ISSN 2385-1376
Testo massima
Il trust di garanzia, finalizzato alla liquidazione del patrimonio ed alla distribuzione del ricavato ai creditori, potrebbe certamente costituire uno strumento efficiente rispetto alla concessione di una mera garanzia reale sui beni sia in ambito concordatario sia nell’ambito degli accordi di ristrutturazione dei debiti ai sensi dell’art. 182-bis l.fall.
L’istituto non appare ancora definito a livello normativo e, soprattutto, fiscale. Infatti, il comportamento tenuto dagli Uffici periferici dell’Agenzia delle Entrate, seguendo alla lettera le indicazioni contenute nelle circolari n. 48/E/2007 e n. 3/E/2008 citate, è stato quello di ritenere applicabile l’imposta sulle successioni e donazioni in misura proporzionale con l’aliquota dell’8 per cento.
Il dott. Alessandro Pellegatta, responsabile credito anomalo Ubi Banca,fornisce in materia un prezioso contributo chiarificatorio. L’articolo mette in luce i possibili utilizzi del trust di garanzia al fine di meglio contemperare le esigenze dei creditori in ambito concordatario e negli accordi di ristrutturazione dei debiti.
Di seguito, il contributo in forma integrale.
Il trust di garanzia come strumento innovativo nell’ambito della composizione della crisi d’impresa: brevi profili civilistici e fiscali
Di Alessandro Pellegatta (UBI Banca)
1- Premessa e differenze tra trust di garanzia e trust liquidatorio anti-concorsuale
Si assiste ormai di frequente ad azioni di risanamento inerenti società operanti nel settore real estate, oppure relative a società titolari di assets immobiliari che vengono utilizzati per il deleverage delle posizioni. Spesso la concreta “fattibilità” di tali azioni di risanamento appare strettamente correlata ai tempi e alle modalità di cessione del patrimonio immobiliare della società in crisi. La costituzione del trust di garanzia può essere utilmente concepita come uno strumento più efficace ed` efficiente rispetto alla concessione di una mera (ulteriore) garanzia reale sui beni atta ad assicurare l’effettiva destinazione degli stessi per il pagamento dei creditori, tramite la costituzione di un vincolo in forza del quale il trust appare finalizzato alla liquidazione del patrimonio ed alla distribuzione del ricavato ai creditori medesimi. L’uso di tale trust, oltre che in ambito concordatario, si può immaginare anche negli accordi di ristrutturazione dei debiti di cui all’art. 182bis l.fall. quale strumento funzionale al controllo dei modi e dei tempi di esecuzione degli accordi stessi e per aumentarne il livello di trasparenza: spesso le imprese titolari degli assets immobiliari non dispongono delle necessarie competenze per valorizzare i beni immobili sul mercato, e un trustee qualificato (eventualmente affiancato da un guardian nominato dal tribunale in funzione di vigilanza e controllo) accrescerebbe di gran lunga la trasparenza e le chance di vendita degli assets, garantendo il buon esito dell’intera operazione di risanamento.
Il trust di garanzia potrebbe pertanto rappresentare un valido strumento per favorire una liquidazione controllata degli assets del debitore. Purtroppo l’utilizzo del trust quale strumento di segregazione patrimoniale in Italia nell’ambito della composizione della crisi d’impresa reversibile appare ancora alquanto limitato, e si scontra con norme interne (specie quelle tributarie) molto penalizzanti ed illogiche; attualmente il trust di garanzia, pur essendo sprovvisto di qualsiasi intento di liberalità nei confronti del trustee, in Italia sconta tuttora le imposte di registro, ipotecarie e catastali non nella misura fissa bensì proporzionale, rilevando anche ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni. Si assiste in particolare a disparità di trattamento in relazione alla tassazione indiretta da parte dei vari uffici delle Agenzie delle entrate, che applicano tassazioni diverse a casi uguali o analoghi, creando una notevole incertezza giuridica.
La principale finalità del presente intervento è quella di inquadrare l’istituto sia sul fronte civilistico sia sul fronte tributario, confidando in una sua futura valorizzazione onde garantire la tenuta e la fattibilità delle azioni di risanamento (concordati e accordi di ristrutturazione) che prevedano la vendita di assets immobiliari per il riequilibrio finanziario dell’impresa in crisi, sempre nel pieno rispetto dei principi introdotti nel nostro ordinamento col recepimento della Convenzione dell’Aja. Ovviamente l’istituto del trust di garanzia è altra cosa rispetto al c.d. trust liquidatorio anti-concorsuale (cioè finalizzato a sostituirsi alla procedura fallimentare), che a volte viene costituito in presenza di un preesistente stato di insolvenza del disponente e che, proprio in virtù delle norme (art.15 lettera e) della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, non può e non potrà essere mai riconosciuto dal nostro ordinamento, in quanto in contrasto col principio di tutela del ceto creditorio (si veda da ultimo Cassazione civile, Sezione Prima, 9 maggio 2014 n.10105). Onde evitare che il trust di garanzia sia dichiarato nullo è pertanto fondamentale sempre valutare, all’atto della sua costituzione, l’insussistenza dello stato d’insolvenza dell’impresa disponente (settlor), nonché la presenza nell’atto costitutivo di una clausola di risoluzione allorché subentri una procedura concorsuale (c.d. clausola di salvaguardia).
A partire dagli Anni Novanta il trust in Italia ha avuto un percorso molto tortuoso, e si è dovuto fare strada tra opinioni discordanti in dottrina e giurisprudenza, tra pregiudizi dei pratici e del pubblico nei confronti di questo istituto di common law. Alla giurisprudenza dobbiamo buona parte del merito dell’aver progressivamente metabolizzato il trust, dipanando l’alone di sospetto che per anni ha aleggiato intorno ad esso. Non si è invece distinto per chiarezza il legislatore italiano, che dopo oltre vent’anni dall’adesione alla Convenzione dell’Aja non ha ancora emanato una legge regolativa o di inserimento per il trust. La Pubblica Amministrazione (rectius: l’Agenzia dell’Entrate) si è invece distinta per aver riconosciuto il trust in sede tributaria, sebbene con esiti non incoraggianti (se non di vero e proprio accanimento fiscale).
Nel nostro sistema, le garanzie reali sono spesso costrette da formalismi, talvolta da ingenti costi e dalla difficoltà di soddisfare le legittime aspettative del creditore garantito, a causa dell’inadeguatezza dei procedimenti esecutivi, che in Italia sono ancora eccessivamente lunghi e macchinosi. Ciò vale per il pegno in primo luogo, ma anche nel caso di ipoteca immobiliare. Nell’attesa (e nel comune auspicio) che anche nel nostro paese possano venir introdotti i principi del floating charge, l’utilizzabilità del trust potrebbe ovviare a tali problemi rendendo un più efficace ed efficiente strumento di tutela per i creditori che aderiscono a manovre di risanamento che vedono l’intervento (omologa) di un tribunale. In questa prospettiva il sistema di garanzie reali, rigido e costoso in termini di formalità e tempistiche, potrebbe progressivamente mutarsi, grazie all’applicazione strategica del trust, in un variegato ventaglio di opzioni flessibili e competitive sul mercato delle garanzie.
2- Fonti normative: la Convenzione dell’Aja
Il trust è stato introdotto nel nostro sistema giuridico con la sottoscrizione della Convenzione dell’Aja dell’1 luglio 1985, ratificata con legge 364/1989, in vigore dall’1 gennaio 1992.
Il trust è un tipico istituto di diritto anglossassone che si sostanzia in un negozio giuridico fondato sul rapporto di fiducia tra il disponente (settlor) e il gestore (trustee). Il disponente trasferisce alcuni beni di sua proprietà al trust e designa un gestore che li amministra nell’interesse dei beneficiari individuati in sede di costituzione del trust o in un momento successivo, o per uno scopo prestabilito (anche di garanzia).
In buona sostanza, attesa la natura privatistica dell’istituto, il trust è essenzialmente un “accordo contrattuale” fra due soggetti privati per il quale, a differenza di quanto accade per le società di capitali, non sono previsti obblighi di registrazione e non esistono registri pubblici dedicati né autorità incaricate di vigilanza. L’effetto principale dell’istituzione di un trust – che può assumere variegate forme giuridiche, a seconda dell’obiettivo (lecito) che si vuole perseguire – è la segregazione patrimoniale, in virtù della quale i beni in trust costituiscono un patrimonio separato e autonomo rispetto al patrimonio del disponente, del trustee e dei beneficiari, con la conseguenza che tali beni non potranno essere escussi dai creditori di tali soggetti.
La segregazione patrimoniale è pertanto l’effetto caratterizzante l’istituto: i beni conferiti in trust vengono “blindati” ossia separati rispetto ai beni residui che compongono il patrimonio del disponente, del trust (proprietario formale) e del beneficiario (proprietario sostanziale) costituendo un patrimonio separato, non aggredibile dai creditori di detti soggetti. In assenza di una specifica disciplina civilistica interna del trust, è necessario ricorrere alla definizione prevista dalla Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985 – ratificata nel nostro ordinamento con legge 364/1989 – secondo cui il trust si caratterizza:
– per la separazione dei beni del trust rispetto al patrimonio del disponente, del trustee e dei beneficiari;
– per l’intestazione dei beni medesimi al trustee;
– per il potere-dovere del trustee di amministrare, gestire e disporre dei beni secondo il regolamento del trust o le norme di legge.
3 I possibili profili di abuso e deviazione del trust
L’istituto, e questo forse più di altri, si presta comunque a possibili deviazioni ed abusi, viste le sue caratteristiche intrinseche. Infatti, parte rilevante dell’attrattiva consistente nei possibili profili di abuso del trust risiede nel fatto che l’istituto stesso si contraddistingue per un elevato livello di privacy e un’autonomia gestoria molto più marcata rispetto a quello di cui ordinariamente godono altri istituti.
Una forma impropria del trust è quella in cui il rapporto fiduciario viene costituito per nascondere l’esistenza di attività all’Amministrazione finanziaria, ai creditori, o per occultare l’identità dell’effettivo beneficiario oppure, ancora, quando viene istituito al fine di perpetrare truffe di natura fiscale (ad esempio, un disponente, nel tentativo di evadere le imposte, potrebbe decidere di trasferire naturalmente in maniera simulata le proprie attività patrimoniali o economiche in un trust e successivamente attestare falsamente di averne ceduto il controllo su di esse). A tal riguardo, una delle modalità più frequenti per conseguire siffatti scopi fiscalmente illeciti è quella dei cosiddetti sham trust, ossia del trust simulato, che si realizza attraverso l’interposizione fittizia, i cui elementi di prova possono essere vari.
Altro utilizzo improprio del trust è quando l’istituto vorrebbe sostituirsi alla procedura fallimentare per impedire lo spossessamento dell’imprenditore insolvente (c.d. trust liquidatorio anti-concorsuale). E’ evidente che non è lecito segregare beni dell’impresa a scapito (in elusione) della procedura fallimentare, destinata obbligatoriamente a sopravvenire nel caso di insolvenza del disponente proprio per tutelare la par condicio creditorum e che non è in alcun modo sostituibile. La conseguenza necessaria sarà, in ogni caso, che il giudice che pronuncia la sentenza dichiarativa di fallimento dovrà provvedere incidenter tantum al disconoscimento del trust liquidatorio, il quale finirebbe per eludere artificiosamente le disposizioni concorsuali sottraendo al curatore la disponibilità dell’attivo societario. Per effetto dello spossessamento fallimentare che priva il fallito della disponibilità dei suoi beni, il curatore potrà pertanto materialmente procedere all’apprensione degli stessi; il giudice che pronuncerà la sentenza dichiarativa di fallimento del disponente provvederà anche al disconoscimento del trust liquidatorio anti- concorsuale.
4 Gli attuali profili fiscali del trust
L’Agenzia delle Entrate, in proposito, ha chiarito che, tra i c.d. “vincoli di destinazione” ex articolo 2, comma 47, del Dl 262/2006, convertito con modificazioni dalla L. 24 novembre 2006, n. 286 rientrerebbe anche la costituzione di trust, pur con le sue peculiarità (circolare n. 3/2008). In particolare, tale norma ha lasciato ampio spazio ed eccessi di libertà interpretativa da parte dell’Amministrazione finanziaria, che ha finito con l’estendere anche agli atti costitutivi di “vincoli di destinazione” le nuove norme sulle imposte di successione e donazione. Le aliquote previste per i trasferimenti devoluti a favore di “altri soggetti” (es: creditori) sono molto pesanti (8%). A tale legge sono seguite le intenzioni “chiarificatorie” dell’Agenzia delle entrate che di seguito verranno citate.
Come specificato anche dalla circolare 48 dell’8 agosto 2007, secondo l’Agenzia delle entrate il trust si sostanzierebbe in un rapporto giuridico complesso, con un’unica causa fiduciaria che ne caratterizza tutte le fasi, dalla sua istituzione alla sua devoluzione. In definitiva, il trust rientrerebbe nell’ambito applicativo dell’imposta sulle successioni e donazioni quale diretta conseguenza della segregazione dei beni che esso produce, sia rispetto al patrimonio personale del disponente sia rispetto a quello dell’intestatario di tali beni. Stando alla predetta circolare, nel trust di scopo l’imposta sarebbe dovuta nella misura dell’8%. Inoltre, alle imposte sulle successioni e donazioni sarebbero dovute anche le imposte ipotecarie catastali in misura proporzionale relativamente alla trascrizione di atti che conferiscono nel trust, con effetti traslativi, beni immobili o diritti reali immobiliari. Le tesi dell’Agenzia delle entrate sono volte addirittura a legittimare l’anticipazione del prelievo fiscale al momento della costituzione dei beni nel trust; tale pretesa è stata tempo per tempo decisamente respinta dalla giurisprudenza di merito, seppur con iter motivazionali differenti.
Stando ad altra giurisprudenza di merito, il “giusto” momento impositivo andrebbe individuato nell’effettivo (e definitivo) incremento di ricchezza a favore del beneficiario. Peccato che nel trust di garanzia non ci siano “beneficiari” finali, essendo la causa del veicolo trust la garanzia delle banche creditrici di veder rimborsate proprie linee di credito da parte del debitore che versa in stato di crisi.
Va da sé che nuove norme di esenzione dalle imposte indirette, tasse, imposte sostitutive e di bollo per i trust di garanzia dei creditori del disponente favorirebbero di gran lunga l’utilizzabilità dell’istituto nell’ambito della composizione della crisi d’impresa. Parimenti, anche in tema di imposte sui redditi (visto che il trust è un soggetto IRES) eventuali esenzioni ex art.58 del TUIR (DPR 22 dicembre 1986 n.917 e s.m. e i.) sul realizzo di plusvalenze / minusvalenze agevolerebbero di gran lunga l’utilizzo dell’istituto.
5 – Conclusioni
La costituzione del trust di garanzia può essere concepita come uno strumento più efficiente della concessione della tradizionale garanzia reale. Nel concordato misto potrebbe superare le incertezze interpretative, mentre negli accordi di ristrutturazione ex art.182bis l.fall. diverrebbe uno strumento funzionale al controllo dei modi e dei tempi di esecuzione degli accordi medesimi, aumentandone il livello di trasparenza, riducendo altresì il rischio che i creditori meglio organizzati e più rilevanti possano entrare in conflitto col debitore al fine di “indirizzare” le ristrutturazioni verso risultati espropriativi estranei alla “direzione” dell’operazione di risanamento. A sua volta, il tribunale omologante potrebbe nominare un guardian del trust, individuando un organo di vigilanza con funzioni analoghe a quelle del commissario giudiziale.
Visto quanto sopra, occorrerebbe superare le diffidenze e l’accanimento tributario che continuano ad aleggiare sull’istituto. L’utilizzo del trust di garanzia potrebbe costituire infatti una valida alternativa per l’attuazione dei concordati e degli accordi di ristrutturazione, nel pieno rispetto delle norme sull’insolvency introdotte dall’art.15 della Convenzione dell’Aja. E questo in un momento in cui sussistono rilevanti incertezze nell’attuazione dei piani dismissori immobiliari, spesso elaborati su ipotesi di vendita irrealistiche, che presentano scarsa trasparenza e con tempistiche troppo stringenti (considerato anche l’attuale downtrend del mercato immobiliare).
Di seguito, altri contributi del dott. Pellegatta per Ex Parte Creditoris:
Testo del provvedimento
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