smentita sarebbe stata possibile soltanto riproducendo il contenuto della “richiesta di ottemperanza”, secondo quanto precisato sopra sub 3 a proposito dell’art. 366 c.p.c., n. 6. 4.- Restano da esaminare i motivi indicati sub 4^ alla pag. 12 e sub 5^ alla pag. 14, che, in quanto riferibili allo stesso motivo di opposizione all’esecuzione e perciò riguardanti questioni strettamente connesse, vanno esaminati congiuntamente.
Deduce il Comune ricorrente che avrebbe errato il Tribunale di Civitavecchia nel richiamare e condividere la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 3422 del 2005, che ha ritenuto essersi formato il giudicato (parziale) con riguardo alla sentenza n. 1872 del 1992 posta a base del precetto: secondo il ricorrente il Tribunale si sarebbe avvalso di una sentenza non esecutiva, quale quella del 2005, come se fosse passata in giudicato (mentre non era nemmeno esecutiva ex art. 282 cod. proc. civ.) e non avrebbe considerato che rispetto alla stessa sarebbe stata prevalente la declaratoria di estinzione di cui alla sentenza n. 810 del 2002 della stessa Corte d’Appello.
Quanto a quest’ultima, il ricorrente, nell’illustrare il motivo sub 5^, assume che, essendo relativa a cause inscindibili, essa avrebbe finito per travolgere anche la statuizione di condanna in favore del V. ed a carico del Comune contenuta nella sentenza n. 1872 del 1992, della cui esecuzione si tratta: più in particolare, secondo il ricorrente, l’obbligazione dell’ing. Q.U. – titolare dell’impresa che era stata autorizzata dal Comune all’occupazione d’urgenza dell’area di proprietà del V. e con la quale il Comune aveva stipulato una convenzione per la realizzazione di venti alloggi economici e popolari su detta area, allo scopo successivamente espropriata – non potrebbe essere scissa da quella avente ad oggetto il pagamento dell’indennità di espropriazione da parte dello stesso Comune nei confronti del soggetto espropriato;
ancora, essendo la misura dell’indennità di espropriazione oggetto anche del giudizio concluso con la sentenza di cassazione con rinvio n. 1985 del 1996, la tardiva riassunzione del giudizio di rinvio e la declaratoria di estinzione di cui alla sentenza n. 810 del 2002 sarebbero riferibili, secondo il ricorrente, anche alla pronuncia emessa nel giudizio estinto relativa ai rapporti tra il V. ed il Comune.
4.1.- Entrambi i motivi sono infondati.
E’ da escludere che il Tribunale abbia richiamato la sentenza n. 3422 (erroneamente indicata in sentenza come 3442) del 2005 avvalendosi di essa come contenente un giudicato vincolante nel presente giudizio, secondo quanto sembra supporre il Comune col primo dei motivi in esame. La ratio decidendi è espressa autonomamente nella sentenza impugnata ed il Tribunale si è avvalso del precedente giurisprudenziale richiamato, al solo fine di corroborare tale ragione della decisione; vale a dire, che il Tribunale ha posto a base della propria decisione i medesimi argomenti posti a base della statuizione di inammissibilità di cui alla sentenza della Corte d’Appello richiamata. Con la sentenza impugnata il Tribunale di Civitavecchia ha ritenuto che la sentenza n. 1817 del 1992, su cui è fondato il precetto, sia passata in giudicato e perciò sia titolo esecutivo valido ed efficace nei rapporti tra il Comune, soggetto tenuto al pagamento dell’indennità di espropriazione, ed il V., soggetto espropriato e creditore di tale indennità, così come determinata dalla Corte d’Appello di Roma nel giudizio di opposizione alla stima concluso con la sentenza predetta. Il Tribunale ha, perciò, ribadito che le statuizioni di merito in ordine al quantum dovuto per l’indennità di espropriazione contenute nella sentenza non sono state travolte dalla successiva declaratoria di estinzione del giudizio “atteso che il rapporto di garanzia impropria tra l’impresa Quartullo, ricorrente per cassazione, ed il Comune di Civitavecchia rende scindibile la causa principale dalla causa accessoria, la sola interessata dalla pronuncia in questione”. 5.- La decisione del Tribunale è corretta in diritto, in quanto conforme ai principi sulle cause scindibili espressamente richiamati, nonchè coerente con la previsione dell’art. 393 cod. proc. civ. anche in riferimento all’art. 310 c.p.c., comma 2.
Secondo quanto si legge alle pagg. 3-4 del ricorso, la sentenza n. 1817 del 1992, emessa dalla Corte d’Appello di Roma, chiamata a decidere in unico grado in giudizio di opposizione alla stima dell’indennità di espropriazione (ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 19) ha così statuito:
ha accolto l’opposizione alla stima di V.A. ed ha condannato il Comune di Civitavecchia a corrispondere, mediante deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti, all’attore, a titolo di indennità di espropriazione, la somma di lire 131.400.000, oltre accessori;
ha condannato Q.U., titolare dell’impresa convenzionata con il Comune, a rimborsare a quest’ultimo quanto dal Comune stesso versato in favore di V.A. per effetto della sentenza, comprese le spese di causa;
ha condannato il Comune di Civitavecchia a rimborsare le spese di giudizio in favore del V. ed il Q. a rimborsare le spese di lite in favore del Comune; ha compensato le spese tra il V. ed il Q.. Così statuendo, la Corte d’Appello ha finito per giudicare – non rileva oramai se correttamente, tenuto conto delle domande svolte in quel giudizio (per le quali, non è noto se fosse stata regolarmente proposta la domanda dal Comune nei confronti del Q., già citato in giudizio dal V.) e della tipologia del giudizio medesimo (su cui cfr. Cass. n. 10680/00, n. 25622/08) – su due distinti rapporti, l’uno afferente l’opposizione alla stima, avente la sua fonte nelle norme relative alle espropriazioni per pubblica utilità, rispetto al quale ha ritenuto legittimato esclusivamente il Comune di Civitavecchia nei confronti di V.A.; l’altro avente la sua fonte nella convenzione stipulata tra il Comune di Civitavecchia ed Q. U., che, secondo la stessa sentenza, avrebbe comportato l’obbligo di quest’ultimo di tenere indenne il Comune di quanto corrisposto all’espropriato a titolo di indennità di espropriazione.
Per effetto della pronuncia n. 1817 del 1992, si è venuta a determinare una situazione processuale coincidente con quella esaminata dai numerosi precedenti di questa Corte relativi ai rapporti di garanzia impropria, per i quali – per quanto rileva in questa sede – si è evidenziato che questa è così definita perchè l’azione principale e quella di garanzia sono fondati su due titoli diversi e che le relative cause sono scindibili, con la conseguenza che quando manchi da parte del convenuto soccombente l’impugnazione della pronuncia sulla causa principale, su quest’ultima si forma un giudicato, che non estende i suoi effetti a colui che risponde a titolo di garanzia impropria (cfr. Cass. n. 1077/03; n. 13684/06, n. 2557/10); quest’ultimo pertanto può impugnare la sentenza anche rispetto alla statuizione sul rapporto principale, ma soltanto nei limiti in cui questa abbia incidenza sul diverso rapporto che intercorre tra garante e garantito (cfr. Cass. n. 546/97, nonchè n. 13265/92, in una fattispecie analoga alla presente). La sentenza n. 1817 del 1992 venne impugnata soltanto dal Q., che non risulta avere mosso contestazioni di rito rispetto alla pronuncia di condanna nei confronti del Comune (in particolare, quanto alla sua ammissibilità nel giudizio introdotto dal soggetto espropriato), ma soltanto contestazioni di merito afferenti la convenzione che regolava il suo rapporto con il Comune ed il quantum dell’indennità;
la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 1985 del 1996 accolse il motivo di ricorso riguardante la determinazione dell’indennità, con le motivazioni riportate alla pag. 10 del ricorso (in particolare, per l’entrata in vigore di una nuova disciplina della determinazione dell’indennità di espropriazione delle aree edificabili e di quelle agricole, della quale l’impresa ricorrente aveva chiesto l’applicazione).
La cassazione della sentenza impugnata, tuttavia, non avrebbe potuto operare oltre i limiti dell’impugnazione, che devono intendersi definiti alla stregua dei principi sopra richiamati: non essendo stata impugnata la statuizione di condanna del Comune nei confronti del V. – e non essendo nemmeno legittimato a tale impugnazione il Q. – essa passò in giudicato; l’impugnazione del Q. non potè che essere limitata al rapporto fondato sulla convenzione stipulata col Comune e, quindi, alla determinazione del quantum soltanto nei limiti di quanto dovuto dallo stesso Q. al Comune.
5.2.- Ritenuta la formazione del giudicato relativamente alla condanna del Comune nei confronti di V., contenuta nella sentenza n. 1817 del 1992, trova applicazione il principio, desumibile dal combinato disposto dell’art. 393 c.p.c. e art. 310 c.p.c., comma 2, per il quale la mancata riassunzione del giudizio di rinvio determina, ai sensi dell’art. 393 cod. proc. civ., l’estinzione non solo di quel giudizio ma dell’intero processo, con conseguente caducazione di tutte le sentenze emesse nel corso dello stesso, eccettuate quelle già coperte dal giudicato, in guanto non impugnate (cfr. Cass. n. 11881/93, n. 12262/95, n. 17372/02).
Ne segue che la dichiarazione di estinzione del processo di cui alla sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 810 del 2002, in sè corretta, non può che produrre gli effetti sanciti dall’art. 393 cod. proc. civ., come sopra interpretato, e non quelli pretesi dal ricorrente.
Il processo introdotto con la citazione notificata il 28 aprile 1984 si è estinto, ma non ha travolto le statuizioni della sentenza n. 1817 del 1992 coperte dal giudicato.
Il ricorso va rigettato.
6.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in favore del resistente nell’importo complessivo di Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA come per legge.
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Numero Protocolo Interno : 674/2012