ISSN 2385-1376
Testo massima
E’ illegittima l’estensione al reddito da lavoro autonomo della presunzione già stabilita per il reddito di impresa, in virtù della quale è ipotizzato che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito.
La Consulta si esprime in tema di prelievi dal conto corrente bancario effettuati dai professionisti, sancendo l`incostituzionalità della norma che equipara i redditi dei professionisti a quelli delle imprese.
La “rivoluzionaria” Sentenza in commento, va ad incidere sul testo della norma di cui all’art. 32, comma 1, n.2 del Dpr 600/73, così come modificata dall’art. 1, comma 402, della L. n. 311/2004 (c.d. Finanziaria 2005): quest’ultimo provvedimento aveva esteso, anche ai lavoratori autonomi, le presunzioni – prima apparentemente destinate ai soli titolari di reddito di impresa – sui prelevamenti in contanti (qualora privi dell’indicazione di un beneficiario), con la conseguenza che l’Amministrazione presumeva automaticamente tali movimentazioni come maggiori “compensi”, la cui prova negativa sarebbe dovuta essere fornita dallo stesso contribuente accertato.
La questione era stata sollevata dalla Commissione tributaria Regionale di Roma (Ord. n. 27/29/2013 del 10.6.2013), che aveva rilevato il dubbio di costituzionalità sulla base della lettura “a fronte” del testo integrato dalla L. n. 311 del 2004 del citato art. 32, 1° comma, n. 2, seconda parte, del D.P.R. n. 600/1973, che estende, con portata innovativa, l’ambito applicativo della disposizione anche al reddito di lavoro autonomo. Ciò in quanto sussisterebbe, a detta del collegio regionale, violazione dell’art. 24 Cost. poichè la previsione di uno specifico comportamento, col relativo onere probatorio – operazione bancaria, identificazione del beneficiario – non consentirebbe ex post la precostituzione della prova di un determinato comportamento. Di talchè, il contribuente, non avrebbe modo di dimostrare a posteriori la causale della movimentazione e l’utilizzo della somma, atteso che sulla base della norma vigente ratione temporis non poteva sapere o, tantomeno prevedere che quel comportamento, all’epoca del tutto lecito, sarebbe potuto essere fonte di presunzione di compensi “in nero”.
Tuttavia, nella medesima ordinanza, la Commissione Tributaria capitolina eccepisce un’altra questione di primaria importanza: la citata disposizione normativa in esame infatti, violerebbe anche l’art. 3 della Carta Costituzionale, poiché verrebbe altresì richiesto ai contribuenti un quid pluris rispetto al dato normativo, ovverosia non solo il beneficiario effettivo dei prelevamenti, ma anche la giustificazione causale dei prelevamenti, ergo, dell’intera transazione posta in essere.
E questi giustificativi di spesa, richiesti a distanza di tempo ragguardevole, possono essere tutt’altro che agevoli da reperire anche per il contribuente che si sia comportato secondo buona fede.
A seguito di tali censure, la Corte Costituzionale ha dapprima appurato che, quand’anche le figure di imprenditore e lavoratore autonomo possano per molti versi ritenersi affini, non è comunque possibile equipararle per quanto attiene alla presunzione “prelevamento = ricavo”, in quanto l’attività dei lavoratori autonomi, come noto, a differenza degli imprenditori si caratterizza per la prevalenza del proprio lavoro e la marginalità dell’apparato organizzativo, “sino a divenire quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali”.
Ad avvalorare la tesi dell’irragionevolezza della presunzione de qua, si aggiunga altresì che gli eventuali prelevamenti si inseriscono in un sistema di contabilità semplificata – del quale per lo più si avvale la categoria degli autonomi per cui da tale circostanza contabile deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali (pochi sono gli autonomi infatti che possiedono un conto corrente dedicato all’attività professionale ed uno di natura squisitamente “personale”).
Per quanto concerne infine la necessità di combattere l’evasione fiscale, ritenuta quanto mai rilevante nel settore, aggiungono i Giudici delle Leggi, “dal 1° gennaio 2014 vi è l’obbligo sia pure sprovvisto di sanzioni di accettare pagamenti, di importo superiore a trenta euro, effettuati con carte di debito in favore di imprese e professionisti per l’acquisto di prodotti o per la prestazione di servizi”.
Concludono dunque gli stessi affermando che “nel caso di specie la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito”, con conseguente dichiarazione di illegittimità dell’art. 32 comma 1, numero 2), secondo periodo, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1), della Legge 30 dicembre 2004, n. 311.
Una presa di coscienza della irragionevolezza della norma in esame, dunque, da plaudire in maniera quanto mai profonda in capo ai Giudici costituzionali, i quali vanno ad incidere positivamente sulle possibilità di difesa dei professionisti a seguito di accertamenti bancari: accertamenti in cui, ad oggi, le possibilità discrezionali del fisco erano (e per certi versi lo sono ancora) quanto mai ampie e difficili da contrastare da parte del contribuente.
Testo del provvedimento
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Numero Protocolo Interno : 47/2014