ISSN 2385-1376
Testo massima
È tenuto al risarcimento dei danni nei confronti della società, l’amministratore che non abbia adempiuto agli obblighi tributari per mancanza di liquidità.
In presenza di una crisi di liquidità, l’amministratore ha l’obbligo di convocare l’assemblea per deliberare l’aumento del capitale sociale ovvero per proporre la liquidazione della società.
È quanto stabilito dalla Corte di Cassazione che, con la sentenza n.5105 del 05/02/2014, ha rigettato il ricorso proposto da due manager ritenuti responsabili, in qualità di amministratori di una società, per non aver pagato l’IVA.
In particolare, ricostruendo la vicenda, una società aveva convenuto in giudizio i due manager con il fine di ottenere il risarcimento dei danni per inadempimento degli obblighi tributari, non avendo, gli stessi, in veste di amministratori, effettuato il pagamento dell’Iva relativa ai periodi di gestione.
Gli amministratori, condannati in primo ed in secondo grado al pagamento di un somma a titolo di risarcimento danni, proponevano ricorso innanzi alla Suprema Corte deducendo la violazione dell’art.2392 cc, per aver la Corte d’Appello erroneamente sancito la responsabilità degli stessi, senza considerare che tale comportamento era necessitato dalla mancanza di liquidità della società gestita.
I Giudici di legittimità, sulla scorta di una costante giurisprudenza in materia, hanno chiarito che “in caso di violazione degli obblighi specifici derivanti dall’atto costitutivo o dalla legge, la responsabilità degli amministratori di una società può essere esclusa solo nel caso, previsto dall’art. 1218 c.c., in cui l’inadempimento sia dipeso da causa non imputabile e che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore (v. Cass. n. 5718/2004)“. L’onere di fornire la prova, ricorda inoltre la Corte, spetta agli amministratori convenuti in giudizio.
Gli ermellini, hanno, dunque, concluso affermando che in presenza di una crisi di liquidità all’interno della società, gli amministratori devono convocare l’assemblea per deliberare l’aumento del capitale sociale o, altrimenti, per proporre la liquidazione della società stessa.
Sulla base di tali considerazioni, il Supremo Collegio ha respinto il ricorso e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese di giudizio.
Testo del provvedimento
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE CIVILE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso 9391-2008 proposto da:
SR DE
Elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZALE CLODIO 22, presso l’avvocato(OMISSIS), rappresentati e
difesi dall’avvocato (OMISSIS), giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
Società S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TEODOSIO MACROBIO 3, presso l’avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato (OMISSIS),, giusta procura in calce al controricorso;
-controricorrenti-
avverso la sentenza n. 1341/2007 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 10/10/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/01/2014 dal Consigliere Dott. ANTONIO PIETRO LAMORGESE;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato (OMISSIS), che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
La società convenne in giudizio i sig.ri RS ed ED che erano stati amministratori della società in vari periodi tra il 1987 e il 1999, per farne accertare la responsabilità, a norma dell’art. 2392 c.c., e condannarli al risarcimento dei danni. L’addebito rivolto nei loro confronti era di non avere effettuato il pagamento di vari tributi (Iva, Iciap e Tassa smaltimento dei rifiuti); di avere, il S liquidato al D un compenso superiore a quello pattuito per l’attività prestata in favore della società e provveduto all’assunzione di RD (fratello di E) con una qualifica e un salario superiori a quelli corrispondenti alle mansioni svolte; di avere il convenuto D agito in concorrenza con la società da lui amministrata.
Le domande furono accolte dal Tribunale di Livorno che condannò il S al pagamento di 101.362,34, di cui 39.347,20 in solido con il D e quest’ultimo al pagamento di 47.825,35, di cui E 39.347,20, in solido con il S , oltre interessi e rivalutazione.
L’appello proposto dai sig.ri S e D è stato rigettato dalla Corte di appello di Firenze, con sentenza 10 ottobre 2007, che, per quanto ancora interessa, ha ritenuto che l’inadempimento degli obblighi tributari esponeva gli amministratori a responsabilità verso la società per il carico sanzionatorio derivante dalle violazioni riscontrate in sede di accertamento tributario, non rilevando la situazione, peraltro neppure dimostrata, di carenza di liquidità in cui versava la società, la quale non poteva comunque giustificare il mancato pagamento dei tributi. La corte ha ritenuto che gli altri addebiti, risultanti documentalmente e sulla base delle testimonianze assunte, dimostravano che essi avevano perseguito interessi propri o di altre persone, a detrimento degli (e in conflitto con gli) interessi della società che avrebbero dovuto perseguire; inoltre, ha condiviso la decisione del primo giudice che aveva ravvisato la violazione del divieto di concorrenza da parte di ED, il quale aveva agito in conflitto di interessi con la I per la stipulazione di un contratto nell’interesse di altra società per la quale agiva come procacciatore di affari.
Avverso questa sentenza i sig.ri S e D ricorrono per cassazione sulla base di tre motivi cui resiste la società I
Motivi della decisione
1.- Nel PRIMO MOTIVO i ricorrenti deducono la violazione dell’art. 2392 c.c.: la corte del merito erroneamente avrebbe ritenuto la loro responsabilità, nella qualità di amministratori della I, per avere omesso il versamento dei tributi, senza considerare che tale comportamento era necessitato per la carenza di liquidità che essi non avevano potuto dimostrare nel giudizio di merito, non essendo stata ammessa una c.t.u.
1.1.- Il motivo è infondato.
La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito che, in caso di violazione degli obblighi specifici derivanti dall’atto costitutivo o dalla legge, la responsabilità degli amministratori di una società può essere esclusa solo nel caso, previsto dall’art. 1218 c.c., in cui l’inadempimento sia dipeso da causa non imputabile e che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore (v. Cass. n. 5718/2004). L’onere di fornire la prova spetta agli amministratori convenuti in giudizio e, nella specie, essi hanno dedotto di non avere potuto provvedere al pagamento delle somme dovute all’Erario per una situazione di carenza di liquidità in cui si trovava la società.
Tuttavia, la corte di merito ha ritenuto che di tale situazione non vi fosse prova e avverso questa statuizione i ricorrenti si sono limitati a lamentare la mancata ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio, senza assolvere all’onere di indicare nel ricorso per cassazione il preciso atto processuale nel quale essi abbiano avanzato istanza di consulenza tecnica, né dimostrare la sussistenza di un nesso eziologico tra l’errore addebitato al giudice e la pronuncia emessa in concreto che senza quell’errore sarebbe stata diversa, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo sulla decisività di quella istanza (v., tra le altre, Cass. n. 6115/2000, n. 2894/1999).
La corte del merito ha poi aggiunto che, in presenza di una crisi di liquidità, gli amministratori avrebbero potuto e dovuto convocare l’assemblea per deliberare l’aumento del capitale sociale o, altrimenti, per proporre la liquidazione della società, e avverso questa statuizione i ricorrenti si sono limitati a riproporre la questione della carenza di liquidità come causa ostativa di quel comportamento ritenuto doveroso nella sentenza impugnata. Questa statuizione esprime una valutazione di fatto incensurabile in sede di legittimità ove, come nella specie, adeguatamente motivata.
2.- Nel SECONDO MOTIVO è dedotta la violazione dell’art. 2697 c.c. per avere ritenuto provato il danno lamentato dalla società senza che quest’ultima avesse dimostrato i fatti costitutivi. La tesi esposta dai ricorrenti è che per pagare i tributi essi avrebbero dovuto chiedere un, tra l’altro improbabile, finanziamento alla banca che avrebbe comportato una ulteriore esposizione della società per spese per interessi.
2.1.- Il motivo è inammissibile.
La pronuncia di merito è viziata in relazione al parametro normativo sopra indicato solo ove il giudice abbia erroneamente applicato i principi regolatori dell’onere della prova. Diversamente, la questione attiene alla valutazione delle risultanze processuali e ridonda in eventuale vizio di motivazione che, come appunto nella fattispecie, avrebbe dovuto essere censurato con un mezzo adeguato allo scopo (ex art. 360 n. 5 c.p.c.).
3.Il TERZO MOTIVO deduce insufficienza motivazionale in ordine alla dimostrazione della sussistenza della responsabilità e dell’ammontare del danno subito dalla società.
3.1.- Il motivo è inammissibile. Infatti, manca un momento di sintesi autonomo e adeguato al vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c., essendo applicabile ratione temporis l’art. 366 bis c.p.c., e la censura prospetta una valutazione delle questioni di fatto in senso difforme da quella operata dal giudice di merito, senza lo svolgimento di argomentate critiche alla completezza e logicità delle ragioni della decisione.
4.Il ricorso è rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in E 9200,00, di cui e 9000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
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Autore, Titolo, in Ex Parte Creditoris - www.expartecreditoris.it - ISSN: 2385-1376, anno
Numero Protocolo Interno : 158/2014